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Lo sguardo fisso verso la cima

C’è chi la montagna la vive come una saltuaria fuga dalla città, chi la guarda solo da lontano, chi la teme. Federica Mingolla, invece, è una di quelle persone che ha deciso di fare della montagna la sua casa, il suo habitat, la sua felicità. 

Climber professionista e aspirante guida alpina, spende la maggior parte del suo tempo tra le vette della Valle d’Aosta. Sempre in cerca di una nuova sfida, la sua vita si è adattata alla presenza della natura, che impone le sue condizioni e i suoi ritmi. Il rapporto che ne è scaturito, fatto di amore e rispetto, ha portato Federica a dedicarsi non solo ai traguardi più ambiziosi, ma anche alla salvaguardia dell’ambiente che la ospita.

Raccontaci la tua storia. Come è nata la tua passione per l’alpinismo e per l’arrampicata?

Ho iniziato ad avvicinarmi alla montagna quando ero molto piccola sulle vie ferrate. Successivamente, all’età di 15 anni, ho cominciato a scalare in una palestra indoor a Torino, la mia città. Da quel momento, non mi sono più fermata; mi sono riavvicinata all’outdoor iniziando a scalare su roccia; la mia passione è cresciuta sempre di più e mi sono spostata in fretta dalle falesie all’alta montagna. Ormai sono anni che pratico quasi esclusivamente l’alpinismo.

È da qui che nasce il tuo desiderio di diventare guida alpina?

Tutto è iniziato quando mi sono resa conto di quanto amassi stare in montagna e quanto mi trovassi in perfetta sintonia con quell’ambiente. Appena ho compiuto 21 anni, mi sono trasferita in Valle d’Aosta e non sono più tornata indietro. È stata una scelta di vita radicale, ma ne è valsa assolutamente la pena.

C’è stato qualcuno che in qualche modo ti ha spinto ad avvicinarti al mondo della montagna e dell’alpinismo? 

Sicuramente le amicizie che ho avuto hanno influenzato il mio modo di approcciarmi alla montagna. Mi sono sempre lasciata ispirare dalle persone che ammiravo e con cui passavo la maggior parte del mio tempo a seconda dei momenti della mia vita. C’è stato un periodo in cui andavo tanto in falesia con i miei amici che scalavano, uno in cui frequentavo gente veramente appassionata di montagna con cui passavo i weekend in alta quota. Tutte le esperienze che ho vissuto con loro hanno fatto sì che imboccassi questa strada professionale. 

Sei originaria di Torino e adesso vivi circondata dalle Alpi. Cos’è che ti affascina di più dello stare in montagna in un ambiente che non è quello urbano?

La montagna è un mondo a sé, non si può paragonare alla vita “reale”. Ci si immerge in qualcosa di estremamente unico, profondo. È un luogo in cui spesso ci sei solo tu e l’ambiente che ti circonda. Questo è sicuramente benefico anche per il tipo di attività che pratico; la montagna ti fa vivere i momenti molto più intensamente, ti costringe a incanalare il 100% della tua concentrazione e delle tue energie in quello che stai facendo.

Qui si vivono esperienze più emozionanti, da quando decidi di affrontare un progetto fino a che non arrivi in cima.

Insomma, sei nata cittadina e sei cresciuta alpina. La tua vita si divide tra il mondo della natura, scandito da un ritmo più lento e il mondo degli uomini, più frenetico e mutevole. Come vivi il dualismo tra questi due mondi? 

Sono abbastanza allergica alla folla, al caos. In città non mi sentivo a mio agio, invece, in montagna ho trovato la giusta quadra. Per lavoro devo comunque avere a che fare con le persone, ma la maggior parte sono clienti con una passione e un rispetto per la montagna, diversi dalla massa. Mi dispiace però vedere quanto la bellezza della montagna abbia attratto anche un pubblico più cittadino che però la frequenta con superficialità e maleducazione. In generale per tenermi alla larga da questo tipo di pubblico, che tanto mi ricorda l’ambiente cittadino da cui sono scappata, cerco di frequentare le mete meno ambite per ritagliarmi sempre uno spazio wild per me stessa.

Come ti alleni per affrontare un nuovo progetto?

Il mio allenamento per andare in montagna è semplicemente fare attività in montagna. Mi reputo una persona molto dinamica, frequento la montagna non solo per lavoro ma anche per passione. Sono sempre in continuo movimento e tutto quello che faccio è per me anche una forma di allenamento, non ho una tabella rigida da seguire. Quando ho una nuova idea rispetto a un percorso che voglio affrontare, mi prendo il tempo giusto per studiarlo e poi vado direttamente sul posto a provarlo, per testare subito la mia preparazione. 

Qual è stata la sfida alpinistica più entusiasmante che hai affrontato? 

In generale, ogni esperienza che ho vissuto in questi anni ha avuto un impatto particolare sulla mia vita. Con il passare del tempo sono cresciuta e maturata, e quelle che ora riesco a portare a termine in tempi brevi, prima mi sembravano delle sfide insormontabili. Sicuramente una conquista importante è stata scalare la parete est delle Grandes Jorasses pochi giorni dopo aver scalato anche la parete nord. Io ero particolarmente allenata e ho avuto la fortuna di affrontare queste vie con un amico che ha reso tutto molto spontaneo e naturale. Non è facile trovare una persona con cui sentirsi completamente a proprio agio durante un’attività sia faticosa che pericolosa. Noi siamo riusciti a crearci un equilibrio perfetto, siamo stati veloci, nonostante la roccia non fosse facile da scalare e ci siamo divertiti. È un’esperienza che ricordo con il sorriso.

Nel 1911 Paul Preuss ha dichiarato che “la donna è la rovina dell’alpinismo”. Oggi l’alpinismo rimane una disciplina dominata dagli uomini, ma con una forte crescita tra il pubblico femminile. Che cosa significa per te farsi largo in mezzo a una maggioranza di atleti uomini?

È buffo perché di recente questo aspetto dell’alpinismo mi è stato fatto notare più volte, mentre io non ci avevo mai fatto caso. Ho sempre avuto a che fare con gli uomini nella vita, sia lavorando in questo settore, che come amicizie. Per me è sempre stato normale scalare con un gruppo di maggioranza maschile, non l’ho mai vissuto come un fattore negativo. Fino a poco tempo fa non ero mai neanche stata con una donna in cordata. La verità è che non cambia niente, così come io vivo la montagna in un certo modo, mi aspetto che lo facciano anche gli altri che sono con me, indipendentemente dal loro genere.

Non c’è questa differenza che molti si aspettano di vedere, ognuno interpreta a modo suo l’andare in montagna, non è mai stato un ostacolo per me essere una donna in mezzo agli uomini.

Da quando hai iniziato a praticare queste discipline, che tipo di cambiamento hai notato nel mondo outdoor? Hai avuto la percezione che in questi anni si evolvesse? 

Secondo me, una cosa che è cambiata è l’aumento di interesse verso la montagna grazie ai social network. Ora è più facile raccontare le proprie imprese e scoprire chi ha fatto cosa. Infatti, tornando al discorso dell’aumento del pubblico femminile, posso dire con certezza che è stato un fenomeno supportato anche dalla facilità con cui si possono condividere i contenuti. Se prima le donne che compivano imprese eccezionali passavano più inosservate, ora tante vengono quasi mitizzate anche se affrontano dei percorsi con difficoltà minore. Anche il turismo sicuramente ha avuto una crescita considerevole. Posti molto belli e “instagrammabili” sono diventati più accessibili al pubblico generale.

Che impatto ha sulla montagna questo incremento di turisti? 

Da quello che vedo intorno a me, non riesco a definirlo un incremento positivo. Più la montagna viene frequentata da persone non abituate a questo tipo di ambiente, più vedo ampliare una situazione piuttosto critica. Basta vedere l’aumento considerevole di rifiuti e inquinamento. Le persone, tendenzialmente, hanno meno rispetto dell’ambiente in cui non vivono, pensano che siccome sono in valle, lontano dai loro luoghi d’abitudine, non vengano applicate le regole standard di civiltà e convivenza.

Diventare guida alpina significa avere una profonda conoscenza dell’ambiente in cui ci si muove e delle tecniche che lo rendono accessibile in modo sicuro e rispettoso. Secondo te, quali sono i principi fondamentali di cui bisogna tener conto per godersi la natura senza creare un impatto negativo?

Sicuramente un aspetto fondamentale è quello di non seguire il branco, ma i propri ideali. È sbagliato pensare che se qualcun altro lo fa, è giusto che lo faccia anche io. È importante far notare agli altri che stanno commettendo un errore, soprattutto in montagna, che non è solo un ambiente da proteggere, ma anche un ambiente rischioso. Non esistiamo solo noi, questa è una presunzione molto umana che deve decadere. Ci sono sicuramente delle piccole azioni che possono migliorare la situazione. Per esempio, sarebbe bello poter prediligere in queste zone la mobilità elettrica. È ovvio che non sia accessibile per tutti, servirebbe che le istituzioni premessero di più su questi temi e aiutassero concretamente nel cambio. 

Quindi per te che vivi a 360 gradi la natura, che cosa pensi sia importante ricordare a tutti per rispettare la montagna? 

Io penso che come tutti i processi di educazione, anche questo dovrebbe partire da quando si è bambini. Se gli adulti continuano a frequentare delle località a cui non sono abituati, comportandosi come se fossero in città, è certo che i bambini seguiranno questo cattivo esempio. A volte mi sembra ridicolo dover ricordare a delle persone adulte che non devono buttare i rifiuti in terra, non devono salire sui ghiacciai in ciabatte. Mi guardano smarriti, mi sembra che non vogliano neanche recepire il messaggio.

Quanto è necessario tenere conto dell’ambiente circostante in un mestiere come il tuo?

Il modo di andare in montagna sta cambiando molto velocemente perché la crisi climatica sta rendendo alcuni percorsi impraticabili. È evidente che qualcosa sta cambiando e noi ci ritroviamo ad affrontare la montagna in modo diverso.

Alcune salite per esempio è possibile farle solo d’inverno perché poi la temperatura è troppo alta, si stanno aprendo sempre più crepacci, i ghiacciai si stanno ritirando, alcuni anche di centinaia di metri. E questa cosa succede sotto lo sguardo di tutti, non è un mistero. Questo è un aspetto fondamentale per il mio mestiere perché aumenta anche la difficoltà e il rischio per i miei clienti.

Vista la direzione che sta prendendo l’impatto climatico anche negli ambienti di alta quota, che cosa ci può insegnare la montagna?

