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TERRITORIO

Educare per combattere

di Marcello Pastonesi, 27 Gennaio 2022
Tempo di lettura: 19 minuti
Educare per combattere

Emanuela Evangelista è biologa e attivista ambientale. I suoi studi l’hanno portata, da Roma in Brasile, Amazzonia. Lì si è innamorata. Del posto. Delle persone. Di una in particolare, Francisco, un nativo del luogo, che oggi è suo marito. E da lì non è mai più andata via. Da oltre vent’anni, da un piccolo villaggio di palafitte, una comunità di 30 famiglie in tutto, lavora e lotta per la conservazione dell’ambiente. Anche grazie al suo aiuto, oggi, la zona è diventata un’area protetta, un luogo dove con lavoro e educazione si combatte il degrado della foresta pluviale.

Emanuela, come sei arrivata a Xixuaú?

Studiavo biologia e stavo preparando una tesi di laurea sui leoni. Oltre a studiare però ero impegnata con il volontariato. Facevo parte di Fondo per la Terra Onlus, una ONG che è stata una fucina di idee negli anni ’90. Abbiamo trovato dei fondi per finanziare la costruzione di una scuola qui in Amazzonia, e così siamo partiti.

Non sapevo molto di questi luoghi. Non ero preparata, non mi aspettavo che questo posto fosse così bello, e ne sono rimasta affascinata. L’ambiente è vivo, fatto più di acqua che di vegetazione. Un labirinto di fiumi e canali che si inoltrano nella foresta. 

Per poterci entrare bisogna usare la canoa. Viaggiando in questa maniera, con calma, silenziosamente, ci si riesce a immergere completamente in questo luogo, e solo così lo si può apprezzare davvero. Solo così si possono vedere e ascoltare gli animali. Le scimmie urlatrici, i caimani… gli uccelli, il canto dell’ara, del tucano…

Amore a prima vista.

Sì, e subito la decisione di farne l’oggetto della mia tesi. Uno degli animali che vivono in questo posto è la lontra gigante. Se ne sapeva poco al tempo. Esisteva un solo studio, fatto da una biologa di Parigi. È una specie a rischio estinzione, sfruttata per farne pellicce. In Europa non la conosciamo. È una lontra, simile alle nostre, ma come suggerisce il nome è molto grande, arriva a due metri di lunghezza. Incontrarla è bellissimo. Vive in piccoli gruppi di dieci o dodici esemplari. Così sono tornata qui, per svolgere la ricerca, e l’ho portata a termine. Nello studiare questo animale però, mi si è rivelato, e ho capito, il suo ambiente, i suoi abitanti. Quanto è prezioso questo ecosistema, come funziona e cosa non funziona.

Spiegami.

Gli abitanti di qui sono cacciatori e raccoglitori. Cacciatori veri, con una conoscenza millenaria dell’ambiente. Sono loro che mi hanno aiutato nello studio della lontra. Conoscono questi posti e le loro risorse naturali come nessun altro. Quindi saprebbero anche proteggerlo, meglio di chiunque. 

Se avessero le condizioni per farlo lo farebbero, ma non le hanno. Quali sono queste condizioni? Mi chiederai. Il primo problema è la povertà. La mancanza di reddito. Sono cacciatori, e da sempre prelevano dalla foresta. Fino a ieri, fino al nostro arrivo, questo avveniva in maniera equilibrata e sostenibile. Oggi invece sono nati il bracconaggio, che ha messo in pericolo la mia lontra e molte altre specie, l’estrazione di oro e altre attività che contribuiscono al degrado progressivo della foresta amazzonica. Fai attenzione a questo termine. Degrado. Un impoverimento progressivo. Questo è un problema differente dalla deforestazione. La distruzione della foresta è un problema che va risolto e per cui bisogna combattere, senza dubbio. Qui però è diverso. Qui siamo dentro una enorme zona interna, lontana dalle aree deforestate. Nessuno qui aveva mai sentito parlare di deforestazione prima che io portassi delle immagini che ho girato da un aereo durante una missione di Greenpeace a cui ho partecipato. Qui il problema è che la popolazione locale, se non potrà sostenersi in altra maniera, continuerà a depredare la foresta, perché non ha alternative. A prelevarne le risorse per poter sopravvivere. In questo modo la foresta amazzonica non muore di colpo come nel caso della deforestazione, ma si indebolisce gradualmente. L’alternativa, la soluzione a questo problema è aiutare la popolazione di queste aree a crearsi un lavoro, alternativo, e aiutarli a sviluppare una coscienza ambientale.

