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ORO LIQUIDO

Chef si diventa

di Anna Prandoni, 15 Settembre 2020
Tempo di lettura: 17 minuti
Chef si diventa

Chef di una delle osterie storiche della bassa parmense, parte a buon diritto dell’Unione Ristoranti del Buon Ricordo, Cristina Cerbi è una forza della natura che con il suo accento parmigiano racconta il suo territorio con una grande competenza. Piglio deciso e idee chiare l’hanno portata dall’economia alla ristorazione: commercialista nella sua prima vita, dopo aver conosciuto il marito e i suoceri, gestori di un ristorante, ha cambiato settore, imparando dalle basi un lavoro che adesso ha scelto come vero stile di vita.

Uno dei piatti simbolo del ristorante e che non è mai cambiato è giustamente famoso anche all’estero. Viene servito in zuppiera, estate e inverno, ed è un brodo fumante di cappone in cui galleggiano le mezze maniche con un ripieno gustosissimo. Un condensato di territorio diluito nell’acqua, insaporita da carne, storia e Parmigiano Reggiano.

Da dove nasce la tua passione per questo lavoro?

I genitori di mio marito, e prima di loro i nonni, hanno sempre avuto una di quelle trattorie storiche sulla via Emilia, dove si fermavano i camionisti. Io ho iniziato lì, e poi – solo lui ed io – abbiamo rilevato una vecchia osteria, dove praticamente siamo stati adottati dai vecchi proprietari.

Facciamo una cucina legata al territorio e alla stagionalità, riscoprendo vecchissime ricette.

Tra le quali, una che – partendo da acqua e Parmigiano Reggiano – ha fatto il giro del mondo…
Sì, le mezze maniche di sfoglia sottile con Parmigiano Reggiano, in brodo di cappone. Una sfoglia arrotolata, tagliata e fatta bollire nel brodo di cappone. È una ricetta che viene dalla bassa, non la faceva più nessuno. L’abbiamo riproposta circa una ventina d’anni fa e ha subito avuto un bel successo. Essendo una ricetta della tradizione, è sempre esistita nella nostra zona: nella bassa di Zibello la facevano anche tante altre famiglie. Alla fine non esiste mai una ricetta ‘vera’, perché ogni famiglia apporta le proprie modifiche, come ho fatto anch’io. Perché se un piatto andava bene 40 anni fa, oggi non va più così bene: sono cambiati i modi di mangiare, sono cambiate le nostre abitudini lavorative. Oggi non devi essere appesantito nell’appagamento del gusto: devi essere alleggerito. Per questo la sfoglia la tiro molto più sottile di quanto direbbe la tradizione, diventa un velo trasparente. E all’interno del ripieno uso Parmigiano Reggiano di due differenti stagionature, un 24 e un 36 mesi. Metto pochissimo pangrattato, giusto per legare: una volta ne si metteva di più, bagnato con sugo arrosto o brodo. Oggi sto cercando di calibrare meglio le materie prime, per avere un risultato più leggero. Naturalmente non può mancare un brodo di terza, anch’esso più leggero rispetto a quelli di anni fa: alla fine queste mezze maniche sono come un cappelletto aperto, e cuocendo il sapore del ripieno si unisce a quello del brodo.

Sono 15 anni che siamo qui, e la cosa che ci fa più piacere è sentire tantissimi clienti giovani dirci che siamo riusciti a replicare una ricetta delle loro nonne che non trovano più in giro. La cosa più bella è che lo rendiamo più attuale, più moderno, ma non per questo meno tradizionale.

Com’è avvenuta la tua formazione gastronomica?

Io facevo la commercialista. Mio marito era la terza generazione di ristoratori. Ho resistito cinque anni dopo averlo conosciuto, e poi ho deciso di abbandonare il mio lavoro e buttarmi nell’impresa della sua famiglia.
Ho iniziato nel 1996: l’unico reparto in cucina che non era coperto era il reparto del dolce. All’epoca non era così importante come oggi, e ho iniziato a farli io. Oggi posso dire che la nostra osteria è famosa anche per i dolci. Io ho imparato da mio suocero. Poi, piano piano, sempre per imitazione, ho iniziato a conoscere le tecniche di cucina e ho appreso il resto.
Oggi in cucina ci sono io con due ragazze, una delle quali è con me da 25 anni. Una cucina al femminile, un universo nel quale mi trovo bene, con loro mi piace collaborare, ci capiamo al volo.

Perché la cucina professionale è quasi sempre un affare da uomini?

Perché è un lavoro fisicamente pesante per una donna. Io ho avuto due figli e ho vissuto la mia maternità in cucina, ma perché ho avuto la fortuna di stare bene. Servono concentrazione mentale, bisogna essere veloci e risolvere i problemi che si creano rapidamente. Si sta in piedi 10 ore come minimo.

Ci tieni molto a non dire che ‘rivisiti’ i piatti tradizionali. Perché?

