SOSTENIBILITÀ E AMBIENTE
Legambiente e l’ecologia umana
Tempo di lettura: 22 minuti
Le sfide sono ancora tante: “decarbonizzare tutti i settori e agire insieme a livello globale e locale, senza dimenticare le gravi ferite ambientali che ci portiamo dietro da anni: inquinamento dell’aria, che in Italia uccide più di 60.000 persone all’anno, depurazione delle acque e gestione dei rifiuti e dei veleni industriali”.
Chi abita in questo lembo di Italia ripete spesso che “il profumo del Parmigiano Reggiano si respira anche in mezzo ai campi”.
Perché questo territorio, 10.000 chilometri quadrati a sud del Po in un’area che abbraccia 5 province, è così legato al suo formaggio tipico, da viverlo in maniera totale, quasi simbiotica: uno influenza l’altro, e viceversa.
Un territorio ricco di tradizioni e cultura storica, ma che vive ora una fase di innovazione e nuovi esperimenti per scoprire soluzioni più sostenibili e così far fronte alla febbre del pianeta.
“Il cambiamento climatico è influenzato anche dalla produzione di cibo, in particolare dagli allevamenti intensivi – spiega Stefano Ciafani, presidente di Legambiente, che si trova in visita nello stabilimento dell’azienda agricola Bertinelli proprio per discutere di queste tematiche.
“La filiera produttiva di carne e latticini genera metano e anidride carbonica: questi sono i gas che scatenano l’effetto serra e quindi il surriscaldamento globale. Un aspetto sempre più marcato a livello globale, ma che in questa zona si sta provando a contrastare con buone pratiche che trasformano un problema in opportunità per migliorare”.
Ciafani si presta alcuni minuti per degli scatti fotografici nella sala di stagionatura dei formaggi. E per scoprire una delle innovazioni di cui parla basta leggere i cartelli lungo gli scaffali. Troviamo il Parmigiano Reggiano halal e quello kosher, adatti a musulmani ed ebrei.
Ciafani, romano (“Romano di Trastevere”, ci tiene a precisare), classe 1971, è presidente di Legambiente dal 2018, ma la sua storia nella grande associazione ambientalista italiana è ben più lunga, e attraversa più di due decenni. Per Legambiente è stato anche direttore scientifico, vicepresidente e direttore generale.
La sua prima tessera è del 1998, quando nella sede romana di Legambiente ha iniziato, da obiettore di coscienza, il servizio civile. Che mondo era 23 anni fa?
Un mondo molto diverso. In quegli anni arrivavano le prime grandi svolte a livello ambientale e climatico. Nel 1997, infatti, i Paesi industrializzati avevano raggiunto il primo accordo sul clima, con il protocollo di Kyoto, facendo entrare il tema del cambiamento nel patrimonio collettivo. Ma allo stesso tempo si stava costituendo un nuovo equilibrio geopolitico e industriale: non c’era più la divisione in blocchi della Guerra Fredda e si formavano nuove potenze internazionali: la Cina, l’India, il Sud Africa, i paesi arabi.
In questo contesto, poi c’era lei, giovanissimo. Come è arrivato a Legambiente?
Nel 1998 ero uno studente di ingegneria ambientale, e conoscevo già l’associazione: guardavo in tv Ermete Realacci, l’allora presidente, che era spesso ospite del Maurizio Costanzo Show, e leggevo le inchieste del giornalista Antonio Cianciullo. Quel tipo di ambientalismo scientifico mi appassionava e mi sembrava molto concreto: perché andava in cerca di soluzioni e proposte, pragmatiche e ragionate. Si parlava di ambiente, ma anche già di clima: nel 1990 l’associazione avviò una campagna dal nome “Fermiamo la febbre del pianeta” che raccolse 600.000 firme. Mi presentai nella sede di Via Salaria convintissimo e in grande anticipo, tanto che fui il primo volontario sulla lista del 1998. Iniziai il 10 gennaio.
Oggi è facile immaginare un giovane che sceglie di dedicare il suo tempo a una causa ambientale, ma all’epoca deve essere stato diverso, no?
Eravamo di meno, forse è vero, ma tutti pieni di passione. Io sentivo la voglia di contribuire, di servire la patria con le armi del buon senso. Da quel 10 gennaio da Legambiente non sono mai uscito, né ho mai voluto. All’epoca Legambiente, nata nell’estate 1980, non era ancora maggiorenne, e anch’io ero giovanissimo: ho iniziato facendo fotocopie e rispondendo al centralino. Si può dire che siamo cresciuti insieme.