I fatti parlano chiaro, l’unica cosa che possiamo fare è cercare di ridurre i danni il più possibile. E per danni non intendo solo quelli che noi facciamo alla montagna, ma anche quelli che la montagna può fare a noi. Quello che sta succedendo sembra essere inarrestabile ormai, noi come essere umani possiamo solo adattarci. Bisogna sempre mettersi in condizione di sicurezza e non affrontare certe salite o discese quando fa troppo caldo, non bisogna mai forzare quello che ormai non si può più fare. Certo, si dice che le ere glaciali ci siano sempre state e che ne arriverà un’altra, ma per il momento possiamo semplicemente ascoltare i segnali che la montagna ci manda.

Hai una visione molto chiara di quella che è la situazione climatica attuale. Secondo te qual è l’errore umano che ha l’impatto più negativo sull’ambiente?

Parlando di quello che vedo tutti i giorni, anche le attività in montagna hanno un impatto. Macchine, funivie, impianti di risalita, sono tutti elementi comodi per l’uomo, ma sfavorevoli per l’ambiente. Ti faccio un esempio, in questi anni si è diffusa sempre di più la pratica dell’eliski; se ogni giorno si sollevano duecento elicotteri solo per portare poche persone in alta quota e riscendere i pendii è un consumo esagerato di gasolio. Però è un’attività dietro la quale c’è un business gigantesco difficilissimo da arrestare, perché comunque c’è gente che ne ha fatto il proprio e unico lavoro.

Qual è il tuo augurio per la montagna del futuro? 

Mi piacerebbe poter vedere le montagne com’erano prima, proprio come si vedono nelle vecchie fotografie dei rifugi: bianche, innevate, senza presenza umana. Pensa che io ormai il Monte Bianco lo chiamo Monte Bruno, non c’è più niente che ricordi com’era una volta. E questo sicuramente è un dispiacere.

Spero che ora, visto che questa situazione non è più una previsione ma un dato di fatto, l’impronta umana si ritiri: meno impianti, meno piste da sci, meno inquinamento in generale. Che la montagna possa riprendersi quello che le abbiamo tolto.

Foto © Lorenzo Morandini

Moda a basso impatto: l’equilibrio tra innovazione, etica ed estetica

Il servizio Google Trends, che si occupa di monitorare le tendenze crescenti nelle ricerche degli utenti di tutto il mondo, ha registrato a partire dal 2019 un picco di interesse per parole chiave riguardanti la moda etica, sostenibile e attenta all’ambiente.

Oggi, dopo tre anni, è ormai praticamente impossibile non imbattersi in campagne in cui è la sostenibilità ad essere al centro, o protagonista di collezioni speciali, le cosiddette capsule collections, create con materiali alternativi ed etichettate come “green” o “eco”.

Fortunatamente queste tematiche stanno diventando parte integrante delle strategie aziendali di molti brand di abbigliamento proprio per il crescente interesse dei consumatori, in particolare delle nuove generazioni – Generazione Z in primis, seguita dai Millennial.

Allo stesso tempo, però, aumenta anche la confusione a riguardo: etichette, certificazioni, linee dedicate… l’offerta sembra davvero moltiplicarsi in maniera esponenziale. Ma è sempre vero tutto quello che leggiamo?

In una recente indagine dell’Harvard Business Review, il 65% dei consumatori intervistati si dichiarava fortemente interessato ad aumentare i propri acquisti da brand di abbigliamento dall’approccio produttivo consapevole; anche se soltanto nel 26% dei casi l’intenzione si traduceva in un concreto cambiamento, si tratta di una percentuale davvero molto alta rispetto anche solo a 5 anni fa.

Se per colmare il gap tra intenzione e azione è fisiologico che trascorra qualche tempo, data l’attenzione relativamente nuova su tematiche piuttosto complesse e articolate, il mondo dell’innovazione rispetto allo sviluppo di nuovi materiali a basso impatto si sta muovendo invece in modo velocissimo.

Il tessile è da sempre considerato il primo tassello del mondo moda, l’ambito che più di tutti deve muoversi con anticipo cogliendo al volo i primissimi segnali del mercato, in modo da poter offrire per tempo soluzioni concrete che rispondono all’effettiva domanda da parte dei consumatori. E mai come oggi si è assistito a tanto fermento nel settore dello sviluppo dei materiali, con una corsa alla ricerca di soluzioni sempre più innovative e con il minor impatto ambientale possibile.

Per chi si occupa di ricerca in ambito tessile, ad esempio, il cotone biologico – dal minor impatto idrico rispetto a quello tradizionale e coltivato senza l’utilizzo di pesticidi, diserbanti e agenti chimici dannosi per uomo e ambiente – fa ormai già parte del passato: la nuova frontiera è creare nuovi filati senza sfruttare direttamente le risorse naturali, bensì ottenendoli dal recupero delle fibre a base cellulosica presenti nei vestiti usati o invenduti.

Una soluzione interessante per cercare di trasformare in risorse gli sprechi generati dalla sovrapproduzione, che ha portato a raggiungere gli oltre 92 milioni di metri cubi di rifiuti tessili annui. Questo è ciò di cui si occupano la svedese Re:newcell con il progetto Circulose e la finlandese Infinited Fiber Company con Infinna, la quale ha appena chiuso un round di finanziamenti da 30 milioni di euro da parte di alcuni colossi della moda: le due aziende estraggono fibre cellulosiche dagli abiti dismessi per poi, con un procedimento simile al riciclo della carta, ricreare un filato del tutto paragonabile al cotone.

Un altro settore che si prepara ad assistere a grossi stravolgimenti futuri è quello conciario: la richiesta per alternative animal-free al cuoio è in costante crescita, e anche i grossi gruppi del lusso sperimentano e sponsorizzano l’utilizzo di materiali innovativi per poterseli aggiudicare in esclusiva o in anteprima.

Se materiali derivati da scarti alimentari come ananas, uva, arance e mele sono approdati sul mercato già da qualche tempo, in pochi ancora hanno avuto modo di testare le ultimissime novità a sostituzione della pelle animale.

Come ad esempio Mylo, della statunitense Bolt Threads, o Reishi, sviluppato da MycoWorks, create a partire dal micelio, l’apparato vegetativo fibroso dei funghi; o ancora Desserto, brevetto messicano a base di cactus: tutte soluzioni dall’aspetto finale estremamente simile al cuoio.

Sempre rimanendo in questo ambito, ci sono grandi aspettative per aziende come la californiana Vitrolabs, che si sta occupando di sviluppare una tipologia di cuoio interamente coltivato in laboratorio a partire da cellule animali, e l’olandese Furoid, che porta avanti un discorso analogo per quanto riguarda le pellicce.

Spesso è proprio rispetto ai materiali di origine animale che si vedono sorgere soluzioni alternative interessanti, come la lana rigenerata, per la quale troviamo diverse aziende d’eccellenza all’interno del distretto tessile di Prato, dove si tramanda da generazioni il lavoro di cenciaiolo: una figura in grado di individuare al tatto l’esatta composizione dei capi dismessi, selezionando i materiali più puri che poi vengono successivamente riconvertiti in nuovo filato.

O ancora, tinture e pigmenti ottenuti a partire dalle alghe, seta ricavata dalla fibra di rosa, lenti per occhiali da sole create con emissioni di CO2, felpe a base di proteine fermentate.

In ogni caso, la parola chiave per i materiali di nuova generazione è circolarità: è ormai impossibile pensare a nuove alternative che non prevedano una soluzione per l’intero ciclo di vita di un prodotto, dalla creazione della fibra fino allo smaltimento del capo.

Le “tre R” sono ormai diventate il mantra di qualsiasi progettista che si cimenti con la moda a basso impatto: Reduce, Reuse, Recyle. Ovvero Riduzione – pensando alla sovrapproduzione ormai fuori controllo, Riutilizzo – allungando il più possibile la vita dei capi riparandoli, trasformandoli, rivendendoli o donandoli. E Riciclo – proprio affinché il meno possibile finisca in discarica, garantendo nuova vita alla fibra o al prodotto: da qui, il recente successo di tecniche come l’upcycling, volte a conferire nuovo valore a scarti e abiti dismessi.

D’altronde, si stima che la maggior parte dell’impatto di un capo sia prevedibile in fase di design: ecco perché è così importante investire sulla formazione di una nuova generazione di progettisti che siano in grado di valutare l’intero ciclo di vita degli abiti, portare soluzioni concrete e ipotizzare scenari innovativi.

Non solo chi si occupa di progettazione e design può fare la propria parte.

Ciascuno di noi può provare ad applicare le stesse regole al nostro approccio al consumo, partendo proprio dalla riduzione: la pandemia, in particolare, ha portato molte persone a riflettere sui propri consumi e sulle storie degli oggetti e dei capi nelle proprie case.

Ci serve davvero tutto quello che acquistiamo? E abbiamo mai riflettuto su quante volte in media abbiamo indossato quello che possediamo nel nostro armadio?

Un passo semplice ma di grande impatto è proprio il cominciare a farsi più domande, a porle ai brand; scegliere meno e meglio, privilegiando la qualità e investendo in capi fatti per durare.

Ma anche il riutilizzo e il riciclo possono gradualmente diventare parte della nostra quotidianità: si sente spesso dire che il capo più sostenibile è quello che già possediamo, tutto ciò che dobbiamo (re)imparare a fare è prendercene cura. Come ad esempio evitare lavaggi a temperature troppo elevate, non esagerare con detersivi e ammorbidenti, o riporre gli indumenti con le giuste attenzioni – sapevate che la maglieria va sempre piegata e mai appesa in modo da non rovinare le fibre?

Cerchiamo di riparare i nostri abiti, o comunque allunghiamone la vita il più possibile, magari trasformandoli o riadattandoli con l’aiuto di una sarta o di un calzolaio, prima di rimetterli in circolo vendendoli o donandoli.

E quella che sembra un’azione molto semplice come leggere le etichette dei nostri vestiti, è in realtà forse il mezzo più immediato che abbiamo per intraprendere un percorso di consapevolezza, per cominciare a farsi e a fare domande e per riconnettersi con le storie dietro agli oggetti di cui ci circondiamo.

Illustrazione © Francesco Bongiorni

Nutrizione è condivisione

Se provo a pensare al cibo, sono molte le immagini che riaffiorano alla mente: dai cibi esotici, quelli un po’ più particolari, ai piatti tradizionali. Trovo curioso, però, che la prima immagine a essermi apparsa in testa sia la pasta al sugo, e più precisamente le ruote, proprio quelle della mia Bisnonna, un classico dei miei pranzi domenicali.

Riflettendoci poi, non lo trovo più così curioso perché credo che sia il piatto che per eccellenza racchiude, in tutta la sua semplicità, la bellezza della quotidianità in famiglia per tanti italiani. In particolar modo l’immaginario del “pranzo dalla nonna” con la sua pasta al sugo appare come la rappresentazione più immediata di una situazione in cui ognuno si può facilmente immedesimare.

Ho un ricordo molto nitido di quel piatto bello pieno di sugo e Parmigiano Reggiano, che di regola dev’essere abbastanza per farci la scarpetta, anche perché si sa, le nonne non sono mai timide con le dosi.

