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EDITORIALE

Reggio Emilia Approach: dal progetto sociale al metodo

di Valentina Ecca, 16 Febbraio 2021
Tempo di lettura: 17 minuti
Reggio Emilia Approach: dal progetto  sociale al metodo

C’era una volta la città di Reggio Emilia dove l’educazione dei bambini era un punto focale per l’intera comunità, ed erano proprio tutti – madri, padri, educatrici e educatori – a occuparsene, un secolo prima del Reggio Emilia Approach.

Da questo grande progetto sociale, iniziato nella seconda metà dell’800, nacque l’intuizione del pedagogista Loris Malaguzzi, il quale disse: “Ogni bambino è soggetto di diritti. Ogni bambino, individualmente e nella relazione con il gruppo, è costruttore di esperienze a cui è capace di attribuire senso e significato”.

Da qui nacque – alla fine degli anni ’60 – il Reggio Emilia Approach, oggi diventato uno delle filosofie educative più apprezzate e riconosciute al mondo. 

Il Reggio Emilia Approach è approccio educativo che libera il bambino da una scolarizzazione basata su metodologie standard e si modella a seconda del soggetto esaltandone il talento, le capacità e le varie forme d’intelligenza. 

Abbiamo incontrato la dottoressa Claudia Giudici presidentessa del Reggio Children, per farci raccontare il Reggio Emilia Approach, il contesto in cui è nato e come sta formando i cittadini del futuro. 

© courtesy of Reggio Children

Lei come si è avvicinata o come è entrata in contatto con il Reggio Emilia Approach?

Io sono una bambina che ha frequentato i nidi e le scuole per l’infanzia di Reggio Emilia, ho frequentato il primo nido comunale che aprì nel 1971. All’università ho poi studiato psicologia clinica, ma nella scelta della mia tesi di laurea sono tornata al mondo dell’educazione e da lì ho seguito progetti di ricerca e di formazione. Sono stata, infine, conquistata dalla pedagogia e ho iniziato a partecipare ai progetti di ricerca del Reggio Children di cui sono presidentessa dal 2016.

In che maniera la città di Reggio Emilia, secondo lei, ha influenzato lo sviluppo di questo metodo educativo. Sarebbe potuto nascere in un altro territorio?

Io ritengo che l’esperienza educativa di Reggio, conosciuto nel mondo come Reggio Emilia Approach, vede nel contesto territoriale in cui è nato delle radici molto profonde e identitarie. La caratteristica di base, di coniugare una grande capacità di visione con una grandissima concretezza è fortemente reggiana. Le grandi visioni ma anche la voglia di realizzarle concretamente, la tenacia, l’artigianalità sono peculiarità identificative sia nell’approccio educativo che nella comunità di Reggio Emilia.

Per spiegare l’unione fra teoria e prassi, Loris Malaguzzi usava una metafora molto “reggiana”, diceva che era come andare in bicicletta, un pedale è la pratica e l’altro è la teoria, se non li muovi insieme la bici non va avanti. 

Poi c’è l’aspetto della comunità, fondamentale per voi emiliani

Sì esatto, la dimensione della collettività è fondamentale: il Reggio Emilia Approach nasce dalla città ed è sentito da tutta la comunità, si tratta di una esperienza corale. Sicuramente alcune figure come quella di Loris Malaguzzi – che ha avuto una grande intuizione – fanno sì che sia nato qui, ma non ci sarebbe stato questo approccio se non ci fosse stato l’appoggio della collettività. Le scuole del Reggio Emilia Approach sono scuole della città. 

Parliamo dei cento linguaggi, mi racconta che significato ha questa teoria e, curiosità, perché proprio cento?

Cento è il numero che tende all’infinito ma è anche facilmente nominabile dai bambini, per i quali dire “cento” è come visualizzare qualcosa di enorme. È molto narrabile e facile da pronunciare. La teoria dei cento linguaggi nasce dall’idea che l’apprendimento non avvenga solo attraverso il linguaggio verbale, ma per costruire la conoscenza e i processi di apprendimento sono importanti anche altri linguaggi: quello pittorico, quello classico, quello musicale, quello poetico o del corpo, ecc.. e sono tutti ugualmente importanti.

Questo vuole dire che la conoscenza che viene consentita ai bambini è più ricca, più articolata e più umana perché corrisponde meglio a quello che è naturalmente il modo di apprendere dell’essere umano. Le strutture scolastiche riconfigurano questa modalità ma il modo che hanno i bambini di conoscere è naturalmente plurale, polisensoriale, non separano le discipline ma tengono tutto strettamente in connessione. 

Per noi è molto importante offrire ai bambini accessi plurimi al modo di conoscere, e consentire loro di esprimere quello che stanno scoprendo attraverso diversi media e sistemi simbolici. Il cento è il manifesto, per noi, del modo di conoscere dei bambini, che spesso vengono privati della pluralità. 

Non privandoli di queste sfaccettature la creatività esplode e si libera in tutti. Per noi la creatività è una caratteristica del pensiero che appartiene a tutti i bambini, è responsabilità della scuola consentire a questa qualità di esprimersi, di allenarsi, di crescere e di evolvere.

© courtesy of Reggio Children

Un bambino che si forma con il Reggio Emilia Approach che tipo di risorse sviluppa per affrontare il futuro e per essere in grado di affrontare anche situazione come quella attuale?

