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TERRITORIO

L’amore per la natura come antidoto alla paura

di Andrea Aufieri, 26 Novembre 2021
Tempo di lettura: 17 minuti
L’amore per la natura come antidoto alla paura

“Quando ero sull’isola di Budelli, raccoglievo sempre i mozziconi in un secchio, per non lasciarli sulla spiaggia”.

E la spiaggia è quella di Budelli, piccola meraviglia nel cuore dell’arcipelago sardo della Maddalena.

“Ai turisti chiedevo sempre: e voi cosa fate ogni giorno per l’ambiente? Solo qualcuno mi rispondeva: io raccolgo la plastica. Ecco questa è una buona idea, una piccola cosa. Quindi alzavo il tiro e chiedevo: raccogli anche la plastica che lasciano in giro gli altri?”.

Oltre alla raccolta delle sigarette e della plastica, l’isola di Budelli aveva bisogno di una protezione speciale, perché era l’unica spiaggia del mar Mediterraneo ad avere un colore rosa naturale. 

“E quasi nessuno che dicesse di raccogliere anche i rifiuti altrui”.

Era rosa la spiaggia. Ora non lo è più. Perché vent’anni di accesso libero alla baia di Cala del Roto hanno cancellato un lavoro della natura durato diecimila anni. Qualcuno portava via la sabbia inconsapevolmente, infilata nei costumi, nei vestiti, nelle ciabatte.

“Io tento di spingere i più volenterosi, i più attenti, i più altruisti ad aver cura, a rispettare la bellezza. Dei luoghi. Della natura. Degli animali. Delle persone”.

Alcuni turisti portavano con loro dei barattoli e quando arrivavano nella baia prendevano tutta la sabbia che potevano.

“Me le immagino queste persone, nel chiuso delle loro case, con il loro tristissimo vasetto di vetro. E la sabbia rosa intrappolata. Quella sabbia senza il mare di Budelli, il sole di Budelli al mattino, i colori del tramonto… Senza il vento di tramontana”.

Anche il vento è cambiato: “Negli ultimi cinque, sei anni, non c’è più il vento del nord, che porta qui i piccoli detriti. C’è un persistente vento umido da sud, acido, che corrode il calcare, lo porta via”.

La Spiaggia Rosa di Budelli resta un posto speciale, sempre unico nel Mediterraneo. Per trentadue anni la bellezza dell’isola di Budelli è stata custodita da un solo uomo, che l’ha abitata e protetta. Quell’uomo si chiama Mauro Morandi e la sua vita è un paradigma del rapporto ideale tra noi e la natura.

“Quando ha saputo, qualcuno è tornato a restituire un po’ della sabbia che aveva portato via. E così anche quel qualcuno ha compreso il senso della bellezza che cerco di trasmettere a tutti”.

Conosco Mauro per telefono, e gli chiedo di raccontare la sua esperienza straordinaria. Partendo proprio da quella bellezza, che per lui ha un senso profondo e concreto: “La sabbia dell’isola di Budelli è composta dal carbonato di calcio ricavato dalla polvere di vegetazione marina simile al corallo, di gusci di piccoli molluschi, di conchiglie e del granito di cui è fatta tutta l’isola”. Anche ora che il colore è meno visibile, resta un posto che può davvero illuminare i sogni più belli di chiunque l’abbia visitata.

Il tempo di Mauro sull’isola, però, è finito: “Ora vivo alla Maddalena. A marzo mi hanno chiesto di andare via perché dovevano fare dei lavori per riportare la casa dove vivevo alla forma originaria. È una costruzione militare degli anni Quaranta, tutta in granito. Le pareti sono spesse 70 centimetri. Sembra destinata all’accoglienza per le associazioni che gestiranno l’area naturale. Ma anche in quel caso avranno bisogno di un custode, altrimenti succede come sulle isole dell’arcipelago rimaste senza guardiani. Arrivano e portano via tutto quello che si può portare”.

In questi mesi Mauro ha lottato perché non voleva lasciare quella che dal 1989 è stata la sua casa, ma dopo la lotta è arrivata la scelta: “Anzitutto ci sono ritornato per portare via le mie ultime cose, e non ho provato granché. A 82 anni ho preso il coraggio a due mani e deciso di restare a vivere qui alla Maddalena. Anche perché il 2020 per me è stato durissimo. La pandemia non ha permesso alle persone e anche agli amici di portarmi la spesa con frequenza. Mi sono nutrito di cibo in scatola. Il maltempo ha impedito ai pannelli solari di funzionare a sufficienza, perciò non avevo abbastanza acqua calda ed elettricità”. 

Per poco più di vent’anni, fino al 1994, la battigia di Cala di Roto, nell’area a sud-est dell’isola, è stata aperta ai turisti, poi è stato istituito il parco naturale con la relativa chiusura ai bagnanti. Allora Mauro era lì da cinque anni e lavorava per la compagnia svizzera che gestiva l’isola. Quando la legge sul divieto di costruzione nelle aree protette è diventata esecutiva, l’azienda è fallita.

Mauro racconta il modo rocambolesco con il quale è cominciata la sua seconda vita: “Vivevo a Modena, dove sono nato, e insegnavo educazione fisica. A cinquant’anni volevo trovare un altro modo di vivere, basato solo sulla natura e quello che mi poteva dare, e non sul capitalismo occidentale. Con cinque amici coltivavo il sogno di andare in Polinesia, perciò nel 1989 affittammo un catamarano ormeggiato a Gallipoli. Da lì pensammo di fermarci in Sardegna, per lavorare nel settore turistico il tanto che ci sarebbe bastato per ripianare i debiti e proseguire il viaggio”.