Stessa cosa per la tavola, preparata sempre con la stessa tovaglia, perché io non sono un ospite e non ho bisogno di una tovaglia più bella, sono di casa.

Mangio quella pasta condita con lo stesso sugo da 25 anni e non mi stanca mai, ma nonostante l’abitudine qualcosa è cambiato: la mia percezione. Ora quella pasta ha per me un valore ben preciso. Prima era solo un semplice pasto, il mio stomaco si riempiva ed io ero contento così, nient’altro da aggiungere.

Ho sempre avuto una sola e unica visione del cibo, ovvero mangiare per saziarmi, tanto che il mio motto un tempo era «il cibo non si condivide» proprio perché era mio e nessuno doveva mettersi tra me e il mio stomaco.

Avendo sempre vissuto in un paesino di diecimila abitanti, crescendo mi è capitato raramente di confrontarmi con realtà al di fuori della mia, i miei amici dell’oratorio vivevano quasi tutti le mie stesse esperienze di vita e se devo ripensare alle nostre scelte per quanto concerne la nutrizione riconosco molte similarità. Questo ambiente, per quanto io sia un grande amante dei piccoli paesi e del loro senso di comunità e pace, non mi ha mai aiutato a realizzare quanti modi esistano di vivere e interpretare il concetto stesso di nutrizione. Raramente mi è capitato in fase di crescita di pormi un quesito come questo.

E poi è arrivato quel qualcosa che ti porta a guardare altrove, che ti spinge ad ampliare le tue vedute. Per me quel qualcosa ha un nome ben preciso: Andrea.


Andrea è il mio attuale fidanzato, un fiero Emiliano Doc, di quelli che almeno una volta a settimana deve mangiare rigorosamente i tortellini fatti in casa. Si sa, l’Emilia Romagna è una regione che ti cresce a pane e Parmigiano Reggiano, che ti insegna a riconoscere il valore di ogni eccellenza gastronomica locale, tanto che questo orgoglio diventa parte integrante della tua personalità. Considerando poi la varietà e la qualità di queste eccellenze, non sorprende quindi trovare un Emiliano che diventi automaticamente “paladino della sua terra”, pronto a difendere i suoi prodotti DOP e IGP in giro per l’Italia e per il mondo.

E nonostante molti di questi piatti tipici siano presenti regolarmente sulle tavole di tutta Italia e praticamente chiunque abbia una conoscenza base della cucina emiliana, Andrea in pochissimo tempo mi ha portato a vederne le mille sfumature.

L’Emilia Romagna mi ha accolto come esploratore e mi ha dato modo di conoscere e di innamorarmi di sapori che non erano nuovi al mio palato, ma che in qualche modo non avevo assaporato mai così da vicino.
Da lì è iniziato per me un percorso di riscoperta del concetto di nutrizione, del valore delle tradizioni e di quanto il cibo nasconda una bellissima storia che ho da subito voluto raccontare attraverso il media che più sentivo mio: Instagram.

Ho la fortuna di poter parlare a un pubblico vasto e variegato e, allo stesso tempo, questa mia sete di conoscenza mi ha portato a volerne sapere sempre di più. La mia community si è da subito interessata alle storie legate al cibo dandomi un grande valore aggiunto: la loro esperienza personale.

Ognuno di loro ha iniziato a raccontarmi la propria piccola realtà e io ho iniziato ad assorbire quanto più possibile le loro esperienze, cercando successivamente di dare voce a quelle tradizioni che, a mio parere, hanno bisogno di essere ricordate e tramandate. È partito così un costante scambio interpersonale, ricco di sfaccettature e scoperte, che con il passare del tempo è diventato sempre più gratificante. Ed è stato proprio questo viaggio verso la scoperta di tutte le declinazioni del concetto di nutrizione a consolidare più che mai la mia community.

Lo scambio perenne di informazioni, spunti e tradizioni mi ha permesso di costruire un legame forte, sincero e leale. Si potrebbe quasi dire che loro hanno iniziato a nutrire me e io a nutrire loro. Tutto questo partendo dalla semplice condivisione di un piatto sui social.

Ritengo dunque che nutrirsi non sia puramente un sinonimo di mangiare, ma significa sopratutto scoprire nuovi sapori, e avere qualcuno con cui condividere il momento del pasto. Nutrirsi diventa quindi condivisione. Mangiare insieme è un atto di amore, che sia offrire ciò che si è preparato o semplicemente dedicare del tempo per farlo assieme. I pranzi, le ricorrenze, i momenti speciali sono sempre stati per noi italiani delle vere e proprie riunioni tra persone, parenti e non, che si incontrano per passare del tempo in allegria.

Nutrirsi è anche ricordare perché preparare da mangiare riempie la cucina di profumi che rimandano automaticamente a dei ricordi d’infanzia, alla gioia di trovarsi con la famiglia, con gli amici.

Proprio per questo, quando Harper Collins mi ha dato l’opportunità di scrivere un libro, l’ho intitolato Il Sapore dei Ricordi: una raccolta di aneddoti e ricette della famiglia Ferrari, e in particolar modo della mia bisnonna Maria. Tra proverbi locali, piatti della tradizione novarese e rivisitazioni caserecce dei grandi classici della cucina italiana, penso che tra quelle pagine si possa riconoscere una tipica famiglia italiana. Tutti abbiamo, o abbiamo avuto, quella nonna che tra una tisana alla malva e una crostata alla frutta ti racconta gli aneddoti di famiglia. Non importa che tu li abbia già ascoltati mille volte, né che ad ogni racconto diventino sempre più fantasiosi: non ti stancherai mai di ascoltarli.

Ho sempre pensato di essere un animo vecchio in un corpo giovane, una sorta di mosca bianca, che alla discoteca preferiva la tarda serata a giocare a carte con i nonni. Ma proprio grazie ai social ho scoperto che il mondo è pieno di ragazzi come me.

Al contrario di ciò che si potrebbe pensare, riscoprire una tradizione, un prodotto o un’eccellenza locale è quasi un’esigenza per i giovani. Sarà forse per questo che in una città frenetica e moderna come Milano stanno spopolando le osterie tradizionali, gestite da pittoresche “sciure” over 80 che, tra un risotto con l’ossobuco e una cotoletta fritta rigorosamente due volte, snocciolano alla loro clientela supergiovane perle di saggezza dei loro tempi. Le nonne sono sempre nonne. L’amore e l’affetto che mettono nei loro piatti è qualcosa che va oltre il saziarsi, è nutrirsi nel senso più ampio del termine.

Da Nord a Sud, passando per ogni piccola provincia, ho ritrovato questo bisogno da parte della mia community. Si è creato così una sorta di ponte territoriale tra me e loro, la voglia condivisa di ricostruire giorno dopo giorno il nostro passato per capire meglio il nostro presente.

Amare il posto in cui si è nati vuol dire amare chi si è, le proprie radici, ed è necessario valorizzare la bellezza che ci circonda.

I miei follower mi hanno riempito di messaggi e consigli, dove ognuno ha voluto raccontarmi le proprie meraviglie e tradizioni e così mi si è accesa una lampadina. Perché limitarmi alla mia famiglia quando l’Italia è piena di Bis, Zia Robi e Nonno Tonio?

Durante la pandemia ho deciso di mettermi in gioco. Viaggiare era impossibile così ho deciso di girare l’Italia attraverso il cibo. In questo modo sono nati una serie di contenuti che col tempo hanno creato un vero e proprio format: la Giornata Regione, 24 ore di esplorazione virtuale di una regione a scelta. Sarò sincero, non mi aspettavo fosse così complicato fornire una rappresentazione fedele dei cibi tipici di ogni regione italiana… perché ce ne sono tantissime!

Sono partito giocando in casa, con il Piemonte, ma nonostante la familiarità che pensavo di avere con la mia regione, l’esperimento non è andato proprio secondo i piani. Alcuni piatti che davo per scontato essere della tradizione piemontese erano in realtà legati esclusivamente al territorio di Novara. Da lì ho capito che serviva un lavoro di ricerca e documentazione più ampio per conoscere e riadattare al meglio i piatti che sarei andato a preparare.

Anche in questo caso i consigli non sono tardati ad arrivare, la mia community si è mobilitata subito per fornirmi tutte le informazioni necessarie, dapprima tramite ricette più o meno semplici da ricreare e, successivamente, all’apertura dei confini regionali, indicandomi i posti giusti dove assaggiare piatti autentici. Il cambiamento era avvenuto: ormai non ero più io a raccontare le usanze culinarie della mia famiglia, ma ho sentito la necessità di dar voce a tante altre famiglie italiane. È come se il mio profilo Instagram si fosse evoluto in una sorta di TripAdvisor dove i suggerimenti dei follower e i miei stessi contenuti sono pubblici e accessibili a tutti.

L’Italia è un paese dalla cultura (non solo) culinaria così ricca e variegata che inevitabilmente ci sono moltissime usanze che in qualche modo rischiano di essere dimenticate, o quantomeno non propriamente valorizzate. Attraverso contenuti di questo tipo mi piace pensare che insieme alla mia community stiamo facendo qualcosa per mantenerle vive.

Ora a quel tavolo, la domenica a pranzo, non ci siamo solo io e la mia bisnonna, ma anche tutte quelle persone che in qualche modo si sono presentate con una sedia e si sono unite portando ciascuno qualcosa di tipico. Le porte di casa sono state aperte e sono pronte per accogliere chiunque abbia voglia di raccontare la propria storia, e io sono qui a prendere nota di tutto, con tanta sete di conoscere, condividere e nutrirmi.

Illustrazione © Andrea Mongia

Il cibo medicina per le ossa

Si stima che, in Italia, l’osteoporosi colpisca oltre 5.000.000 persone e le fratture da fragilità colpiscono circa il 40% della popolazione nel corso della vita con rilevanti conseguenze, sia in termini di mortalità che di disabilità motoria, con elevati costi sia sanitari sia sociali. 

Fondazione Firmo (Fondazione Italiana Ricerca sulle Malattie dell’Osso) è un ente privato non profit che opera da oltre dieci anni nel campo dell’osteoporosi. Nonostante l’alta incidenza, questa malattia è ancora poco conosciuta e i progetti di sensibilizzazione e informazione sono scarsi, così come anche i fondi destinati alla ricerca.

Per scoprire di più sulle malattie dello scheletro e quale ruolo riveste l’alimentazione nel prevenirle e curarle, abbiamo intervistato la professoressa Maria Luisa Brandi, Medico Chirurgo Specialista in Endocrinologia e Malattie del Metabolismo e presidentessa della Fondazione Firmo e Direttrice del Donatello Bone Clinic

Prima di tutto, ci può spiegare meglio che cos’è l’osteoporosi e quali sono i rischi per la salute?
Come la pressione arteriosa o il colesterolo, l’osteoporosi è un fattore misurabile con cui siamo in grado di definire il grado di fragilità ossea di un individuo.
Questa è una misurazione continua e avviene grazie alla mineralometria ossea computerizzata – l’acronimo di MOC – una radiografia con cui otteniamo dei valori che, una volta confrontati con la carta di rischio comunemente chiamata FRAX, ci permettono di quantizzare la probabilità di un individuo di incappare in una frattura del femore per fragilità nell’arco di 10 anni.


