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ITALIANI NEL MONDO

I love italian food

di Anna Prandoni, 11 Dicembre 2020
Tempo di lettura: 16 minuti
I love italian food

I love italian food non nasce da un modello di business ma dalla passione di un gruppo di persone che hanno sentito l’esigenza di raccontare e spiegare la cultura della nostra cucina agli stranieri. Il fondatore e ideatore è Alessandro Schiatti, animo da manager e cuore tricolore, visione globale e radici iper locali. Da Reggio Emilia ha portato in giro per il mondo le aziende e i prodotti del nostro Paese, creando sinergie e facendo sistema, promuovendo storie e costruendo una rete – reale e digitale – solida e determinata di ambasciatori del gusto italiano. La sua visione è pragmatica, concreta, efficiente, condita da un entusiasmo contagioso che gli permette di essere un veicolo di connessioni durature. Imprenditorialità seria, sorriso aperto: l’export perfetto, in salsa emiliana. 

Come nasce I love italian food? 

Ho sempre gestito eventi e progetti di comunicazione nel mondo. Nel tempo ho parlato tanto con gli stranieri e mi sono reso conto di quanto c’era bisogno di spiegare e raccontare il nostro cibo. La vera molla che mi ha fatto scattare l’idea è stata scoprire che l’export italiano pesava solo un terzo dei prodotti venduti nel mondo, creati all’estero ma percepiti come italiani. 

Su circa 35 miliardi di merce ce ne sono 100 miliardi che sono venduti come italiani ma italiani non sono. Com’è possibile che l’Italia sia al quarto posto per le esportazioni dopo Germania, Olanda e Francia? 

Continuavo a interrogarmi sul perché gli stranieri non conoscessero abbastanza i nostri prodotti. Ho unito questa mia visione, la necessità di spiegare la cultura e il cibo italiani, all’incontro con una pagina Facebook che aveva già tantissimi utenti che la seguivano e stava raccontando l’Italia all’estero. 

Da un lato la mia presa di coscienza di un problema sistemico di un Paese incapace di raccontarsi, dall’altro 350 mila stranieri appassionati dell’Italia riuniti su Facebook: è scattata subito la scintilla. 

Era il 2012: abbiamo costituito un’associazione culturale con l’obiettivo di promuovere la cultura enogastronomica italiana nel mondo, abbiamo iniziato a mettere a sistema il network di persone coinvolte sul social, abbiamo dato un’identità chiara alla pagina, abbiamo mappato il network internazionale cercando di mettere insieme i bisogni delle aziende italiane e le necessità di chi usava quotidianamente i prodotti italiani. 

Io avevo sempre la mia agenzia internazionale di eventi e dal 2014 abbiamo iniziato, in concomitanza alle fiere di settore più importanti come Cibus, Fancy Food e Syra, a creare dei momenti di networking fuori fiera, facendo incontrare le aziende con un potente network sul territorio attivato attraverso Facebook. Abbiamo fatto sistema in modo contemporaneo e innovativo, e ci ha premiati.  

Ma la vera domanda da porsi è perché l’Italia esporta meno degli altri? 

Qui da noi abbiamo solo microaziende: il 95% delle realtà italiane ha meno di 50 dipendenti, la maggior parte meno di 30. Inoltre non abbiamo una catena distributiva internazionale: Coop arriva in Slovenia, non certo in Cina come Carrefour, per esempio. La nostra incapacità di fare sistema è uno dei problemi più gravi: siamo il Paese delle lotte di campanile, che anche quando andiamo all’estero ci fanno sprecare energie. È importante da un lato capire il problema, dall’altro intuire che il social network stava diventando un modo per costruire questo sistema.

Dopo questa presa di coscienza come vi siete evoluti? 

Abbiamo costituito una Srl che ha affiancato l’associazione culturale, abbiamo iniziato a costruire progetti narrativi e formativi. Perché al momento abbiamo due priorità: insegnare e raccontare.

Stiamo organizzando da un paio d’anni un sistema di Academy, con l’ambizione di arrivare a 100 classi offerte nel 2021 per i professionisti che lavorano all’estero con prodotti italiani. I nostri docenti devono raccontare i nostri prodotti tipici, le tecniche della cucina italiana, e devo insegnare  come gestire i nostri prodotti su quei mercati specifici.

A Tokyo ci sono più ristoranti italiani che a Milano, ma la maggior parte non sono gestiti da italiani. I giapponesi che li gestiscono come fanno a proporre autentica cucina italiana? O sono venuti qui a studiare o hanno avuto un mentore là, ma in ogni caso hanno bisogno di grande formazione. Insegnare a conoscere i prodotti tipici meno celebri e le tecniche di cucina con formatori italiani che vivono nel Paese che vogliamo conquistare è fondamentale. L’ambizione di I love italian food è quella di rendere il più possibile appetibile per un palato giapponese le nostre specialità, ma anche insegnare come inserire il prodotto italiano in una ricetta giapponese. Dare sempre più suggerimenti d’uso per ampliare l’uso e la conoscenza dei prodotti italiani. 