Noi cerchiamo di allenare i bambini a avere fiducia nelle proprie competenze e nelle proprie risorse educative e affettive.

Il fatto che si riconosca che tutti i bambini sono intelligenti – come diceva il professor Malaguzzi – significa riconoscere che le intelligenze possono essere diverse e che tutti sono potenzialmente competenti. È responsabilità della scuola consentire a ogni bambino di esprimere queste competenze, in modi diversi. L’altro aspetto da sottolineare, in un periodo come quello attuale, dove l’identità di ognuno di noi è stata messa a dura prova, è che il Reggio Emilia Approach cerca di dare ai bambini degli strumenti per avere fiducia in loro stessi e in chi li circonda. Noi crediamo molto nel lavoro di gruppo, nella collaborazione, in una dimensione in cui si è sempre soggetti in relazione ad altri soggetti. 

La conoscenza nasce da una circolarità di saperi, da uno scambio, dal confronto e dal dialogo: si tratta di competenze preziose per vivere nei contesti sociali e per affrontare momenti complessi. Costruire nei bambini le competenze per ricercare le proprie soluzioni, e non dar loro risposte “corrette” ma lavorare sul processo di strategia, perché trovare delle soluzioni significa alimentare curiosità e capacità di evolversi. I famosi cento linguaggi sono un patrimonio prezioso per poter esplorare ciò che circonda il bambino e le sue relazione. 

Quando a Malaguzzi veniva chiesto cosa ci fosse di diverso nei bambini del Reggio Emilia Approach, lui diceva che l’obiettivo principale del metodo era costruire dei buoni cittadini. Questa cosa fu ripresa dal professor Howard Gardner di Harvard – teorico delle intelligenze multiple – che analizzò come alla base della coesione della comunità di Reggio Emilia ci fosse proprio l’educazione offerta dai nidi e dalle sue scuole per l’infanzia del territorio.

La cura degli ambienti e degli spazi è uno dei valori del Reggio Emilia Approach. Questa estate, ma ancora oggi, viviamo l’inadeguatezza delle scuole italiane nell’ospitare in sicurezza gli studenti. In che modo ciò che circonda bambini e ragazzi influenza il loro benessere scolastico?

Il professor Malaguzzi ha considerato da sempre l’ambiente educativo parte della relazione educativa, così come l’insegnante. Tant’è che è nata la metafora del terzo educatore. Siccome l’ambiente è parte della relazione educativa va curato come curiamo la formazione degli insegnanti e come curiamo le proposte didattiche. Ecco perché prestiamo molta attenzione alla progettazione degli spazi, degli arredi e alla ricerca dei materiali che utilizziamo.

E quando l’ambiente non c’è? Quando i bambini e gli studenti sono relegati alla DAD?

Ecco questo apre il dibattito sulle case che hanno potuto e dovuto abitare i nostri figli. Quello che è accaduto ha evidenziato un aspetto importante: gli ambienti delle scuole che siano servizi educativi per l’infanzia, scuole primarie, ecc… sono luoghi di comunità, consentono le relazioni sociali, la collegialità e le relazioni familiari. Quando ci siamo trovati nella condizione di non poterle frequentare – e quindi di non avere un luogo dove vivere quelle relazioni – è venuta a galla la consapevolezza di quanto quegli spazi fossero necessari ma inadeguati. 

Abbiamo capito quanto è importante la cura degli ambienti e la loro bellezza: le scuole in Italia sono brutte, così come quasi tutti i luoghi pubblici, perché si vive nella concezione che la cosa pubblica è di tutti e di nessuno, quindi nessuno si prende la responsabilità di curarla. Invece bisognerebbe assumere la consapevolezza che nei luoghi di lavoro e nelle scuole si passa la maggior parte del proprio tempo, quindi paradossalmente dovrebbero essere quasi più curati e accoglienti di casa propria. 

Questo ci porta a capire che l’ambiente non è un semplice contenitore neutro rispetto alle nostre relazioni di vita, ma è vita stessa. I colori delle pareti, le sedute previste, i materiali da usare sono importanti ed è necessario studiarli con attenzione perché generano benessere nei bambini e negli adulti che devono viverci. 

Voi come avete gestito la riapertura?

Quando i bambini sono tornati avevamo molti vincoli per i protocolli sanitari da seguire. Abbiamo deciso, però, di studiare con i bambini un modo per non violare le regole. 

Si sono interfacciati con gli insegnanti, gli atelieristi e insieme, hanno elaborato una vita scolastica nuova, adatta ai tempi che stiamo vivendo. 

Questo dovrebbe essere l’approccio con cui vivere i luoghi pubblici e le scuole perché è un diritto dei bambini e dei ragazzi frequentarli, forse se avessimo assunto questa consapevolezza – al netto del problema dei trasporti e degli spostamenti – e avessimo reso gli studenti partecipi, le scuole potevano riaprire prima. 

I protocolli sanitari vanno rispettati ma vanno anche adattati: nel rispetto dei diritti dei bambini, degli insegnanti e dei genitori di avere un’educazione adeguata. Per esempio se i bambini devono utilizzare dei materiali, ma ho il problema della sanificazione, non eliminerò tutto perché è più facile, ma troverò delle risorse diverse. 

I bambini hanno il diritto di continuare a vivere un’esperienza educativa adeguata.

Foto © Francesca Tilio / Scaglie / LUZ

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