Di questi 5 milioni di persone, quali sono i target statisticamente più colpiti e quali invece sono quelli di cui si parla poco?

L’osteoporosi è comunemente associata all’anzianità; un’altra categoria altrettanto ampia ma meno considerata è la donna in menopausa; questo target è particolarmente delicato perché diventa soggetto anche a ipercolesterolemia, che si verifica quando il colesterolo totale è troppo alto. Proprio per evitare questa condizione, le donne in menopausa tendono a ridurre l’introito di latte e latticini in un momento in cui ne avrebbero più bisogno del dovuto – una situazione che noi medici riscontriamo spesso. Ci sono poi le cosiddette osteoporosi secondarie, tra cui le più note sono quelle da cortisonici e da trattamenti antitumorali, soprattutto in donne con carcinoma mammario che devono assumere farmaci ormonali, oppure uomini con tumore prostatico. In questi casi, si verifica un’osteoporosi abbastanza acuta ed è quindi su questi target che bisogna fare maggiore prevenzione.


Fin da piccoli ci insegnano che il latte e i suoi derivati sono importanti per la salute delle ossa, in particolare durante l’età della crescita e soprattutto in vecchiaia.
Quanto c’è di vero in questa affermazione?

Questa affermazione può essere definita “una fisiologia”, perché l’essere umano ha necessariamente bisogno del calcio per vivere in quanto la cellula muscolare cardiaca, o la cellula del sistema nervoso centrale, non possono funzionare senza calcio.

Come si lega questa necessità al tema delle ossa?
Per spiegarlo faccio una premessa importante che ci aiuta a capire questa correlazione e il perché è molto importante assumere quotidianamente latte e latticini. Finché l’uomo è stato un animale acquatico, poteva assumere calcio a volontà perché presente in abbondanza nell’acqua. Il problema della disponibilità del calcio è nato quando è diventato un animale terrestre, perché i singoli alimenti disponibili in natura non contengono le quantità di calcio giornaliere necessarie alla sua sopravvivenza.
Il motivo per cui lo scheletro degli animali terrestri si è mineralizzato è per diventare un réservoir di calcio dal quale attingere ogni volta che si verifica una carenza di questo elemento così prezioso.
Data questa premessa, è facile capire perché il latte e i latticini sono tanto importanti! A parità di volume o peso, sono gli alimenti più ricchi di calcio sul nostro pianeta e permettono di introdurre quei 1000mg giornalieri di cui abbiamo bisogno senza dover attingere dallo scheletro. 1000mg è il fabbisogno richiesto per un soggetto adulto, mentre valori più elevati si hanno negli anziani, negli adolescenti e nelle donne in gravidanza o in allattamento. Ecco perché tutti sappiamo che il calcio è importante soprattutto in fase di crescita e in vecchiaia. Nei bambini in età scolare è necessaria una quantità pari a 600/800mg, che è una quantità altissima in proporzione al suo peso: questo è dovuto al fatto che il bambino deve mineralizzare tutto lo scheletro.

Si dice che il Parmigiano Reggiano sia uno degli alimenti d’oro per la salute delle ossa, in che quantità dovrebbe essere presente nella nostra dieta?
Il Parmigiano Reggiano è l’alimento d’oro della dieta per l’osteoporosi, perché con soli 30g al giorno è possibile introdurre ben 300mg di calcio, quasi ⅓ del fabbisogno giornaliero. Rispetto ad altri alimenti che richiedono quantità di gran lunga maggiori, il Parmigiano Reggiano, con un peso equivalente a un morso, permette di assumere il calcio quotidiano richiesto. Per esempio, anche il sesamo, di per sé, è un alimento molto ricco di calcio ma è necessario mangiarne una quantità di gran lunga superiore rispetto a quella necessaria con il Parmigiano Reggiano. Il calcio è presente anche nelle verdure come broccoli e la cicoria, frutta secca come mandorle ma, come nel caso del sesamo, è necessario consumarne quantità troppo grandi per raggiungere i 1000mg quotidiani e queste quantità sono incompatibili con la nostra alimentazione. Possiamo anche ricorrere a un integratore quando è davvero impossibile fare altrimenti, ma è sempre preferibile una buona dieta per l’osteoporosi.


Negli ultimi anni, abbiamo assistito a una serie di trasformazioni socio-culturali che hanno cambiato molto le nostre abitudini. Ci sono degli aspetti di questi nuovi stili di vita che incidono sul problema dell’osteoporosi?

Un cambiamento che ha influito sulla salute delle ossa è legato alla tipologia di attività che facciamo: ad esempio, la maggior parte dei lavori viene svolto in uffici, locali, fabbriche, luoghi che sono spesso al chiuso e illuminati con luce artificiale. Nella maggior parte dei casi, le otto ore lavorative si concentrano di giorno il che impedisce alle persone di avere una corretta esposizione solare, fondamentale per la salute dell’osso perché è proprio grazie alla pelle che sintetizziamo la vitamina D. Un altro fattore che incide molto sulla salute dell’osso è la comunicazione negativa su latte, latticini e tutti i derivati: oggi stanno circolando molte teorie estreme sull’assunzione di questi prodotti tanto che, in molti casi, le persone decidono di eliminarli completamente perché hanno paura di ammalarsi in maniera grave.

In queste trasformazioni dannose rientrano anche le diverse teorie alimentari e i trend culinari che dilagano nei canali digitali?
Assolutamente sì! Ci sono una serie di diete e filosofie culinarie che demonizzano in maniera estrema alcuni alimenti, come il Parmigiano Reggiano, mentre invece promuovono l’integrazione nella dieta di alimenti spesso non noti nelle nostre tavole e che provengono da filiere non certificate, come alghe e mucillagini. Spesso le informazioni alimentari vengono da fonti non attendibili o addirittura da profili senza alcuna qualificazione medica, provocando gravi danni perché causano scompensi nutrizionali. Nella mia esperienza professionale purtroppo ho avuto modo di confrontarmi con alcuni pazienti che seguivano diete completamente sbilanciate e davano credito a credenze del tutto sbagliate; questo ha inciso sulla salute del loro scheletro, provocando l’insorgenza dell’osteoporosi.

Quali sono gli altri alleati della nutrizione che permettono di avere ossa sane e forti?
Noi medici sosteniamo che la prevenzione primaria sia l’arma più efficace per poter prevenire e combattere questa malattia. È fondamentale fare una buona prevenzione sin dalle generazioni più piccole, in modo che siano noti già nell’età dello sviluppo i fattori che aiutano ad avere uno scheletro in salute. Quali sono questi fattori? In primis l’attività fisica regolare, perché ci aiuta ad avere uno stimolo meccanico gravitazionale, indispensabile per non perdere la struttura ossea; successivamente l’esposizione alla luce solare giornaliera almeno 30 minuti al giorno senza crema protettiva in modo che la nostra pelle possa sintetizzare la vitamina D, l’ormone necessario ad assorbire il calcio a livello intestinale. Se non ne avessimo a sufficienza, anche introducendo una buona quantità di calcio, non avremmo una struttura sana.

Che tipo di beneficio si può avere da un alimento come il Parmigiano Reggiano nella prevenzione e nella lotta contro l’osteoporosi?
In generale il Parmigiano Reggiano offre una serie di vantaggi per la nostra salute: in primis, è un alimento buono e si sposa bene con molti altri cibi della nostra tavola.
A livello nutrizionale, grazie al suo processo di stagionatura, il Parmigiano Reggiano perde il lattosio, un nutriente che spesso provoca delle fastidiose intolleranze tanto da non poter essere consumato da una buona fetta di persone. Poi è un alimento che non contiene livelli di colesterolo tali da provocare dei problemi, e anche le lipoproteine sono presenti in una concentrazione limitata, non dannosa per la salute rispetto a quelle contenute in altri alimenti che derivano dal mondo animale. La cosa più importante, come abbiamo già detto, è che il Parmigiano Reggiano per peso contiene una quantità straordinaria di calcio ed è per questo che noi raccomandiamo l’assunzione giornaliera in piccole quantità.

Il Parmigiano Reggiano va considerato come una pillola-cibo, perché con quantità piccole e fisse tutti i giorni apporta i corretti nutrienti diventando a tutti gli effetti il “cibo medicina dell’osso”. Quindi ai miei pazienti consiglio di consumare ogni giorno “un cioccolatino” di Parmigiano Reggiano per avere ossa forti e un piccolo piacere quotidiano.

Quali sono gli errori più comuni che vengono fatti e che intaccano la salute delle nostre ossa?
In primis l’introduzione di una quantità di calcio giornaliera inferiore a quelle raccomandata, il che induce il nostro organismo ad attingere dallo scheletro per poter vivere. Questo avviene spesso nelle diete drastiche e sbilanciate che negli ultimi anni sono diventate tanto di moda per perdere rapidamente peso. È il caso delle famose diete iperproteiche, che sono pericolose perché, oltre a provocare degli sbilanciamenti a livello nutrizionale, inducono un’alta perdita di calcio attraverso le urine. Anche il consumo eccessivo di alcol e superalcolici è dannoso per la salute delle ossa, così come il fumo di nicotina.


Ci sono altri fattori che contribuiscono all’insorgenza dell’osteoporosi?
L’insorgenza dell’osteoporosi può essere la conseguenza di malassorbimenti che dipendono da tutte le malattie neuromuscolari, reumatiche e, più in generale, di tutte quelle malattie che impediscono al muscolo di funzionare bene, creando difficoltà nel processo di formazione dell’osso. Esistono purtroppo molte malattie rare e oltre 500 displasie diverse dell’osso; un caso molto comune è quando a una bassa introduzione di calcio, che accade molto spesso a causa di diete errate, coincide anche un malassorbimento. Infine, come detto in precedenza, tutte le malattie oncologiche che prevedono una terapia molto aggressiva, comportano osteoporosi come anche le malattie endocrine.


Esistono dei campanelli di allarme che ci fanno presupporre una possibile osteoporosi?
Il primo campanello d’allarme è sempre la familiarità: se nella nostra famiglia ci sono stati casi di osteoporosi allora è probabile che nel nostro patrimonio genetico abbiamo ereditato questo tipo di malattia. Per una donna in menopausa, i dolori alla schiena e/o alle articolazioni sono un campanello di allarme perché indicano una diminuzione della massa ossea. Anche l’incurvatura della schiena è un altro segnale di una possibile osteoporosi perché indica un possibile schiacciamento vertebrale.

