EDITORIALE
Moda a basso impatto: l’equilibrio tra innovazione, etica ed estetica
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Il servizio Google Trends, che si occupa di monitorare le tendenze crescenti nelle ricerche degli utenti di tutto il mondo, ha registrato a partire dal 2019 un picco di interesse per parole chiave riguardanti la moda etica, sostenibile e attenta all’ambiente.
Oggi, dopo tre anni, è ormai praticamente impossibile non imbattersi in campagne in cui è la sostenibilità ad essere al centro, o protagonista di collezioni speciali, le cosiddette capsule collections, create con materiali alternativi ed etichettate come “green” o “eco”.
Fortunatamente queste tematiche stanno diventando parte integrante delle strategie aziendali di molti brand di abbigliamento proprio per il crescente interesse dei consumatori, in particolare delle nuove generazioni – Generazione Z in primis, seguita dai Millennial.
Allo stesso tempo, però, aumenta anche la confusione a riguardo: etichette, certificazioni, linee dedicate… l’offerta sembra davvero moltiplicarsi in maniera esponenziale. Ma è sempre vero tutto quello che leggiamo?
In una recente indagine dell’Harvard Business Review, il 65% dei consumatori intervistati si dichiarava fortemente interessato ad aumentare i propri acquisti da brand di abbigliamento dall’approccio produttivo consapevole; anche se soltanto nel 26% dei casi l’intenzione si traduceva in un concreto cambiamento, si tratta di una percentuale davvero molto alta rispetto anche solo a 5 anni fa.
Se per colmare il gap tra intenzione e azione è fisiologico che trascorra qualche tempo, data l’attenzione relativamente nuova su tematiche piuttosto complesse e articolate, il mondo dell’innovazione rispetto allo sviluppo di nuovi materiali a basso impatto si sta muovendo invece in modo velocissimo.
Il tessile è da sempre considerato il primo tassello del mondo moda, l’ambito che più di tutti deve muoversi con anticipo cogliendo al volo i primissimi segnali del mercato, in modo da poter offrire per tempo soluzioni concrete che rispondono all’effettiva domanda da parte dei consumatori. E mai come oggi si è assistito a tanto fermento nel settore dello sviluppo dei materiali, con una corsa alla ricerca di soluzioni sempre più innovative e con il minor impatto ambientale possibile.
Per chi si occupa di ricerca in ambito tessile, ad esempio, il cotone biologico – dal minor impatto idrico rispetto a quello tradizionale e coltivato senza l’utilizzo di pesticidi, diserbanti e agenti chimici dannosi per uomo e ambiente – fa ormai già parte del passato: la nuova frontiera è creare nuovi filati senza sfruttare direttamente le risorse naturali, bensì ottenendoli dal recupero delle fibre a base cellulosica presenti nei vestiti usati o invenduti.
Una soluzione interessante per cercare di trasformare in risorse gli sprechi generati dalla sovrapproduzione, che ha portato a raggiungere gli oltre 92 milioni di metri cubi di rifiuti tessili annui. Questo è ciò di cui si occupano la svedese Re:newcell con il progetto Circulose e la finlandese Infinited Fiber Company con Infinna, la quale ha appena chiuso un round di finanziamenti da 30 milioni di euro da parte di alcuni colossi della moda: le due aziende estraggono fibre cellulosiche dagli abiti dismessi per poi, con un procedimento simile al riciclo della carta, ricreare un filato del tutto paragonabile al cotone.
Un altro settore che si prepara ad assistere a grossi stravolgimenti futuri è quello conciario: la richiesta per alternative animal-free al cuoio è in costante crescita, e anche i grossi gruppi del lusso sperimentano e sponsorizzano l’utilizzo di materiali innovativi per poterseli aggiudicare in esclusiva o in anteprima.
Se materiali derivati da scarti alimentari come ananas, uva, arance e mele sono approdati sul mercato già da qualche tempo, in pochi ancora hanno avuto modo di testare le ultimissime novità a sostituzione della pelle animale.
