Comunità
A Correggio gli “Agricoltori Custodi” fanno rivivere i semi antichi
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Casa Vecchia, anzi Cà Vècia, è una galassia terrena. È un’azienda agricola nata nel 1933 a Villa Prato (RE), nel cuore dell’Emilia Romagna, la Food Valley italiana dove vengono prodotte eccellenze enogastronomiche del Made in Italy, come il Parmigiano Reggiano. È la base di Natura Maestra, linea di prodotti realizzati a filiera corta e ottenuti nell’ambito del progetto Agricoltori Custodi di Correggio, che recupera e protegge semi autoctoni di antiche varietà.
A gestire tutto insieme a Elena Luce Fiaccadori, laureata in Scienze Biologiche e agricoltrice di terza generazione, è Andrea Libero Gherpelli, agricoltore di quarta generazione e attore. Mentre parliamo con lui, suona il campanello dello spaccio. È un’altra intervista, lato mondo dello spettacolo, ma può aspettare: “Ambivalenza? È la mia biodiversità, io la chiamo così”.
Che tipo di terre sono quelle in cui lavorate?
Oggi sono terre morbide, fertili, sane. È uno dei risultati raggiunti con il nostro approccio agricolo che definiamo simbiotico, una relazione che abbiamo cercato di re-instaurare tra noi e l’elemento terra. Gli archeologi sui nostri terreni hanno trovato resti antichi tra cui un vomere dell’Età del Bronzo: qui si fa agricoltura almeno da allora.
È una terra particolarmente adatta ai semi?
Sì, lo è storicamente perché l’Emilia Romagna è una terra che arriva da paludi e raccolte di acqua che scendevano dalle montagne per riunirsi in queste piane con tutti i residui vegetali trasportati dalle piogge. Ora il terreno è straricco di sostanza organica. La Pianura Padana è da sempre estremamente fertile. Oggi abbiamo questa eredità – sarebbe il caso di ricordarlo – e potremmo fare
agricoltura di qualità perché storicamente abbiamo questa peculiarità.
Come descriveresti la Casa Vecchia?
È l’azienda agricola dove si è sviluppato il lavoro di quattro generazioni della mia famiglia, io arrivo soltanto per ultimo. Qui, già dai primi del ‘900, il mio bisnonno Giovita ha preso questo appezzamento di terra, dove facevano di tutto, perché le aziende agricole erano molto diversificate. Oggi invece sono più specializzate. Allora pensavano a tutto perché avevano l’obiettivo di “costruirsi” l’alimento: dovevano farsi latte, grano, vino, frutta, verdura. Ciò che era in esubero veniva venduto.
Per te, oltre a essere un’azienda agricola, è qualcosa di più?
È un progetto familiare e di comunità. Le comunità si sono sempre costruite intorno all’agricoltura, non è una novità. Le città da sempre venivano costruite dove l’agricoltura era fertile e si riuscivano a produrre gli alimenti. Come mio papà, anche io mi sono trovato fin da bambino a lavorare in questa azienda nella Pianura Padana: era un’agricoltura standardizzata, quella degli anni ‘70, che portavamo avanti insieme all’allevamento. Venivano usati i frumenti, quelli moderni, introdotti nella seconda metà del ‘900 per sfamare gli animali ma non noi.
Poi cos’è successo?
In famiglia si è sempre fatta arte ma in maniera goliardica, mai professionale. Dopo 4 generazioni sono stato il primo che si è potuto permettere il privilegio di allontanarsi e di cercare un percorso personale. Dopo la laurea in ingegneria a Bologna, conseguita nel 2000, sono partito per Roma e ho cercato di inseguire un bisogno comunicativo particolare, che ho sempre avuto. Ho vinto la borsa di studio all’Accademia (d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”, ndr) e si è aperta un’altra porta, quella del mio percorso artistico.
Un percorso che ti ha allontanato dall’agricoltura?
Naturalmente. Viaggiavo spesso, facevo tournée con i teatri stabili, e questo mi portava a stare fuori a lungo. Ma quando ti allontani, quella distanza ti permette di vedere le cose in una prospettiva diversa. E così mi sono accorto di quanto il lavoro in agricoltura sia straordinario, estremamente importante – direi fondamentale – per ognuno di noi; e anche di quanto stesse diventando disumanizzato, privo di slancio, di quanto negli anni si stesse perdendo l’approccio di relazione tra l’essere umano e il pianeta.
Invece questo tipo di agricoltura di cui ci occupiamo oggi, con l’azienda completamente virata sul progetto della custodia dei semi, per me è stato il modo di tornare alla terra, all’agricoltura, riportando la sensibilità e quel rispetto verso gli elementi che mi era mancato e che mi impediva di vivere con serenità la produzione agricola degli alimenti.
In che modo hai ricostruito quel legame con l’agricoltura, che sembrava essersi spezzato?
Ho sempre avuto un rapporto strettissimo e personale con la natura. Il “sistema-agricolo”, invece, in cui anche la nostra azienda era inserita, mi aveva messo in difficoltà; anzi, mi aveva fatto proprio passare la voglia di lavorare in questo settore, aveva sopito la mia passione. In me quindi c’era una mancanza di serenità. Poi ho capito cosa potevo fare. Ho cercato di scoprire cosa c’era prima, su cosa si fonda la base dell’agricoltura, ho ritrovato quelle – oramai troppo poco citate – antiche e buone pratiche agricole, sviluppate in secoli e millenni di pratica e attenta osservazione. Abbiamo iniziato a occuparci di grani antichi, ormai più di dieci anni fa, quando non si sapeva nemmeno cosa fossero.