Quali sono gli altri alleati della nutrizione che permettono di avere ossa sane e forti?
Noi medici sosteniamo che la prevenzione primaria sia l’arma più efficace per poter prevenire e combattere questa malattia. È fondamentale fare una buona prevenzione sin dalle generazioni più piccole, in modo che siano noti già nell’età dello sviluppo i fattori che aiutano ad avere uno scheletro in salute.

Fattori di che tipo?
Bisogna svolgere attività fisica regolare perché ci aiuta ad avere uno stimolo meccanico gravitazionale indispensabile per non perdere la struttura ossea; successivamente l’esposizione alla luce solare giornaliera almeno 30 minuti al giorno senza crema protettiva in modo che la nostra pelle possa sintetizzare la vitamina D, l’ormone necessario ad assorbire il calcio a livello intestinale: se non ne avessimo a sufficienza, anche introducendo una buona quantità di calcio, non avremmo una struttura sana. Una credenza molto diffusa è quella di considerare l’Italia un paese così ben esposto alla luce solare tanto da avere un ottimo livello di vitamina D. Invece gli studi hanno dimostrato che il nostro paese è uno dei più colpiti e la cosa ancora più incredibile è che questo problema si verifica soprattutto al sud. Quindi, a maggior ragione, non dovrebbe mai mancare nelle nostre diete la razione di calcio consigliata.


FIRMO è un’associazione che nasce con l’ambizioso obiettivo di debellare le malattie dell’osso avvalendosi dell’informazione, della formazione e della ricerca. Quali attività promuove l’associazione per raggiungere questo obiettivo?

Noi cerchiamo di diffondere quanto più possibile informazioni sull’osteoporosi e la salute dell’osso perché crediamo che per poter debellare queste malattie sia necessario educare le persone. Organizziamo costantemente eventi di tutti i tipi per arrivare al maggior numero di persone: per fare un esempio, facciamo attività di comunicazione nelle piazze italiane grazie a un nostro camper che gira per la penisola da nord a sud. Svolgiamo molte attività anche nelle scuole, puntando soprattutto alle generazioni più giovani perché inizino subito ad adottare uno stile di vita sano per la salute dello scheletro.Usiamo i nostri canali social non solo per diffondere informazioni ma soprattutto per comunicare con la community più digitale rispondendo a tutte le loro domande. Cerchiamo di essere attivi il più possibile e non perdiamo mai nessuna occasione per trasferire alle persone quante più conoscenze possibili per poter davvero raggiungere il nostro obiettivo.

© Stefano Marzoli

Se la disinformazione è fronte pacco

Andrea Ghiselli, presidente della Società Italiana di Scienze dell’Alimentazione, spiega perché sono utili le etichettature fronte pacco e perché il Nutrinform è più utile del Nutri-score. Quale sarà la scelta dell’Unione Europea?

«Come ogni altro animale, anche l’uomo è geneticamente programmato alla scelta di alimenti che gli diano il massimo della redditività. La redditività è in funzione delle calorie ottenute dal cibo e dal tempo e dall’energia spesi per cercarlo, manipolarlo e consumarlo. 

In natura c’è un equilibrio costante tra l’accesso al cibo e la fatica fisica per procurarselo. Nessun animale è obeso, perché raggiungere cibi energetici costa fatica fisica e perché se mangiasse troppo cibo, questo poi comincerebbe a scarseggiare. Un animale obeso fa poca strada: il leone obeso non insegue la gazzella e la gazzella obesa non sfugge al leone. 

L’uomo, invece, si è affrancato dalla fatica fisica per procurarsi il cibo e lo trova anche stando seduto sul divano: gli basta ordinarlo per riceverlo sotto il naso.

Le nostre scelte in fatto di cibo, però, seguono le stesse primitive dinamiche di redditività. Se al supermercato trovo un alimento che nella parte anteriore del pacco mi fa capire subito che è positivo o negativo per la mia salute, questo almeno è quello che credo, perché sforzarmi di guardare oltre? Gli studi scientifici dimostrano che sarò indotto ad acquistarlo, perché ormai le mie difese sono basse e sceglierò comunque quel prodotto».

Il professore Andrea Ghiselli racconta vividamente le dinamiche di selezione del cibo per introdurre l’equivoco del Nutri-score, in favore di un sistema più votato all’informazione e all’educazione alimentare, il Nutrinform. 

Chi è Andrea Ghiselli

Andrea Ghiselli è presidente della Società Italiana di Scienze dell’Alimentazione (S.I.S.A.), incarico che ricopre ormai a tempo pieno, a un anno dal pensionamento dal suo più che trentennale impegno per il Centro di ricerca per gli alimenti e la nutrizione del Consiglio per la ricerca e in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria (CREA-Nutrizione), di cui è stato anche dirigente di ricerca. A queste attività si associa una lunga carriera come docente di Fisiologia umana del Corso di Laurea per Dietista all’Università “La Sapienza” di Roma, numerose pubblicazioni, relazioni e convegni.

Tra le diverse attività, la S.I.S.A. si occupa di una corretta informazione ed educazione alimentare. A tale scopo promuove la ricerca e lo scambio di esperienze tra cultori scientifici della materia, realizza programmi di educazione alimentare, fornisce supporto tecnico e scientifico per l’industria agroalimentare. Inoltre realizza numerosi documenti e pubblicazioni, come il position paper pubblicato per confutare l’utilità del Nutri-score proponendo un sistema a suo avviso più efficace, il Nutrinform.

Che cos’è il Nutri-score e come funziona

Come spiega il professore Ghiselli, oltre alla conquista delle tabelle nutrizionali leggibili sul retro delle confezioni, «abbiamo bisogno di etichette fronte pacco (Fop, in inglese front of pack) che aiutino il consumatore a effettuare scelte migliori, soprattutto meno caloriche, meno ricche di sale, zucchero e grassi, tutti nutrienti che consumiamo in quantità eccessiva, anche perché geneticamente programmati per farlo. Perciò sono nati dei sistemi a mio modo di vedere piuttosto ingenui. Senza tenere conto delle reazioni del consumatore, sono state pensate delle etichette a semaforo, conosciute, appunto, come traffic light systems. L’idea è che il consumatore abbia la percezione visiva immediata della presunta bontà dell’alimento, che deve scegliere tramite le luci del semaforo».

Il sistema che si sta diffondendo negli ultimi anni è il Nutri-score, che assegna cinque gradazioni cromatiche sovrastate dalla relativa lettera dell’alfabeto: dal verde scuro con la lettera “A” al rosso intenso della lettera “E”. Il Nutri-score assegna un colore e una lettera in base a sette parametri: quattro nutrienti “cattivi”, calorie, acidi grassi saturi, zucchero, sale; e tre “buoni”, proteine, fibre, percentuale di frutta e vegetali. Un alto contenuto di fibre, proteine, vegetali e frutta migliora il punteggio e sposta lo score verso un colore rassicurante. Al contrario, un alimento ricco di calorie da zuccheri, acidi grassi saturi e sale ottiene uno score peggiore e dunque una gradazione più allarmante.

Particolare da non sottovalutare: i parametri del Nutri-score si basano sul contenuto di nutrienti per 100 grammi di prodotto per gli alimenti solidi e 100 millilitri per gli alimenti liquidi e non sull’effettiva quantità di consumo, o porzione. 

Il sistema è stato messo a punto da un gruppo di ricerca francese, l’EREN, Équipe de Recherche en Epidémiologie Nutritionnelle. Spiega Ghiselli: «Il governo francese lo ha fatto suo e molte multinazionali d’Oltralpe lo supportano» con alcune importanti eccezioni, come quella di Lactalis

Le criticità del Nutri-score

Il professor Ghiselli spiega perché il sistema Nutri-score non è affidabile: «Poteva essere un’idea accompagnare il consumatore nelle scelte alimentari più sane, il problema è che studi affermati dimostrano che non è così». 

E perché, se contengono ingredienti più salutari? «Un esempio su tutti è quello della pizza margherita: pochissime fibre, tante proteine, un cospicuo apporto di grassi e di sale. Eppure, per 100 grammi, il bollino è verde. Ma noi normalmente consumiamo una pizza intera, che pesa almeno 300 grammi. Che succede quando mangiamo una pizza? Occupiamo la metà dello spazio disponibile per l’energia, il 60% di grassi e di sale. Succede la stessa cosa con le patatine fritte: verdi, a prescindere dalla quantità. Inoltre, un alimento con il bollino verde dovrebbe essere consumato tutti i giorni. Si potrebbero mangiare pizza e patate fritte tutti i giorni? Il bollino verde non significa che un alimento è sano sempre e comunque per la propria dieta. Con il Nutrinform non si corre questo rischio perché il consumatore ha ben chiara la quantità di energia, saturi e sale che apporta quella pizza». 

«Con il Nutri-score, invece, abbiamo un colore come risultato complessivo. Un prodotto, dunque, può avere una classificazione ‘A’ grazie ai pochi grassi saturi e a una generosa aggiunta di proteine, ma può essere troppo carico di sodio. Il consumatore, che acquista di pancia secondo ogni studio scientifico sulla materia, e magari è iperteso, non è messo in condizioni di sapere se il prodotto scelto contiene troppo sale. È assurdo e non scientifico, poi, che l’addizione di proteine risulti un fattore premiante».

Ghiselli ritiene che il Nutri-score apra la strada agli alimenti che lui definisce “pasticciati” in laboratorio. «I banchi dei supermercati sono invasi da questi alimenti pasticciati, aiutati magari dall’aggiunta posticcia di fibre e proteine. Togliere grassi e aggiungere additivi, togliere zucchero e aggiungere edulcoranti acalorici, aumentare il contenuto di proteine e di fibre si traduce nella realizzazione di un alimento ultra-processato, con una lista di ingredienti lunghissima, ricco di additivi, addensanti, emulsionanti, aromi, ma con uno score verde. Questo spiega perché molte multinazionali lo stanno supportando, dato che possono modificare i prodotti a proprio piacimento».

L’impegno italiano per il contrasto all’obesità

Spiega Ghiselli: «In Italia abbiamo un grave problema derivante dalla cattiva alimentazione e dalla mancanza di esercizio fisico. L’unico modo che abbiamo per far fronte alla continua tentazione nel mondo moderno è l’autocontrollo o, come si definisce in termini anglosassoni forse più accademici, l’empowerment. L’informazione, l’educazione alimentare e più in generale l’istruzione, sono le condizioni che “allenano” l’empowerment». 

«Studi scientifici accreditati dimostrano che un’etichetta positiva che assegna solo un giudizio, senza ulteriori informazioni, crea molti problemi. Fa abbassare le barriere critiche, come evidenziato in uno studio molto divertente di Priven-Baum e altri, condotto sull’onda dei prodotti che si dichiaravano “senza zucchero”, ma usavano poi edulcoranti di vario tipo, o ancora meglio sulla recente messa al bando dell’olio di palma. Si sono inventati un prodotto inesistente, recante l’etichetta ‘mui-free’. Il mui non esiste e non esiste, quindi, una percezione del rischio. Gli studiosi hanno visto che tra due prodotti identici, i consumatori preferivano il mui-free anche in assenza di percezione di rischio, a significare che le etichette sugli alimenti, se non sono informative, possono indirizzare il consumatore verso scelte inadeguate». 

