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EDITORIALE

Gioco di squadra

di © Marco Pastonesi, 22 Marzo 2022
Gioco di squadra

È da 41 anni che fa squadra. Capitani, gregari, scalatori, passisti, velocisti e meccanici, massaggiatori, direttori sportivi. Ciclismo. E quello di maggio sarà il suo quarantesimo Giro d’Italia. Bruno Reverberi, 79 anni, è lo Zio. Pane al pane, ruota a ruota. Da Reggio Emilia (Bibbiano, per amor di precisione anagrafica) con passione. E mille storie da raccontare, compresa la sua. A cominciare dalla prima corsa, vissuta da corridore: “Nel 1957. La Reggio Emilia-Casina, a cronometro, da non tesserato. Primo Vittorio Adorni, ventisettesimo io. Fra Adorni e me, più vicino ad Adorni che a me, Romano Prodi. La verità è che, già partito, mi accorsi che mi si era staccato il cinturino e caduto l’orologio, allora girai la bici, tornai alla partenza, raccolsi l’orologio, me lo riallacciai al polso e ripartii. Altrimenti non avrei battuto Adorni, ma forse Prodi sì”.

La prima squadra dello Zio è stata quella della famiglia: “C’era una miseria da tagliare con il coltello. Ero il sesto di otto figli, cinque sorelle e tre fratelli. Papà operaio, poi bracciante. Io quinta elementare: superato l’esame di ammissione alla prima media, d’estate andai a fare il garzone di meccanico, ‘me lo lasci qui ché impara bene’ disse il meccanico a mio padre, rimasi lì a lavorare ma piangevo perché avrei voluto continuare ad andare a scuola. Quando cominciai a fare il direttore sportivo, avevo corridori più giovani di me”.

Le squadre di Reverberi hanno sempre corso “alla garibaldina”: “Se vuoi sorprendere quelle più forti, devi muoverti in anticipo, con coraggio, forse con follia, tutti i giorni, tutti all’attacco”. E la squadra si allestisce sempre alla stessa maniera: «I corridori bisogna trovarli quando nessuno li cerca, bisogna prenderli quando nessuno li vuole. Da dilettanti. Solo che i dilettanti sono come i primi fidanzati: sembra che tutto vada sempre a meraviglia. Invece i professionisti sono come gli sposi: quando sono in casa, è tutta un’altra storia»

Se la squadra di Reverberi appartiene alla categoria Professional, la serie B del grande ciclismo internazionale, ma è autorizzata a disputare le gare del WorldTour, la serie A, la squadra di Davide Diacci appartiene alla serie C, ma ha una filosofia e uno spirito universali. Castelnovo Monti, provincia di Reggio Emilia. Basket.

Lui, un Europeo vinto in azzurro con i cadetti e uno scudetto conquistato con la Virtus Bologna, qui è il coach. E sul campo mette tutta la sua storia: “Rinunciai al professionismo, abbracciai la strada. Dodici anni ‘on the road’. Il basket mi aveva insegnato che bisogna saper dare anche se la palla non sarai tu a riceverla. Dare senza voler nulla in cambio. In Sudamerica, davanti alla miseria provavo un senso di colpa terribile, un peso allo stomaco. Mi sentivo un privilegiato, uno che non faceva abbastanza per gli altri. E quando aiutavo qualcuno, mi sembrava di farlo per me stesso, per appagare il mio ego. Ho visto uomini morire davanti ai miei occhi, o vivere come animali, senza niente, nemmeno uno straccio di opportunità. Con il tempo ho capito che non è necessario viaggiare, le risposte sono dentro di noi, in una piccola stanza con un libro in mano e la capacità di sognare si può essere dovunque. L’uomo dentro di sé porta l’infinito. Il basket è una spietata e bellissima metafora dell’esistenza: uno gioca come vive. La sfida con se stessi per superare i propri limiti è l’aspetto più affascinante, il risultato è solo una conseguenza, il bello è che lo affronti con i compagni. La squadra”.

Lo sport di squadra, per la sua stessa natura, e per eccellenza, è il rugby. Lo sanno anche a Imola, terra di confine fra Emilia (geograficamente) e Romagna (culturalmente). In una rotonda in via San Benedetto, adiacente agli impianti sportivi, c’è la scultura di un rugbista, in acciaio cor-ten, mentre passa l’ovale, un gesto infinito (un rugbista non muore mai – recita un antico adagio nel mondo del rugby – al massimo passa la palla). Alessandro Magnani è il presidente della società, la prima squadra in serie B: “Il Covid ha colpito tutto lo sport, ma il rugby ci ha insegnato a tenere duro. Lo facciamo a partire dai più piccoli, minirugby e giovanili. Lo facciamo organizzando il doposcuola (pasti, compiti e rugby), i campi estivi (da metà giugno a metà settembre), e le scuole (promozione e collaborazione). Lo facciamo indirizzando la nostra attività sull’educazione: supervisore è Ilenia Bombardi, pedagogista, e la nostra scelta è stata subito sostenuta dal Comitato regionale. Lo facciamo puntando sul ‘team building’, la costruzione dello spirito di squadra, a cominciare dalla prima squadra diretta dal gallese Sam Morton: per esempio, una domenica di riposo dal campionato, ma non dalla vita, con zappe e picconi a ripristinare un’antica strada sterrata che collega la Romagna con la Toscana. E lo faremo con tutte le nostre forze, dentro e fuori dal campo, aperti, anzi, spalancati a donne, disabili, carcerati. Un’immensa squadra”.

Ma se c’è uno sport di squadra, di squadre, di cui l’Emilia sia da sempre terra e patria, è la pallavolo.

A Modena è anche religione. “Modena Volley – è l’atto di fede statutario – non è solo una società sportiva. Noi siamo una squadra di pallavolo. Uno sport diverso da quelli su cui sono quotidianamente accesi i riflettori abbaglianti della celebrazione individuale. Uno sport dove la squadra è molto più importante del singolo. Uno sport dove nessuno può schiacciare se non c’è uno che alza. Nessuno può alzare se non c’è uno che riceve. Uno sport dove nessuno può fermare la palla. Insieme, noi siamo una squadra. Un team in cui giocano alcuni dei migliori giocatori al mondo. Insieme. Nello stesso quadrato 9×9 dove tutti dobbiamo imparare a muoverci in sincrono. Il quadrato dove insieme vinciamo o perdiamo”.

Quadrati e anelli, rettangoli e pedane. Società e scuderie, quindici e quintetti. Campi e strade, spogliatoi e box. Time out e pit stop, pronti-via e bandiere a scacchi. Adrenalina e acido lattico. Tensione e libidine. Qui si è sempre fatto squadra.

© Francesco Poroli

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