Come ad esempio Mylo, della statunitense Bolt Threads, o Reishi, sviluppato da MycoWorks, create a partire dal micelio, l’apparato vegetativo fibroso dei funghi; o ancora Desserto, brevetto messicano a base di cactus: tutte soluzioni dall’aspetto finale estremamente simile al cuoio.
Sempre rimanendo in questo ambito, ci sono grandi aspettative per aziende come la californiana Vitrolabs, che si sta occupando di sviluppare una tipologia di cuoio interamente coltivato in laboratorio a partire da cellule animali, e l’olandese Furoid, che porta avanti un discorso analogo per quanto riguarda le pellicce.
Spesso è proprio rispetto ai materiali di origine animale che si vedono sorgere soluzioni alternative interessanti, come la lana rigenerata, per la quale troviamo diverse aziende d’eccellenza all’interno del distretto tessile di Prato, dove si tramanda da generazioni il lavoro di cenciaiolo: una figura in grado di individuare al tatto l’esatta composizione dei capi dismessi, selezionando i materiali più puri che poi vengono successivamente riconvertiti in nuovo filato.
O ancora, tinture e pigmenti ottenuti a partire dalle alghe, seta ricavata dalla fibra di rosa, lenti per occhiali da sole create con emissioni di CO2, felpe a base di proteine fermentate.
In ogni caso, la parola chiave per i materiali di nuova generazione è circolarità: è ormai impossibile pensare a nuove alternative che non prevedano una soluzione per l’intero ciclo di vita di un prodotto, dalla creazione della fibra fino allo smaltimento del capo.
Le “tre R” sono ormai diventate il mantra di qualsiasi progettista che si cimenti con la moda a basso impatto: Reduce, Reuse, Recyle. Ovvero Riduzione – pensando alla sovrapproduzione ormai fuori controllo, Riutilizzo – allungando il più possibile la vita dei capi riparandoli, trasformandoli, rivendendoli o donandoli. E Riciclo – proprio affinché il meno possibile finisca in discarica, garantendo nuova vita alla fibra o al prodotto: da qui, il recente successo di tecniche come l’upcycling, volte a conferire nuovo valore a scarti e abiti dismessi.
D’altronde, si stima che la maggior parte dell’impatto di un capo sia prevedibile in fase di design: ecco perché è così importante investire sulla formazione di una nuova generazione di progettisti che siano in grado di valutare l’intero ciclo di vita degli abiti, portare soluzioni concrete e ipotizzare scenari innovativi.
Non solo chi si occupa di progettazione e design può fare la propria parte.
Ciascuno di noi può provare ad applicare le stesse regole al nostro approccio al consumo, partendo proprio dalla riduzione: la pandemia, in particolare, ha portato molte persone a riflettere sui propri consumi e sulle storie degli oggetti e dei capi nelle proprie case.
Ci serve davvero tutto quello che acquistiamo? E abbiamo mai riflettuto su quante volte in media abbiamo indossato quello che possediamo nel nostro armadio?
Un passo semplice ma di grande impatto è proprio il cominciare a farsi più domande, a porle ai brand; scegliere meno e meglio, privilegiando la qualità e investendo in capi fatti per durare.
Ma anche il riutilizzo e il riciclo possono gradualmente diventare parte della nostra quotidianità: si sente spesso dire che il capo più sostenibile è quello che già possediamo, tutto ciò che dobbiamo (re)imparare a fare è prendercene cura. Come ad esempio evitare lavaggi a temperature troppo elevate, non esagerare con detersivi e ammorbidenti, o riporre gli indumenti con le giuste attenzioni – sapevate che la maglieria va sempre piegata e mai appesa in modo da non rovinare le fibre?
Cerchiamo di riparare i nostri abiti, o comunque allunghiamone la vita il più possibile, magari trasformandoli o riadattandoli con l’aiuto di una sarta o di un calzolaio, prima di rimetterli in circolo vendendoli o donandoli.
E quella che sembra un’azione molto semplice come leggere le etichette dei nostri vestiti, è in realtà forse il mezzo più immediato che abbiamo per intraprendere un percorso di consapevolezza, per cominciare a farsi e a fare domande e per riconnettersi con le storie dietro agli oggetti di cui ci circondiamo.
Illustrazione © Francesco Bongiorni