«Allo stesso modo, studi scientifici condotti da Oostenbach e altri, da Schuldt e altri, da Cleeren e altri hanno ampiamente dimostrato che l’etichettatura verde induce non solo a un abbassamento del filtro critico dei consumatori, ma anche a un iperconsumo di prodotti etichettati e percepiti come positivi, ma con le problematiche che abbiamo affrontato».

«In sinergia con il Ministero della Sanità, il Ministero dello Sviluppo economico, e il Ministero dell’Agricoltura, da alcuni anni abbiamo messo a punto un sistema di etichettatura Fop, non direttivo, non basato sui colori, ma informativo e che per questo abbiamo chiamato Nutrinform. Come fosse una batteria di quelle che siamo abituati a vedere come indicatori della carica degli smarphone, Nutrinform indica quanto incide percentualmente nei nutrienti la porzione di alimento che si sta consumando su un fabbisogno tipo di 2000 kcal, cioè lo standard della popolazione adulta».

«Il nostro lavoro – specifica Ghiselli – non è orientato a evitare i bollini rossi che condannerebbero molti prodotti. Quello che ci preoccupa è il verde perché dobbiamo proteggere i consumatori dall’iperconsumo», tema alla base di quella che l’Organizzazione mondiale della Sanità ha definito un’epidemia: l’obesità.

Uno studio cui ha partecipato lo stesso professor Ghiselli ha evidenziato scientificamente la funzionalità del Nutrinform rispetto alla parzialità del Nutri-score, tenendo conto proprio dei comportamenti dei consumatori rispetto alle etichette Fop.

Il Nutrinform e il sistema “a batteria”

La batteria del Nutrinform ha un colore neutro, proprio perché non vuole essere impositivo, ma informativo. Il sistema valuta l’incidenza dei cibi sulla dieta, basandosi su porzioni adeguate a un’alimentazione sana. Un esempio di lettura del Nutrinform su di un pacco di pasta da 500 grammi: esso contiene sei porzioni standard da 80 grammi ciascuna, nell’ambito di una dieta standard per un adulto medio, da 2000 kcal giornaliere. La porzione contiene: 287 kcal, il 14% del fabbisogno giornaliero; 1.6 grammi di grassi e 0.4 grammi di grassi saturi, il 2% del fabbisogno; 2.8 grammi di zuccheri, il 3% del fabbisogno e zero grammi di sale.

Spiega Ghiselli: «In questo modo il consumatore è informato sia dell’esistenza delle porzioni standard, che del peso di una porzione e di quanti nutrienti contiene e anche, auspicabilmente in futuro, quante porzioni giornaliere o settimanali di quel prodotto si consiglia di consumare. Mentre il Nutri-score incoraggia l’industria a produrre alimenti ultra-processati, il Nutrinform no, tutt’al più stimola l’industria ad adeguarsi alle porzioni standard, cosa che riveste una ulteriore valenza educativa». 

Il dibattito sull’etichettatura fronte pacco in Europa

Il dibattito europeo sull’adozione dell’etichetta Fop, che dovrebbe concludersi entro fine 2022, però, non sta andando benissimo. Nutri-score è stato adottato da Francia e Germania, la Spagna ne usa una versione adeguata ai suoi parametri, l’Italia adotta il Nutrinform

L’Italia ha assunto inizialmente un atteggiamento protettivo nei confronti dei suoi prodotti, ma di fatto il Nutri-score può penalizzare il formaggio italiano come quello francese, l’olio italiano come quello greco e i biscotti tedeschi come quelli francesi. 

Il cambio di strategia è avvenuto successivamente, forse troppo tardi? Il professore Ghiselli spiega ancora una volta con un’immagine vivida la questione: «Se le autorità decidono di scrivere che il fumo uccide sui pacchetti di sigarette per tentare di contenere il vizio, la reazione non può essere che così la vendita del prodotto è penalizzata, perché è proprio quello l’obiettivo. Dovevamo far notare da subito, come facciamo ora, la fallacia, l’ingannevolezza e l’inutilità del Nutri-score. Cosa che sta comunque avvenendo, grazie a numerosi studi scientifici».

Foto © Gabriele Stabile 

Sei falsi miti sul Parmigiano Reggiano

Il nostro Paese è famoso in tutto il mondo per la sua bellezza paesaggistica, il clima mediterraneo e soprattutto per la cucina e i prodotti tipici di ogni sua regione.

Uno dei capostipiti culinari, per gusto ed eccellenza, è il Parmigiano Reggiano, amato e consumato in tutto il mondo.

È uno dei perni della nostra tradizione gastronomica e da sempre è un membro delle nostre tavole; le sue origini risalgono al Medioevo e i primi caseifici vennero creati nei monasteri benedettini e cistercensi di Parma e Reggio Emilia, regione ricca di corsi d’acqua e pascoli.

In questa zona si diffuse la produzione di questo formaggio tipico a pasta dura e la lavorazione non è mai stata modificata, quindi ancora oggi avviene in modo naturale, senza l’utilizzo di additivi.

Da un punto di vista nutrizionale/dietetico, è spesso messa in discussione la sua presenza in una corretta alimentazione con non pochi falsi miti e false credenze popolari che gli sono state attribuite.

Nonostante appartenga alla temuta categoria “formaggi”, questo nobile alimento vanta una vasta gamma di benefici e proprietà notevoli per il nostro benessere.

Basti pensare agli innumerevoli studi condotti a riguardo in cui si attesta che può aiutare a prevenire e combattere patologie come osteoporosi, ipertensione, obesità e diabete. Quindi, sfatiamo cinque falsi miti sul Parmigiano Reggiano ed esaltiamo la nobiltà di questo cibo così antico e genuino.

Il primo consiglio, essenziale, è imparare a leggere le etichette nutrizionali in cui vengono indicati: tabella nutrizionale con kcal, macro e micro nutrienti contenuti in 100g di prodotto, gli ingredienti (esclusivamente latte, sale e caglio), l’origine del prodotto e la sua “storia”, il grado di maturazione e il caseificio di produzione.

FALSO MITO 1: Il Parmigiano Reggiano contiene lattosio.

Il Ministero della Salute ha legittimato l’uso della dicitura sui prodotti con un contenuto di Lattosio inferiore a 0,1g per 100g e ha reso obbligatoria la seguente dicitura all’interno dell’etichetta del Parmigiano Reggiano: “l’assenza di Lattosio è conseguenza naturale del tipico processo di ottenimento del Parmigiano Reggiano. Contiene galattosio in quantità inferiore a 0,1mg/100g”.

Il Parmigiano Reggiano può dunque essere consumato anche da persone che presentano intolleranze a questo zucchero complesso.

Il lattosio viene meno poiché dopo la caseificazione avviene lo sviluppo di lattobacilli che fermentano la totalità del lattosio presente in circa 8 ore.

FALSO MITO 2: Il Parmigiano Reggiano è vietato nelle diete

Vale il detto “poco ma di qualità” quando si parla di formaggio, poiché è vero che contiene molti grassi saturi, ma possiede un elevato contenuto proteico ad alto valore biologico e un’importante quota di sali minerali preziosi come fosforo, calcio, magnesio e vitamina D – micro elementi che possiamo definire “amici delle ossa” – vitamina A, B2, B6 e B12 fondamentali per il sostentamento metabolico di bambini, anziani e donne in gravidanza. Protegge e sostiene il sistema immunitario grazie alla squadra di vitamina B, zinco e ferro che partecipano alla produzione di anticorpi e linfociti.

30g al giorno abbinati a un frutto di stagione possono costituire una merenda sana per bambini e ragazzi, sportivi, donne in gravidanza e menopausa, e anziani.

FALSO MITO 3: Meglio i formaggi light in una dieta rispetto al Parmigiano Reggiano

“Non prendiamo lucciole per lanterne”, scegliete bene e in modo consapevole senza farvi ingannare dalle etichette e dai claims nutrizionali come “light”, “senza grassi”, “proteico” ecc.

Sono sempre più presenti questi prodotti nei frigoriferi dei supermercati, complici le diete del momento e i food-trend. Il capro espiatorio è sempre il grasso e il prodotto viene artefatto denaturandolo: viene addizionato di additivi e le sue caratteristiche tipiche vengono a mancare. Senza contare l’aspetto psicologico: siamo fortemente tentati a mangiarne il doppio: tanto è light!

Qualità e quantità devono sempre andare alla stessa velocità, quindi evviva i nostri 30g di Parmigiano Reggiano al giorno!

FALSO MITO 4: Sei intollerante al glutine, non puoi mangiare Parmigiano Reggiano

Non vi è alcuna correlazione tra glutine e formaggi – se intendiamo quelli “veri” realizzati esclusivamente con latte, sale e caglio.

Il problema può sussistere quando si scelgono prodotti lattiero-caseari frutto della tecnologia alimentare/industriale, come ad esempio i prodotti light citati prima che possono contenere amido e gelificanti, inseriti in sostituzione del grasso per ottenere un’emulsione di caratteristiche simili a quelli “tradizionali”.

Lo stesso vale per i formaggi fusi, le fette, i formaggi spalmabili, per il loro contenuto notevole di addensanti, gelificanti, sale e aromi. Un occhio di riguardo anche agli yogurt alla frutta, al “gusto di…”, “crema di…”, che possono contenere purea e semilavorati di frutta, preparazioni dolciarie, aromi e addensanti che vanno a incrementare la consistenza cremosa, tipica di quel determinato prodotto. Queste preparazioni potrebbero contenere tracce di glutine per via della lunga lista di ingredienti e quindi della probabile promiscuità.

È ancora più importante e doveroso imparare a leggere bene l’etichetta nutrizionale e gli ingredienti.

FALSO MITO 5: I formaggi devono essere bianchi all’interno

Ok, il latte è bianco e la nostra convinzione è che sia sinonimo di qualità; in realtà ci stiamo sbagliando. Il colore non è indice di un prodotto migliore.

Il colore varia al variare dell’animale, della stagione e del cibo; infatti, gli animali durante la stagione calda mangiano erba fresca, che è ricca di beta carotene, un pigmento che conferisce un colore giallastro al latte ed è maggiormente ricco di vitamine A, E e D e un aroma tipico e genuino.

FALSO MITO 6: Il Parmigiano Reggiano viene addizionato di glutammato monosodico

Il glutammato monosodico è il sale sodico dell’acido glutammico, un aminoacido non essenziale che viene prodotto ogni giorno anche dal nostro organismo, in cui svolge il ruolo di neurotrasmettitore.