Ogni chef ha la sua linea aziendale, siamo tutti diversi e ciascuno deve fare bene quello che pensa sia giusto. Per me è importante che il mio ospite, quando mangia un piatto, lo riconosca visivamente, immagini già quale può essere il gusto, ma lo scopra più leggero da mangiare: per me così hai fatto tombola, perché non mi piace alzarmi da tavola appesantita. Per me se rivisiti rischi di perdere l’essenza del piatto, e quando lo scomponi troppo perdi il gusto originale. Se invece lo alleggerisci il più possibile, tutti riescono a mangiarlo, a capirlo e ad apprezzarlo.

Ti manca il tuo lavoro di prima?

No, non mi manca per niente. Venticinque anni fa era diverso fare la commercialista, adesso è molto più complicato. Il mio lavoro attuale è bello, la giornata mi passa velocemente: non ti rendi conto, ed è già arrivata sera. La cosa più bella è che ti permette di conoscere tantissime persone, non soltanto legate al tuo settore: persone di tutto il mondo.

E poi alla fine mi serve anche adesso, saper fare i conti: di amore e di aria non si vive. L’equilibrio di una azienda è anche economico, e far quadrare tutto ti serve per investire, per avere la possibilità di un ragazzo in più per migliorare il servizio, per esempio. Perché la gente quando viene da noi vuole serenità, e non ascoltare i nostri problemi.

Questo lavoro avrà anche qualche difetto…

Ti priva di qualsiasi spazio e tempo libero. Ti assorbe qualsiasi energia. E questo non è legato soltanto al momento del servizio: è un lavoro che ti porti anche in vacanza. Sei sempre alla ricerca di qualcosa: alla fine non è un lavoro, è la vita. Tante volte trascuri la vita personale: devi trovare amici che ti capiscono, se vuoi averne.

E lavorare con il proprio marito com’è?

Lui sta in sala e io in cucina: così funziona! E comunque l’ultima parola è la mia: ma solo perché ho in mano i coltelli! Litighiamo parecchio, però il confronto è la base dei rapporti: se non ci fosse discussione sarebbe una noia. In generale, nel mondo della ristorazione, abbiamo modi di vedere le cose dalla sala alla cucina sempre molto diversi. Dico sempre che bisognerebbe stare sei mesi di qui e sei mesi di là, per capire entrambi i punti di vista. Alla fine si scopre che abbiamo ragione entrambi.

Trovi che i clienti siano cambiati in questi venticinque anni di professione?
Oggi gli ospiti sono molto più acculturati e quando escono vogliono fare anche esperienza, non solo mangiare. Vogliono essere coccolati nella tempo che passano al ristorante. La mia clientela non viene solo a mangiare, ma a trascorrere due ore piacevoli. Come target e come età abbiamo la fortuna di avere clienti giovani e anziani, riusciamo a prendere tutte le fasce. Ma sono in generale tutti più attenti di prima, chiedono la provenienza dei prodotti, vogliono sapere che cosa mangiano e vogliono essere seguiti nel percorso.

È merito o colpa della televisione?

Da una parte, soprattutto all’inizio, la cucina in tv ha fatto molto bene: io in cucina ho molto più richieste per venire a lavorare, cosa che prima non succedeva. Ma l’esasperazione che c’è adesso è veramente eccessiva. Per fare show si eccede, e le persone non capiscono più che non è così semplice servire un piatto o gestire un ristorante.

Quanta Emilia c’è nel tuo menu?

Nel mio caso il territorio è un tutt’uno con la mia cucina, perché prediligo usare quasi solo prodotti di qui. Vorrei che chi viene a mangiare da me abbia questo ricordo, che nei miei piatti risenta il territorio. Ogni tanto inserisco dei piatti estranei alla zona, ma principalmente sto qui.

Quello che voglio trasmettere quando un cliente decide di scegliere me è proprio l’espressione gastronomica di questa zona, resa contemporanea.

Al 90% lavoro con clienti del posto: diventa più difficile sorprenderli con ricette della tradizione e prodotti del territorio, ma per me quella è la soddisfazione principale.
Quando si stupiscono per la nostra degustazione di Parmigiano Reggiano, dal tosone al 101 mesi di stagionatura, oppure quando rimangono stupefatti dal flan di Parmigiano che nel periodo autunnale servo con i porcini Borgotaro freschi spadellati, che è cotto al momento e quindi soffice e dal gusto intenso nella sua semplicità, io sono contenta.

E i dolci? Hai abbandonato il tuo primo amore?

No! I dolci li faccio ancora io, e sono una bella parte del menu: abbiamo in carta 15 dolci. Sono semplici però sempre legati al territorio. E se un cliente è particolarmente goloso, c’è un piatto che li comprende tutti: tanti assaggi per chiudere in dolcezza. La torta di mandorle che si fa nella nostra zona, il monte bianco con gelato di castagne che facciamo noi, la torta di ricotta e zucca con cioccolato extra fondente, la classica zuppa inglese. Ma ce n’è uno davvero insolito, anche se ricorda un famoso proverbio: una tartare di pere decana, gelato al Parmigiano Reggiano e mosto cotto. L’ho proposto tre anni fa al Franciacorta festival in abbinamento ad un rosé e non l’ho mai più tolto dalle proposte!

tutte le foto © Francesca Tilio / Scaglie / LUZ

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