Ora le brutte notizie, però. Vent’anni fa la concentrazione di anidride carbonica nell’aria, l’indicatore più immediato della gravità del cambiamento climatico, era a 369 parti per milione. Oggi è a 420, dato mai raggiunto nella storia dell’umanità, che potrebbe portare la temperatura media globale a crescere di 2, 3, 4 o addirittura 5 gradi centigradi. Viene da chiedersi: cosa è successo? Perché non è stato fatto nulla?
In poche parole: la popolazione umana è cresciuta tantissimo, e quelle nuove potenze che si andavano ad affermare a fine anni ’90 ora sono l’enorme motore e fabbrica del mondo.
La Cina è diventata il Paese che emette più gas serra del mondo, contribuendo al 27% circa del totale e superando persino gli Stati Uniti. Molti paesi occidentali hanno ridotto la loro impronta in questi anni, ma non abbastanza per contrastare il consumo di fonti fossili degli altri. Si sono sovrapposte così responsabilità storiche, perché ci sono Stati che inquinano da due secoli, e responsabilità attuali. Decarbonizzare industrie, trasporti, costruzioni è la missione che adesso tutti abbiamo per raffreddare il pianeta prima che sia troppo tardi.
C’è qualche speranza? O almeno qualche buona notizia?
Più di una. Quando ero giovane io si parlava molto del buco nell’ozono, un problema che abbiamo risolto grazie alla messa al bando globale dei gas che lo producevano, i CFC. Il protocollo di Montreal, ratificato nel 1987, è stato uno dei più importanti trattati internazionali e ha gettato le basi per altri accordi. Anche l’Accordo di Parigi del 2015 è il simbolo della volontà di mettere freno all’emergenza climatica. Questo accordo ha riacceso l’interesse e la passione in milioni di persone. Speriamo di vedere un impegno ancora maggiore quest’anno, quando si terrà la Cop26 (ovvero la riunione dell’organo decisionale delle Nazioni Unite sul tema del climate change) a Glasgow, che potrebbe essere ancora più importante della conferenza di Parigi di sei anni fa.
In mezzo ci sono stati Greta Thunberg, la cui fama è esplosa tra 2017 e 2018, e con lei i movimenti dei Fridays for future: i giovani sono la chiave per vincere la sfida?
La mobilitazione globale che c’è stata per il clima è senza precedenti.
È pari ai movimenti del Sessantotto, pari alle grandi proteste contro le guerre o il perbenismo. La battaglia climatica ora è sulla bocca di tutti: ci sono voluti trent’anni, perché gli scienziati già ne parlavano negli anni ’80, e le associazioni ambientaliste negli anni ’90. Ora dobbiamo capire che la leva del cambiamento c’è, esiste, è già tra noi, dobbiamo solo azionarla. È una leva politico-sociale ma anche tecnologica. La protesta dei giovani ora deve raggiungere questa maturità: arrabbiarsi sì, ma anche dire che ce la possiamo fare. Li chiamiamo “nativi digitali”, ma potremmo chiamarli anche “nativi rinnovabili”: i giovani meritano un mondo dove l’energia rinnovabile, il solare, l’eolico, il biogas sono dati per scontati.
Come fare però ad azionare quella leva del cambiamento di cui parla?
Servono politiche globali e comuni.
Globali perché la crisi climatica e quella concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera di cui parlavamo non ha confini. E comuni perché bisogna andare tutti nella stessa direzione, con coerenza e fiducia reciproca. Il Covid in questo ci ha indicato la via: solo impegnandoci e mettendo in comune forze e risorse si può veramente debellare il virus.
A volte però a guardare il globo si perdono di vista i problemi vicino a casa. Il cambiamento climatico è già arrivato anche da noi, in Italia?
Fino a qualche anno fa si raccontava degli effetti del cambiamento climatico sugli atolli negli oceani, prime vittime dell’innalzamento dei mari. Poi sono arrivate le immagini degli orsi emaciati sospesi su iceberg di ghiaccio in scioglimento. Pensavamo che l’emergenza climatica riguardasse solo posti lontani, di frontiera. Ma l’Italia è al centro del Mediterraneo, che è uno dei punti più soggetti al surriscaldamento globale. Già ora vediamo come pochi gradi facciano la differenza: alluvioni più frequenti e violente, ondate di calore, i ghiacciai alpini e il ghiacciaio del Gran Sasso – il più a sud d’Europa – che scompaiono restituendo paesaggi ed ecosistemi completamente diversi. Bisogna monitorare tutte queste situazioni, e raccontarle, solo così possiamo trasmettere il senso di urgenza.