Questa molecola è naturalmente presente in diversi alimenti, come il latte e i suoi derivati, nelle carni (pollame, suino, manzo) e in alcune verdure, come pomodori e funghi, ma anche nei piselli, nelle cipolle, nel mais, negli asparagi, nelle verze e negli spinaci.

Il glutammato è conosciuto da tutti come il “quinto sapore” o gusto “umami”; ha un sapore caratteristico e genera in bocca una sensazione di sapidità tipica.

Viene notevolmente utilizzato nella cucina orientale, tanto da andare a sostituire quasi totalmente il comune sale – cloruro di sodio (NaCl) –  nelle pietanze.

In occidente è ancora messo all’angolo il suo uso e viene ancora visto come qualcosa di nocivo, una sorta di “schifezza” da bandire completamente. Questa diatriba ha una sua nascita che coincide con la produzione dei dadi da cucina (sia vegetale che di carne) di cui il glutammato è un ingrediente.

L’Unione Europea, infatti, lo ha classificato come additivo alimentare (E621) sicuro e ha fissato in 10 grammi per ogni kg di prodotto l’uso massimo consentito (Reg. U.E. n.1129/2011).

Quindi, è dannoso oppure no?

Il glutammato, naturale o di sintesi, contiene circa 1/3 del quantitativo di sodio contenuto nel classico sale che usiamo a casa. Ciò tradotto significa che se usiamo glutammato riduciamo l’assunzione di sodio avendo quindi una maggiore sapidità alle pietanze; quindi abbiamo due vantaggi in uno.

Il Parmigiano Reggiano è uno dei cibi più ricchi naturalmente di glutammato; circa 1,6g per 100g di prodotto. È naturale poiché, come già citato sopra, il latte ne è ricco e, durante i processi di maturazione/stagionatura, aumenta con l’aumentare dei mesi. Possiamo quindi affermare che il Parmigiano Reggiano non viene addizionato di alcun additivo alimentare, glutammato compreso, come invece avviene per i classici dadi da cucina.

Concludendo, ricordiamo che è bene imparare a fare una spesa intelligente e trasformarci un po’ in “detective”, selezionando scrupolosamente la qualità che andrà sempre combinata con le dosi corrette per una sana e bilanciata alimentazione.

Illustrazione © Victor Cavazzoni

Radikon, vini senza scorciatoie

Come la produzione del Parmigiano Reggiano inizia dai prati, anche nel mondo vitivinicolo esiste una parola, terroir, che fa riferimento a tutte quelle condizioni, geografiche, chimiche e naturali, che permettono di realizzare un vino unico e inimitabile, frutto delle singolarità del territorio d’origine.

Dal terreno al clima, dalle viti ai viticoltori, ogni luogo racchiude storie e caratteristiche ineguagliabili. Oslavia è uno di questi, un angolo di cultura e di alta artigianalità, a pochi chilometri da Gorizia, e ancora meno dal confine sloveno. Lì, tra i vigneti del Collio, si trovano i Magnifici Sette della Ribolla, che non sono nuovi supereroi della Marvel, bensì sette cantine, tra le più importanti in Italia e nel mondo, specializzate in vini macerati sulle bucce.

In questa enclave di vini naturali e sinergie diffuse, Saša Radikon è cresciuto tra gli esperimenti del padre, Stanko, per poi maturare le proprie esperienze e arrivare, oggi, a guidare l’azienda. I vini di Radikon sono una questione di terra, di sensibilità e di tempo, in grado di trasmettere l’identità del territorio e di rispettare le attese della natura.

Come ha raccontato Saša, non importa chi tra i sette abbia adottato per primo questa tecnica del passato, ma è significativo che si sia creata una comunità che ha saputo dargli seguito e che è diventata un simbolo dell’intero territorio.

Iniziamo con un po’ di nostalgia, qual è il tuo più bel ricordo legato al vino?
Uno dei ricordi più belli legati al vino è una giornata in cantina con mio padre, Stanko. Stavamo assaggiando i vini direttamente dalle botti e chiacchieravamo di quello che avevamo in cantina. In quel periodo c’erano i 2006 e i 2007; e diciamo che si potevano distinguere due “fazioni”: io preferivo il 2007, mentre lui il 2006.

E, a distanza di anni, chi aveva “ragione”?
Alla fine possiamo dire che sono risultate entrambe due grandi annate.

Tuo padre ha lasciato una grande eredità, ma anche un’enorme sfida. Tu stai portando avanti il lavoro inaugurato da Stanko, rendendolo tuo, nel rispetto della terra e del futuro. Come riassumeresti il tuo pensiero e la sua filosofia?
Il mio pensiero è sempre rivolto al rispetto della natura, al rispetto di tutto l’ambiente che ci circonda, dall’uva al terreno.

Quello che voglio fare, e che provo a fare, è trasmettere i sapori e i profumi della nostra terra e dei suoi frutti a chi consuma il nostro vino.

La filosofia di Stanko, non troppo diversa, consisteva nel trasmettere la sua conoscenza e il suo modo di fare al vino stesso: produceva il vino che gli piaceva e poi lo faceva bere agli altri.

Ed è riuscito a farlo andando controcorrente; partendo dall’acciaio e arrivando alla macerazione in grandi tini a tronco conico. Ci racconteresti il senso di queste sue scelte?
Negli anni Ottanta i primi vini di Stanko erano fatti in acciaio, ma la loro neutralità non lo ha mai convinto. Ha quindi prima cercato il legno in stile francese, con le barriques, che lo hanno accompagnato fino ai primi anni Novanta. E poi ha scelto di andare più in profondità: voleva estrarre di più con le macerazioni e recuperare sia la tradizione del contatto con le bucce, che quella delle botti grandi. Alla base di tutto c’è sempre stata la ricerca e la volontà di portare in bottiglia i sapori dell’uva e della terra.

Azienda Radikon

Si dice che la tradizione sia un’innovazione ben riuscita. Come vedi il futuro del vino? Sarà qualcosa legato alle nuove tecnologie o ulteriori riscoperte della tradizione?
Credo che il futuro del vino sia in realtà un mix delle due: la tradizione ha bisogno di innovazione per migliorarsi e per adattarsi al momento. Però l’innovazione non deve influenzare i risultati finali in modo eclatante. Alla base di tutto ci dev’essere sempre un’uva sana e genuina, è importante ricordare che le scorciatoie non esistono.

Soprattutto se hai a che fare con la natura! Da che cosa nascono le tue selezioni?
Le selezioni nascono dai vigneti stessi, e vengono prodotte con le uve migliori dell’annata, sempre se questa lo concede.

Fai uvaggi [raccolta simultanea di varietà diverse, NdA], blend [miscelazione di vini di varietà diverse, NdA] o entrambi?
Entrambi. O…… e Slatnik sono degli uvaggi: le uve vengono raccolte lo stesso giorno, o al massimo con un giorno di distanza, e messe a macerare negli stessi tini.
RS invece è un blend in quanto i vini vengono uniti dopo la fermentazione alcolica, perché le uve sono mature con alcuni giorni di distanza e sarebbe quindi impossibile fare un uvaggio.

I primi esperimenti di macerazione sulle bucce sono stati fatti con la Ribolla; un vitigno della tradizione del Collio, che ruolo assume il territorio nei tuoi processi di vinificazione?
Il concetto di territorio dev’essere inteso nel senso più ampio, comprendendo il terreno, il vitigno, e anche il clima. E tutti questi aspetti hanno un ruolo estremamente importante nella nostra vinificazione, in quanto la mineralità ci permette di avere un’uva matura senza perdere l’acidità, il che costituisce la base per i lunghi invecchiamenti.

Come si sente dire, “il buon vino nasce in vigna” ma anche in cantina! C’è un vitigno che preferisci?
È difficile individuare il figlio preferito, ci sono momenti diversi per vini diversi. Se proprio dovessi fare una scelta, il vitigno che mi dà più soddisfazioni in campagna è la Ribolla, mentre ciò che mi entusiasma di più in questo momento in cantina è lo Jakot.

Stanko definiva il suo approccio “naturale”, “senza compromessi”, anche tu segui un modello che tende a preservare l’ecosistema, evitando ogni prodotto chimico. In questo periodo di crisi climatica credi che questo metodo possa essere scalabile e d’aiuto?
La produzione del vino è strettamente legata alla natura e ovviamente meno interazioni siamo capaci di compiere, meglio è.

Il mio approccio, come quello di mio padre, è cercare di utilizzare soltanto il minimo indispensabile, al fine di preservare l’originalità dell’uva.

È ovvio che una produzione di questo tipo non può essere a impatto zero. Sta nella nostra coscienza cercare di ripristinare un equilibrio che per tanti anni abbiamo sbilanciato: prendersi cura dei prati, dei boschi e dei corsi d’acqua, fa parte del nostro impegno per aiutare la flora e la fauna a riprendersi parte di quello che è loro.

Oggi siamo abituati a sentir parlare di Orange Wine e di vini biodinamici. Come ti relazioni con le definizioni e che cosa ne pensi di queste etichettature?
La definizione di Orange Wine negli anni è stata molto utile, perché ha permesso alle persone che si stavano approcciando a questo mondo di capire che non sono vini bianchi. È una tecnica riscoperta e oggi è una nuova categoria di vino, riconosciuta dai consumatori a livello mondiale. La biodinamica, invece, è un insieme di pratiche agricole basate su sani principi, a volte di difficile applicazione. Sotto l’espressione vino biodinamico, però, ricadono spesso troppi vini; è quindi un termine forse abusato.

Il Collio friulano e il Brda sloveno sono due facce della stessa collina, composte dalla stessa ponca. In un certo senso il vino valica i confini nazionali; saresti favorevole alla creazione di una denominazione interstatale?
Fino a circa un secolo fa, per 400 anni, il Collio e il Brda sono stati uniti sotto l’Impero austro-ungarico. Il confine politico emerso dopo la Prima guerra mondiale ha effettivamente diviso delle colline omogenee, e le differenza di pensiero e quelle che hanno a che vedere con legislazione (sia nell’ultimo secolo, coi due “blocchi” contrapposti, sia ora, come Stati membri dell’Unione Europea) continuano a tenere separati questi territori. Per una denominazione interstatale purtroppo sono gli Stati che dovrebbero mettersi d’accordo, e non credo sia possibile nel breve periodo.

E ritieni che Oslavia sia una comunità? Nel senso, c’è scambio e condivisione tra i produttori della zona?
Oslavia è un’isola felice, fra di noi andiamo abbastanza d’accordo e da più di 10 anni ci stiamo impegnando, attraverso l’Associazione Produttori Ribolla di Oslavia, per promuovere il nostro territorio all’unisono. Ovviamente con alcuni produttori c’è maggiore scambio di opinioni, ma sicuramente ci sentiamo parte di una comunità.