Perché la Polinesia? Nel 1989 avreste trovato comunque un sistema capitalistico ad aspettarvi. “Era un sogno da bambini. Io leggevo moltissimo, e in tutti i libri sui pirati e sui viaggi, si menziona la vita in queste isole deserte come un obiettivo da raggiungere a qualsiasi costo”.

La grande romanziera che è la vita, però, mise Mauro di fronte a un bivio: “Quando arrivai a Budelli per visitarla, incrociai il vecchio custode che mi disse che dopo due giorni sarebbe andato via, perché la quotidianità era molto faticosa, e che la moglie non ne poteva più della solitudine e del freddo d’inverno, del caos e del caldo estivi. Così mi informai sul suo lavoro e sul compenso mensile, che era di un milione e mezzo di lire. Parlammo con il responsabile della compagnia nell’arcipelago, e due giorni dopo cominciò la mia nuova vita”.

E qualcuno in Polinesia c’è arrivato, quella volta? “No. All’inizio tutti e cinque provammo a lavorare come custodi, dividendo la paga, ma era davvero impossibile. Tre dei miei amici tornarono indietro, dove li aspettava il loro lavoro da sommozzatori. Restai con la mia compagna e un amico. L’anno seguente, però, il mio amico ebbe un ictus e poco tempo dopo morì. La mia compagna tornò sulla terraferma e mi venne a trovare sempre più di rado, in estate, perché poi si è ammalata e tre anni fa è morta anche lei”.

Il giorno in cui sono andati via tutti è cominciata davvero l’esperienza di colui che avrebbero definito “l’eremita di Budelli”. Com’era la sua routine? “D’estate molto caotica. Bisognava fare attenzione che i bagnanti non entrassero nell’area proibita. Ma un conto è farlo con la forza e un altro con la dolcezza”.

E l’inverno? “Facevo affidamento sui pannelli solari per l’energia elettrica, al solare termico per l’acqua calda, raccoglievo qualche ramo secco per il fuoco. Perché non si devono strappare i rami, né recidere i fiori dell’isola, altrimenti si perde la connessione con l’armonia che la governa. All’inizio usavo un piccolo frigo a gas, e anche un fornello. E raccoglievo la scarsissima terra che si trova qua e là tra la roccia. Sono riuscito solo a coltivare qualche pianta aromatica e…dieci ciliegini”. Come ha imparato a curare la natura? “Da mio padre. Che era anche lui un custode, ma di scuola elementare, e che possedeva un po’ di terra che mi ha insegnato a coltivare”. 

Ha abbandonato ogni comodità, ha abbracciato la solitudine d’inverno e un’attitudine serafica al dialogo d’estate.

Che cosa gli ha lasciato questa dedizione all’essenzialità? “Mi ha fatto capire quante cose non ci servono, e di quante nevrosi viviamo, quante cose inutili inseguiamo. Io indosso ancora i maglioni che avevo prima di venire qui, quando con la mia compagna gestivamo un negozio di cose che adesso chiamiamo vintage, ma all’epoca erano conosciute come Stracci America. E anche in questo caso si vede come i maglioni di una volta erano fatti per durare, non come oggi, che si butta via tutto ogni tre mesi perché le cose si rovinano quasi da sole”.

Negli ultimi anni, Mauro è stato attivissimo sul web. Ha i principali canali social e molte delle foto che si trovano su Google Maps sono sue. Gli chiedo come abbia imparato a destreggiarsi: “Non sapevo fare nulla. Qualche anno fa ho parlato con una famiglia qui in vacanza. Mi hanno detto di chiedere all’esperta, cioè la figlia di 7 anni. Lei aveva un tablet. All’inizio si muoveva veloce. Le ho chiesto di rallentare e di parlarmi come se fossi un bambino inesperto, non come lei. E lei è stata bravissima”.

Se l’inizio della sua avventura è stato raccontato nel libro “La poltrona di ginepro”, edito da Rizzoli nel 2019, l’elaborazione finale della sua esperienza sarà contenuta in un libro in uscita entro la primavera del 2022. Mi racconta con entusiasmo di una produzione cinematografica americana sulla sua storia. Come ha vissuto l’attenzione mediatica sulla sua vita? “Credo che i più curiosi vogliano conoscere i dettagli perché hanno paura di fare da soli quello che ho vissuto io, ma non devono avere paura”. 

Qual è la sfida che attende il signor Mauro Morandi, pensionato che vive alla Maddalena?

“Il compromesso con la società per ottenere un minimo di comodità che mi permettano di vivere serenamente i miei anni. E poi l’impegno costante per trasmettere il mio messaggio”.

Qual è il suo messaggio più importante? “Che facendo scelte come la mia, la paura scompare. Di cosa avere paura? Animali feroci sull’isola non ce ne sono, e comunque gli animali rispondono ad alcuni istinti. Gli unici di cui aver paura sono gli uomini, che però possono essere educati all’amore. E all’amore si arriva per mezzo dell’osservazione della bellezza, che è ovunque e in ciascuno di noi”.

Foto © Alessio Cabras / Scaglie / LUZ

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