E poi c’è l’incapacità di toccare le corde giuste della comunicazione…

Dobbiamo imparare a raccontarci. Un altro pilastro di I love italian food è la narrazione: abbiamo prodotto migliaia di contenuti originali, abbiamo iniziato a fare format più strutturati. E siamo arrivati quest’anno ad avere un progetto di racconto strutturato, con 50 videoricette nella prima edizione in inglese, che stiamo traducendo anche in spagnolo e in giapponese.  

Siamo andati a cercare l’origine autentica delle ricette più classiche, dalle lasagne al pesto ai tortelli di zucca, per spiegare come si fanno in modo semplice e per dare all’utente la possibilità di conoscere davvero l’autentico made in Italy. E poi naturalmente cerchiamo di spiegare, quando ne abbiamo l’occasione, i prodotti italiani sui social network e sulle testate giornalistiche internazionali. 

Lo facciamo anche attraverso dei talk nazionali e internazionali con imprenditori e aziende: degli appuntamenti per cercare dei punti di vista che possano aiutare l’export con il punto di vista di chi l’ha già sperimentato.

Quali prodotti funzionano internazionalmente? 

Tre anni fa facemmo un contest per capire quali fossero i prodotti italiani più amati. Avevamo fornito noi una lista di 50 prodotti, abbiamo ricevuto più di 30 mila risposte da tutto in mondo. Il Parmigiano Reggiano fu il più votato. Uno si aspetterebbe pizza e pasta, ma purtroppo queste ricette non sempre sono percepite come italiane. Noi che abbiamo a che fare con tanti americani abbiamo capito che non tutto quello che è italiano è davvero conosciuto come nostro, all’estero. 

In generale, comunque, il mondo pasta fresca e secca e i formaggi sono sicuramente i prodotti più amati, insieme a qualche dolce, il tiramisù che è sul podio sempre e comunque e i cannoli. Sono l’italianità. Mentre per esempio su espresso e cappuccino si entra in un terreno un po’ minato. 

Se è vero che il progetto di Starbucks è nato in Italia, almeno come pensiero, è altrettanto vero che quel tipo di caffetteria ha sdoganato una serie di prodotti lontani dalla nostra tradizione.

Come si tutela la cucina italiana? 

Quello che noi vogliamo fare è trasferire la cultura del prodotto: abbiamo una biodiversità clamorosa e un saper fare clamoroso. Non esiste “la cucina italiana” ma esistono le cucine italiane regionali, e una quantità di prodotti tipici pazzesca. Quello che mi fa arrabbiare è arrivare all’estero e vedere su una confezione di provolone la scritta “3% milk”: non dobbiamo permettere che qualcuno si appropri di un nome vendendo un formaggio che è un’altra cosa da quello originale. 

Se compri gli spaghetti e li vuoi mangiare con le polpette va bene, ma compra spaghetti italiani. Se fai una carbonara e la chiami così, falla bene. Questo è tutelare la cucina italiana. 

Come vedi il futuro del made in Italy? 

Io lo vedo molto bene. L’Italia aveva dei mali atavici, e l’arrivo di questa pandemia che cambierà il mondo ha accelerato dei processi e ha rotto degli status quo. 

Un esempio su tutti, la spinta decisa sul digitale. Noi abbiamo sempre fatto masterclass e tasting, ma prima era una fatica improba mettere insieme tante persone che venivano da posti diversi in un’aula di un luogo singolo. Oggi prendiamo 50 ristoratori sparsi in tutto il Giappone, gli mandiamo i prodotti, interagiamo con loro, abbiamo i loro contatti, e possiamo addirittura farli cucinare, ognuno nelle sue cucine, mentre gli raccontiamo belle storie sull’Italia. Non riuscirei mai a farlo nello stesso modo andando in Giappone. 

Prima della pandemia nessuno avrebbe accettato: c’erano gli strumenti ma non c’era l’abitudine. 

Quando ricominceremo ad abbracciarci avremo delle abitudini differenti, viaggeremo meno di prima, ma saremo più efficaci. 

Qual è la peculiarità vincente per il nostro Paese? 

Se l’Italia ha indubbiamente degli svantaggi competitivi ha un vantaggio enorme rispetto alla maggior parte degli altri paesi.

Abbiamo un esercito di guerrieri che non vedono l’ora di essere attivati per rappresentare la nostra tradizione fuori dal Paese: chef, ristoratori, pizzaioli che vivono all’estero sono ansiosi di avere qualcuno che li coinvolga. I love italian food ha una rete di contatti enorme, di persone che ci accolgono e sono felici di partecipare alla promozione del loro Paese fuori dai confini.  

È la nostra forza: decine di migliaia di persone da mettere a sistema per promuovere il made in Italy in maniera strutturata. Oggi con il digitale, anche a distanza, si può fare. È questo il valore competitivo che dobbiamo mettere a sistema. Il mondo è pieno di italiani: se gli dai una causa pulita sulla quale mettersi in gioco hai gli ambasciatori migliori possibili. 

Foto © Francesca Tilio /Scaglie / LUZ

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