La vendemmia è storicamente associata a un momento di festa e di condivisione, oggi si vive ancora così?

La vendemmia è in effetti il momento più felice dell’anno, è la nascita di un vino e quindi sì, è ancora un momento di festa, che mi piace condividere con la famiglia e con tutti quelli che vi partecipano.

Che cosa significa per te «fare comunità»?
Fare comunità per me significa impegnarmi nel mantenere i rapporti con le persone intorno a me, condividere le mie esperienze, cercare di carpire un insegnamento dalle esperienze altrui, essere presente in caso di bisogno o, semplicemente, esserci per fare due chiacchiere.

Foto © Vittoria Lorenzetti presso l’Azienda Radikon

Un’economia di comunità solidale è possibile

Nel 1994, in Emilia Romagna, nel comune di Fidenza (Parma) nascono i primi Gas, Gruppi di acquisto solidali organizzati spontaneamente per offrire una modalità di acquisto secondo una visione collettiva, ripensando i concetti di produzione e consumo.

Sempre nel 1994, un ragazzino di 11 anni esordisce su un palcoscenico internazionale, a Stoccolma, per una conferenza sul lavoro in cui racconta la sua storia. Iqbal Masih è costretto dal padre a lavorare fin dai 4 anni in una fornace. Poi viene venduto a un produttore dei celebri tappeti del suo Paese.

Deve lavorare incatenato al telaio e senza un nutrimento adeguato. A 9 anni riesce a partecipare a una manifestazione per le condizioni dei lavoratori, ma al ritorno in fabbrica è picchiato e costretto ad andare via. Comincia a studiare e a impegnarsi contro lo sfruttamento minorile. A dicembre del 1994 ottiene il premio Youth in Action, creato apposta per lui. La pressione mediatica sul Pakistan diviene tale che il governo deve chiudere molte fabbriche, liberando migliaia di bambini.

Iqbal ritiene che questo sia solo il primo passo per i diritti degli sfruttati. Vorrebbe proseguire la sua lotta per i diritti dell’infanzia, per la scolarizzazione e lo studio, ma non può. Il 16 aprile del 1995, a 12 anni, qualcuno lo uccide sparandogli alla schiena, mentre attraversa in bicicletta la sua città, Muridke.

Iqbal Masih diventa un simbolo ed entra nell’immaginario collettivo. In Italia gli dedicano strade, piazze, associazioni, scuole. Tra queste ultime c’è una scuola e nido d’infanzia di Reggio Emilia, che come tutte le scuole emiliane ha un metodo inclusivo e offre laboratori ed esperienze anche ai genitori. Nel 2009, alcuni di loro sono ispirati proprio da un percorso sul consumo critico e decidono di formare il gruppo di acquisto solidale “Iqbal Masih”, attivo ancora oggi.

Roberto Cardarelli, che si definisce “un matematico prestato all’informatica”, era tra quei genitori e continua a essere tra gli animatori del Gas. Non si può raccontare la nascita del Gas “Iqbal Masih” se non si comprende che settant’anni fa le scuole per l’infanzia in Emilia Romagna nascevano soprattutto per iniziativa dei genitori. Erano loro che ponevano le prime pietre ed erano loro a organizzare spazi, tempi e attività di supporto alla didattica.

Il racconto di Roberto comincia da lì: “Nel 2009 mia figlia aveva 5 anni e frequentava la scuola per l’infanzia ‘Iqbal Masih’. Come in altre realtà, anche da noi i genitori che facevano parte della gestione, proponevano dei percorsi partecipativi. Quando abbiamo deciso di affrontare il tema della sostenibilità, abbiamo organizzato anche un incontro con i partecipanti a un Gas di Modena”.

Dei tanti appuntamenti, è proprio quello che fa accendere qualcosa nell’animo di Roberto e della sua famiglia, come per altre famiglie della stessa scuola: “Abbiamo cominciato a riflettere con quattro gruppi famigliari. Si è acceso qualcosa dentro e abbiamo deciso di non cercare dei Gas ai quali iscriverci, ma di crearne uno da zero. In questo modo siamo entrati in relazione con altri gruppi della città e abbiamo conosciuto i primi produttori che lavoravano con quei gruppi, ma dopo siamo andati a cercare anche altri produttori a seconda delle esigenze.

Entro il primo anno eravamo diventati dieci nuclei familiari. Abbiamo voluto dare al Gas lo stesso nome della scuola, ‘Iqbal Masih’, per creare una relazione con questa; perché l’esperienza di Iqbal è un richiamo ai valori che ci animano. Inoltre volevamo continuare a proporre l’esperienza dei Gas e del consumo critico nella nostra scuola e anche in altri istituti, proponendo formazione e informazione. Volevamo sottolineare l’importanza della “s” dei Gas. Abbiamo voluto parlare di finanza etica, di agricoltura biologica, di sostenibilità e di tutto quello che è connesso all’economia solidale ”.

La sostenibilità, umana e ambientale, è al centro del Gas “Iqbal Masih”: “In questo contesto, abbiamo ragionato sull’esigenza di avere accesso a un cibo sano, ma prodotto in una determinata maniera, con l’attenzione al processo di produzione, l’attenzione all’ambiente, ma anche al rispetto del lavoro di tutti e al giusto prezzo. Tutto ciò si sintetizza nelle cosiddette “Tre P”, il prodotto, la produzione, il progetto”.

E nel progetto si inserisce anche l’importanza di tessere relazioni, tendenza quasi naturale in questo territorio: “Qui c’è la volontà di costituire delle relazioni, di mettersi in rete e collaborare a un livello paritario. Il mondo della cooperazione ha avuto terreno fertile. L’incontro è al centro dei Gas. Amiamo molto conoscere di persona i produttori, organizzare delle visite per vedere come funziona la filiera, anche con finalità didattiche per i bambini e i ragazzi. Uno dei primi produttori che abbiamo contattato è il nostro attuale fornitore di Parmigiano Reggiano, che produce il suo formaggio biologico dalla famosa e antica razza autoctona delle vacche rosse.

Quando siamo andati a visitarlo in azienda, abbiamo imparato tante cose, che ci sono piaciute molto. Ci ha mostrato come tiene le vacche libere, il fatto che cura le siepi per difendere le piante coltivate in modo non intensivo e biologico, e tutte le sue voci di costo per arrivare a concordare insieme il giusto prezzo, in modo che anche lui potesse avere il suo margine per continuare a fare bene il suo lavoro”.

Il Gas “Iqbal Masih” non intende la relazione come un semplice rapporto tra esercente e acquirente. Il Gas sostiene i progetti in linea con i propri valori, arrivando anche a sostenerne la co-produzione: “Un membro del nostro Gas aveva una piccola azienda di famiglia e si è messo a coltivare grani antichi, dai quali voleva produrre farina. Durante uno dei nostri incontri periodici ce ne ha parlato e ci ha detto che gli sarebbe piaciuto acquistare un piccolo mulino in pietra e che ne aveva individuato uno in Austria. Come Gas abbiamo deciso di sostenerlo e di pre-finanziarlo.

Ciascuno di noi ha versato una quota libera e in cambio ha ricevuto negli anni successivi la farina prodotta col mulino acquistato. Per la prima molitura del grano ci siamo tutti trovati nell’azienda del nostro gasista per assistere all’evento. È stata una bella festa. Seguire tutto questo progetto è stata anche un’occasione di formazione sul mondo delle farine”.

Oggi il Gas “Iqbal Masih” conta circa quaranta iscrizioni, anche se le famiglie attive costantemente sono la metà. Roberto Cardarelli spiega che il tempo e il numero degli iscritti sono i due fattori critici per la sopravvivenza di un Gas: “Bisogna trovare e conoscere i produttori di cui abbiamo bisogno e che rispettino i nostri parametri. Un’avventura meravigliosa è stata quella di trovare fornitori di pesce, per esempio.

Si tratta di una rete di piccoli pescatori di Termoli che ogni due settimane ci permette di ricevere il pesce pescato la notte prima. Per trovarla abbiamo impiegato molto tempo, vivendo in piena pianura padana, ma oltre a questo abbiamo organizzato un incontro online per farla conoscere a tutti e poi stabilito un prezzo. Occorre tempo anche per svolgere il proprio compito nel Gas. Soprattutto il ruolo di contabile, ma poi ci sono i responsabili per le varie aree. E noi abbiamo anche un problema di spazio. I prodotti che ci vengono consegnati arrivano nel mio box e gli altri gasisti devono venire a recuperarli per tempo. Bisogna mantenere tutto in equilibrio e il primo modo per fallire è quello di crescere troppo”.

La rete dei Gas è una bella risposta sociale ai modelli di produzione del mercato globale. Piccolo è bello, insomma. Ma questo sistema è economicamente sostenibile per tutti, o vi accede solo chi se lo può permettere? “La risposta qui è molto variegata ed è una delle criticità di questo sistema. Noi abbiamo una visione anche politica, per questo facciamo in modo che chi è in difficoltà possa comunque continuare ad avere accesso a uno stile di vita sano”.

Azienda Agricola Paolo Rota di Reggio Emilia

L’Agenzia europea per l’Ambiente (AEA), d’accordo con i rapporti dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), ha pubblicato uno studio dal titolo “Crescita senza crescita economica”, in cui evidenzia come l’economia circolare sia impossibile quando questa si basa sulla crescita economica tradizionale, cioè sullo sfruttamento e sullo spreco di risorse. La necessità di modelli differenti fa crescere l’attenzione verso forme di economia alternative e sostenibili come i Gas.

Anche i Gas, però, hanno un limite alla loro crescita, come ha spiegato Cardarelli. Quale futuro è possibile ipotizzare per un’economia solidale e socioecologica? “Esistono realtà che si pongono questa domanda e provano ad affrontarla mettendosi in rete. Un esempio è quello del Creser, il coordinamento per l’economia solidale in Emilia Romagna, ma anche Banca Etica e Mag6, che affrontano le tematiche della finanza in un’ottica di mutualità”.

E per quanto riguarda l’evoluzione dei Gas e delle loro istanze? “Sempre in una visione politica e programmatica, il mio sogno sarebbe quello di far funzionare i Gas sul modello delle Food Coop americane. Ancora una volta è stata l’Emilia Romagna con l’esperienza di “Camilla” a cominciare. Si tratta di piccoli empori di comunità autogestiti da chi li frequenta, che in questo modo si occupa della fornitura, della distribuzione e della vendita dei prodotti secondo criteri di economia sostenibile e solidale. Si diventa soci e si supporta economicamente la Food Coop. Ma a tutto questo si devono aggiungere meccanismi mutualistici che permettano l’accesso anche alle persone in difficoltà”.

In questa direzione lavora anche la legislazione regionale, ma il mercato globale è ancora affetto da gigantismo. Si riuscirà a rimediare in tempo utile?

Foto © Stefano Marzoli presso l’Azienda Agricola Paolo Rota di Reggio Emilia