Ho recuperato nel tempo molte varietà storiche di semi ormai fuori commercio, ma preservate all’interno di alcune banche del germoplasma (“depositi” di semi in cui preservare la biodiversità vegetale, ndr) e nelle università, per le loro caratteristiche uniche di naturale resistenza e resilienza, e le ho riseminate nell’orto; sono nate delle piante alte quanto me – io sono un metro e 90! All’inizio, di fronte a questi risultati, per me era evidente che eravamo tutti cresciuti dentro a un mondo forzato, modificato e per niente reale.
Come hai scoperto l’esistenza di semi antichi?
La prima volta ne ho sentito parlare da mio padre e poi da un professore dell’università che sono andato a disturbare. Gli ho chiesto “scusi ma grani antichi rispetto a cosa, rispetto a quando? E quelli che stiamo tutti seminando cosa sono?” Lì si è aperto il Vaso di Pandora: ho capito che fino ai tempi dei nostri bisnonni l’agricoltura era completamente diversa.
Il seme, riseminato ogni anno all’interno dei terreni, veniva considerato proprio come un bene aziendale. Potevi contare così, semina dopo semina, sulla sua intelligenza intrinseca: l’intelligenza vegetale è di gran lunga superiore alla nostra, alla mia di certo. Quindi se fai in modo di “allenare” l’intelligenza dei semi, nel giro di qualche anno puoi ottenere dei raccolti salubri nel pieno rispetto degli equilibri della natura.
Per te cosa vuol dire recuperare e custodire semi di antiche varietà?
Vuol dire essere dei privilegiati, perché si ha a che fare con la Storia senza intermediari. È come scoprire un pizzico di verità rispetto all’evoluzione dell’alimentazione umana. Oggi siamo finalmente molto più consapevoli di questa storia, ma il progetto può portarci a fare ancora nuove e importanti scoperte. Ci tengo a chiarire che non riceviamo fondi o sovvenzioni, il nostro progetto Agricoltori Custodi di Correggio vive solo grazie alla relazione con le persone: l’acquisto dei prodotti torna quindi a essere importante anche proprio per il mantenimento e sviluppo di questo progetto.
É un progetto con una valenza reale, concreta…
I semi sono come reperti e la nostra è una collezione di grandissimo valore storico e culturale. Il nostro obiettivo è ricostruire e ri-valorizzare un’intelligenza vegetale costruita in secoli e millenni, dato che i cereali sono presenti sul pianeta da tutto questo tempo, e riportarla in tavola. Quando riesci ad avere a che fare con questi semi, hai anche a che fare con qualcosa che abita questo pianeta da molto più tempo di te, e che ha raccolto molti più dati di te. È ovvio che i semi, sotto questo punto di vista, hanno molto da insegnarci. Diamogli insieme di nuovo l’opportunità di farlo.
Hai ritrovato l’equilibrio tra arte e natura nella tua vita personale?
Sì, certo, anche perché l’approccio artistico non ha confini. Io non mi sento di fare due mestieri diversi: forse da fuori può sembrare, ma nella realtà quando ti approcci a una storia, a un personaggio da interpretare, a un nuovo film o anche solo all’incontro con un regista, è necessaria la stessa sensibilità che serve per intuire e riscoprire cosa sta nascosto sotto alla relazione con i semi e con la Natura, che è una delle grandi meraviglie. Travalica i dogmi, le religioni, è molto semplice da interpretare; è come la musica o la danza, non ha parole, non ha lingue, è comprensibile da tutti, unisce i popoli.
Perché avete rimesso in uso attrezzature della prima metà del ‘900?
Servono per riprodurre il seme in azienda, sono macchine che oggi le aziende agricole non hanno purtroppo più nel loro parco macchine ed è il motivo per cui acquistano il seme esternamente. È il modo per noi di selezionare la nuova semente dall’ultimo raccolto trebbiato.
I semi sono il punto di partenza per i prodotti “Natura Maestra”?
Da tutti questi cereali, macinati a pietra come si faceva un tempo, riusciamo a ricavare diversi prodotti, conservando il germe all’interno delle farine: farine di farro, di grani teneri e duri, di mais o ceci. Tutte varietà storiche. Dalle farine, poi, insieme a un gruppo di artigiani che abbiamo selezionato negli anni, riusciamo a realizzare una pasta che viene trafilata al bronzo: spaghetti,
fettuccine al farro e altri formati.
Poi facciamo prodotti da forno come pane con pasta madre, biscotti, cracker, grissini, focacce e tante altre cose. Oggi abbiamo una proposta molto ampia e ne siamo felici, perché è il risultato di una rinnovata relazione non solo con la natura, ma anche con gli artigiani del nostro territorio, che avevano dismesso l’approccio con questo tipo di “artigianato alimentare” e con questi cereali. Questi frumenti storici, peraltro, sono saporitissimi e molto più digeribili e delicati, ci stanno dando grandi
soddisfazioni con i benefici riscontrati da tanti nostri clienti.
Foto articolo di ©Andrea Lazzarini
Foto galleria di ©Stefano Marzoli