© Barry Cawston

Quale lavoro, secondo te, potrebbero fare qui?

Con Amazônia Onlus, la ONG che ho fondato nel 2004 insieme ad altri attivisti, abbiamo puntato sul turismo.

Non lo gestiamo noi e ne siamo completamente fuori. Li abbiamo solo aiutati a farlo partire. È nata una cooperativa sociale e adesso centinaia di turisti ogni anno vengono a passare qui qualche settimana. Sicuramente è un viaggio interessante per chi viene qui. Un viaggio che si può personalizzare scegliendo cosa vedere e cosa fare. Una vacanza bellissima, indimenticabile, in cui si impara molto. L’ecoturismo ha un grande valore per la comunità locale, non solo per il turista. La nascita del turismo ha avuto un effetto profondo sulla società, perché ha dato vita a un’economia. Spiegato in due parole: se gestisco un’attività legata al turismo, non avrò tempo di coltivare o di costruirmi la canoa, e pagherò qualcuno per farlo al posto mio. Così da un lato nasce un nuovo lavoro, ma non solo, subito al suo fianco nascono nuove opportunità anche per chi non lavora direttamente con il turismo. Nasce un indotto. Lavoro, nato qui, senza depredare le risorse ma sfruttandole in maniera costruttiva e benefica. Sfruttando la bellezza del posto. Da lì, a impegnarsi per mantenerla questa bellezza, il passo è breve. Non gestiamo noi il turismo, lo fanno loro e i ricavi restano a loro. Noi però li sosteniamo, e li aiutiamo a risolvere dei problemi. Quello degli intermediari per esempio. La figura del regatiere, i commercianti che arrivano in barca dalla città carichi di beni di prima necessità, che vendono, o spesso barattano, con prodotti locali, imponendo prezzi bassissimi, privando i nativi del profitto del loro lavoro, e rifilandogli di fatto della merce a quattro volte il prezzo di mercato.

Oltre al lavoro poi, serve un’educazione ambientale.

Tu immagina di non aver mai conosciuto la plastica, e di aver sempre vissuto di frutta, verdura e carne proveniente da raccolta e caccia. Tutto materiale organico. Niente imballaggi. I rifiuti, la buccia di banana, per i nativi è normale buttarli nell’ambiente. La natura segue il suo corso e li rimette in circolo. Ed è un bene che sia così. Quando però invece del frutto, il nativo si trova nelle mani una caramella, una bottiglia o una lattina, farà lo stesso. Mangerà la caramella e butterà la carta nella natura. Solo che ora, inconsapevolmente, sta facendo un danno.

Che impatto ha avuto il progresso su questa gente? 

Da un lato il consumismo, arrivato così di colpo, tutto insieme, ha creato dipendenza, come se fosse una droga. Lo stesso effetto dell’alcol. Non ne avevano mai avuto prima, non faceva parte della loro cultura, vergine, e ne sono rimasti travolti. Dall’altro ha avuto degli effetti molto positivi. Internet per esempio. Qui prima dell’arrivo del telefono cellulare, dello smartphone in particolare, che ha portato la connessione alla rete, comunicare era difficilissimo. Se un membro della famiglia partiva, per studiare in città, a Manaus, oppure per lavorare, era normale non averne notizie per mesi o anni anche. Oggi no. 

Inoltre internet ha dato la possibilità di conoscere, informarsi in maniera pressoché gratuita. Conoscere e farsi conoscere. Dal 2000 a oggi, grazie a internet i nativi hanno portato avanti migliaia di petizioni ed hanno potuto far valere alcuni loro diritti fondamentali. 

Ottenere risultati.