Non pensa che questo crescente interesse per il clima abbia fatto distogliere lo sguardo dalle questioni ambientali “classiche”?
È vero, la lotta alla crisi climatica è diventata “pop”, e questo a volte ha portato in secondo piano dei problemi cronici e gravi dei territori. In Italia ne abbiamo tanti: la gestione delle acque reflue, dei rifiuti e dei rifiuti speciali, dei materiali tossici e dei tanti veleni che il nostro territorio assorbe e a volte è costretto a restituirci. Sono ferite sanguinanti che non dobbiamo dimenticare. Il motto di Legambiente e dei suoi 115.000 soci e sostenitori su tutto il territorio è proprio “Pensa globalmente, agisci localmente”. Ma l’impegno deve essere collettivo: cittadini, aziende e politica. Purtroppo nel nuovo recovery plan del governo non c’è neanche una parola dedicata alle bonifiche industriali o al risanamento dei nostri problemi ambientali che si trascinano da decenni.
E poi c’è il tema dell’inquinamento atmosferico: delle dieci città con più smog d’Europa, quattro sono italiane, e tutte in Pianura padana. Non stiamo facendo abbastanza?
Purtroppo un terzo della popolazione vive in zone dove l’aria è malsana, respira quella che noi abbiamo chiamato già negli anni Novanta “mal-aria”. Secondo l’Agenzia ambientale europea il particolato sottile e gli altri agenti chimici inquinanti hanno causato nel 2018 in Italia 65.000 morti, un dato minore dell’anno precedente, ma comunque enorme. Quello che bisogna capire è che agire il prima possibile significa salvare vite umane, già oggi, non in un remoto futuro. Per ciò c’è bisogno di una politica strabica.
Politica strabica? Sembra un’espressione con un’accezione negativa. Cosa intende?
Strabica in senso positivo: siamo abituati a politiche che non osservano, che non guardano nella giusta direzione. Quello che intendo io è uno sguardo capace di puntare sia in prossimità, al presente e a ciò che è vicino, sia in lontananza, verso un orizzonte lungimirante.
Non possiamo continuare a credere che niente si possa fare “nel nostro giardino di casa” o durante “il nostro mandato elettorale”, due modi di dire spesso usati e riassunti con l’acronimo Nimby (“not in my backyard”) e Nimto (“not in my terms of office”). Ci vuole più coraggio.
La natura è capace di “aggiustarsi” da sola, o è troppo tardi?
La natura può rigenerarsi, ma bisogna darle lo spazio e il tempo necessario. Ora come ora la stiamo mettendo troppo sotto pressione, ma è nostro compito riparare ai nostri errori. Ecco perché all’ecologia aggiungo un’altra parola: umana. Per ecologia umana intendo una missione condivisa da tutti che punti a uno sviluppo sostenibile. Per la natura e per l’umanità tutta. Senza chiedere il passaporto a nessuno, senza pregiudizi: un esercito pacifico che risolve i problemi seguendo scienza ma anche passione.
Proviamo a chiudere il cerchio, allora. Oggi arriva, da questo esercito pacifico, una ragazza o un ragazzo che vuole entrare in Legambiente. Inizia facendo le fotocopie, magari, ma fra vent’anni diventa presidentessa o presidente. Che Italia augura alla sua o al suo erede?
L’Italia sarà un paese più bello. Si respirerà aria diversa, migliore, perché le città abbracceranno la mobilità sostenibile, con auto elettriche, bici, monopattini e mezzi pubblici. L’industria della chimica e dei metalli non avrà più bisogno del carbone e il nostro paesaggio e la nostra atmosfera non saranno più feriti. Sarà un paesaggio rinnovabile: con pale eoliche, pannelli solari, cupole a biometano. L’Italia non sarà solo più bella e pulita, ma anche più vivibile: non un museo chiuso in una teca, ma un territorio pieno di idee e genialità. Mi auguro per i futuri presidenti che non serva più un rapporto annuale sui veleni industriali, sulle eco-mafie, sull’abusivismo edilizio, né uno sui tanti e troppi sussidi dello Stato alle fonti fossili.
E guardando ancora un po’ più in là nel futuro, 50 anni magari, cosa vede?
Il mio sogno più grande è che non ci sia proprio più bisogno di battersi per il clima e per l’ambiente: si chiuderebbe un cerchio per Legambiente, e magari, lasciatemi scherzarci su, potrebbe addirittura non esserci bisogno di futuri presidenti e di un’associazione ambientalista.
Potremmo dire: missione compiuta.