Questa zona, che per darti un’idea, è grande quanto la Corsica, e ospita mille e quattrocento persone in trenta comunità come quella in cui vivo io, oggi è un’area protetta.  Questo ha dato la possibilità ai nativi di proteggere la loro unica vera risorsa possibile per il futuro, e hanno potuto iniziare a sfruttarla in maniera sostenibile. Grazie a internet è nato un circolo virtuoso, la vera possibilità di salvezza, di arrestare il graduale degrado che inizialmente abbiamo innescato con la nostra domanda di beni provenienti da qui. Come la pelliccia della lontra gigante, per esempio. Internet poi, whatsapp soprattutto, è stato fondamentale per contrastare il diffondersi del Coronavirus. La vera informazione sulla pandemia si è diffusa con whatsapp, più che in ogni altra maniera. E probabilmente questo li ha salvati. Conta che da qui si riesce ad arrivare al primo ospedale in 17 ore di barca. Se hai accesso a una barca.

© Eve Vitrugno

Raccontami di Amazônia Onlus.

Amazônia Onlus è una ONG, nata nel 2004 come incontro di competenze differenti. Scienza e arte in particolare. Tra i soci fondatori oltre a me ci sono fotografi (Luca Locatelli, bravissimo e pluripremiato), Gianluca Di Pasquale, ingegnere ambientale. Persone che possono aiutare concretamente e persone in grado di comunicare e far conoscere queste zone ancora intatte, che hanno bisogno di aiuto per rimanere tali. I nostri obiettivi sono: proteggere la foresta tropicale, garantire agli abitanti locali la salute, la dignità culturale, l’educazione, la formazione e uno sviluppo sostenibile, in modo da combattere l’emigrazione verso i centri urbani. Da quando siamo nati abbiamo contribuito a costruire scuole, pozzi artesiani, orti comunitari e un ambulatorio. Abbiamo installato, grazie ai nostri donatori, pannelli solari e filtri per purificare l’acqua. E poi corsi di formazione in agricoltura e infermieristica.

Come vedi il futuro di questa zona?

Le nuove generazioni, quando possono, lasciano il villaggio e vanno a studiare. Non sono molti. Solitamente le famiglie possono permettersi di pagare le scuole solo al primogenito.  Chi va via perde il grande bagaglio di conoscenze e tradizioni. Ma vanno in città ad acquisire nuove competenze, che poi, in alcuni casi riportano qui. Noi lavoriamo per aiutarli a crescere in una maniera che conservi e non distrugga tutto il loro patrimonio culturale e naturale. Aiutandoli fisicamente, qui, con le nostre competenze, e raccontando la loro storia.

L’ultima cosa che mi racconta Emanuela, è la storia del Boto vermelho, un delfino rosa, considerato, in quei luoghi, un animale sacro. La leggenda dice che il Boto si possa trasformare in un uomo, sempre giovane e bellissimo, che arriva nei villaggi della foresta durante la notte. Unico indizio per riconoscerlo è il cappello, che porta sempre per nascondere lo sfiatatoio. Nella notte il Boto seduce le ragazze, e nove mesi dopo nascono i suoi figli.  Si dice anche che sia il guardiano di un mondo ultraterreno, sottomarino. Una sorta di Atlantide, in cui talvolta porta un uomo, ma da cui nessuno ha mai fatto ritorno. Cacciare il Boto, non solo è proibito, ma porta sfortuna. Un mito, una storia che si tramanda da secoli, forse nato per proteggere i bambini nati fuori dal matrimonio. Certo.  Leggenda o verità che sia, però, il tramandarsi di questa storia, di fatto, ha protetto il delfino rosa e lo ha salvato dall’estinzione.

Il potere delle storie. 

Ecco perché è importante che Emanuela e i soci di Amazônia Onlus continuino a raccontare dello Xixuaú, della lontra gigante e del Parco dello Jauaperi. Perché così possono aiutarli a sopravvivere. A crescere, in maniera alternativa, preservando la loro identità, mettendo la conoscenza della foresta tropicale a servizio di attività sostenibili, che rafforzano la foresta da dentro, valorizzandola, rendendola una risorsa ancora più preziosa. E in grado di resistere.

Fotografie courtesy of Emanuela Evangelista (Barry Cawston, Emiliano Mancuso, Erik Falk, Eve Vitrugno)
Foto di copertina di © Luca Locatelli

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