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Le forme della biodiversità

di Andrea Aufieri , 29 Novembre 2022
Tempo di lettura: 11 minuti
Le forme della biodiversità

Quando addentiamo un pezzo di Parmigiano Reggiano «siamo travolti da un sapore che amiamo e che vogliamo ritrovare di continuo». E proprio quel sapore è «il risultato di una grande storia, ma non solo».

«Mastichiamo con soddisfazione un pezzo incredibile di biodiversità: c’è il campo, da cui proviene il foraggio in cui hanno vissuto centinaia di specie di piante e di animali; godiamo del latte di antiche razze, come la bianca modenese, la frisona, la bruna e la vacca rossa reggiana, che è sul territorio da oltre mille anni, ma che avrebbe rischiato l’estinzione. E ci stiamo facendo del bene perché consumiamo un alimento probiotico per natura».

Parole e riflessioni di David Bianco, apprezzato esperto di biodiversità e conservazione della natura, responsabile dell’Area Ambiente per l’Ente di gestione per i Parchi e la Biodiversità dell’Emilia Orientale, che ha espresso spesso il suo entusiasmo nei confronti del Parmigiano Reggiano, come prodotto e come filiera rispettosa del territorio e degli animali.

Con David Bianco abbiamo affrontato un viaggio intenso nel tempo, nella geografia, nei campi, nelle stalle, nel latte e infine nella forma del Parmigiano Reggiano.

Il Parmigiano Reggiano nella storia e nella geografia dell’Emilia-Romagna

 «Il Parmigiano Reggiano si produce esclusivamente in un territorio che presenta condizioni ritenute peculiari: le province di Parma, Reggio Emilia, Modena, la sponda sinistra del fiume Reno nel Bolognese e la sponda destra del Po nel Mantovano», spiega Bianco, «in parte perché quest’area ha delle caratteristiche ecologiche e agricole speciali. E poi perché ci sono delle ragioni storiche e politiche».

Partiamo proprio dalla storia. Che cosa è successo tra Parma, Reggio Emilia e dintorni?
Oggi noi ci muoviamo con facilità e rapidamente da una città all’altra, viviamo in un mondo globalizzato. Un tempo non era così: ci si muoveva lentamente, le barriere geografiche e i limiti politici tra amministrazioni diverse condizionavano gli scambi e i passaggi in ogni territorio. 

L’economia agricola era il risultato di processi locali in cui le caratteristiche ambientali erano intimamente connesse a dinamiche produttive e commerciali.

Nel caso di questo straordinario formaggio, pare che sia stata molto importante la sapiente mano dei monaci, che hanno fatto fare passi da gigante all’agricoltura del territorio. I Benedettini, per esempio, hanno bonificato i terreni, hanno messo a punto modi di coltivare, di realizzare e tenere le stalle, di fare i vari formaggi e anche il parmigiano, la cui prima caratteristica è dunque quella di essere intimamente radicato al suo territorio di origine. 

Un altro elemento che mi piace ricordare è la presenza di una speciale razza bovina, la vacca rossa reggiana, che pare sia stata portata in Emilia durante le invasioni barbariche. In quell’epoca i bovini erano utilizzati per il lavoro e il latte era un prodotto in più. Ogni microregione aveva le sue razze adatte al contesto; molto nota è anche la vacca modenese, dal mantello bianco, particolarmente adatta alla produzione di latte da Parmigiano Reggiano e da anni presidio Slow food.

Per arrivare ai nostri tempi, come si è evoluta la situazione che si delineava già dal Medioevo?
Con le tradizioni che si sono consolidate, arriviamo al secondo dopoguerra, in cui le aziende che producevano il Parmigiano Reggiano erano più piccole di oggi e ben riconoscibili dal fatto di avere più tipologie di produzioni. A seconda delle zone era evidente un paesaggio assai vario per la rotazione delle colture: piantagioni di erba medica che venivano rinnovate dopo qualche anno, prati da fieno che si alternavano a seminati e altri elementi come filari di viti sostenute su aceri campestri o altre piante arboree; filari di gelsi e siepi campestri. Il paesaggio agrario era molto vario e ricco di biodiversità.

Dalla storia alla natura. I cicli chiusi e la biodiversità nelle aziende del Parmigiano Reggiano

«Le aziende chiudevano tutti i cicli: tutto il cibo proveniva dalla zona dell’azienda e anche tutto lo scarto contribuiva a produrre il letame».

Qual è l’importanza del letame in questa storia?
Il letame occupa uno spazio significativo per l’agricoltura: è una specie di meraviglia della biodiversità, a cui dobbiamo la fertilità dei terreni. Vi si ritrova la paglia, un prezioso scarto ottenuto dai campi di grano che veniva usato come lettiera nelle stalle e che incorporava le deiezioni degli animali. Posto nel letamaio, cominciava il silenzioso lavoro di batteri, funghi e lombrichi, producendo nel tempo un ottimo concime.

In questo senso si parla di una realtà che ha compreso tutte le potenzialità e i benefici della natura.
Esatto, ci si ritrova in un paesaggio di aziende agricole che hanno dei campi per produrre foraggio e altri per produrre grano, barbabietole e prodotti che consentano l’alternanza e la prosperità dei terreni. 

Visto dall’alto, si presenta tutto come un grande patchwork, con inserti di colore diverso che attirano lo sguardo. Una bella campagna, non certo monotona.

Se poi inforchiamo gli occhiali del naturalista possiamo fare tante scoperte. «In un campo di erba medica o in un seminativo per l’alternanza dei pascoli ci sono tante specie vegetali e questo è più facile riconoscerlo. La flora ricca voluta dall’uomo si mescola con altre specie vegetali spontanee e attira tanti altri ‘attori’ misconosciuti che, a ben guardare, potrebbero sedere tranquillamente al tavolo dello staff del Parmigiano Reggiano».

L’agroecosistema perfetto del Parmigiano Reggiano

Di che tipologia di “attori”, in termini di biodiversità, stiamo parlando?
Abbiamo molte farfalle, che nella prima fase della vita sono state bruchi, il grillo, la cavalletta, il bombo e molti altri insetti impollinatori, che altrove sono in grande crisi, ma nelle aree dove si produce il Parmigiano Reggiano e si mantengono campi di fieno sono ancora abbondanti. Questi insetti sono a loro volta mangiati da altri animali, da uccelli come la rondine, che magari fa il nido nella stalla, o il pipistrello, il balestruccio, il falco grillaio. Se troviamo delle siepi, poi, è possibile vedere il riccio e il rospo. Un tripudio di biodiversità importantissima, quella vegetale, che costituirà il cibo della mucca, influendo profondamente sui sapori del latte. Come sanno benissimo gli esperti, non è indifferente alla vacca mangiare piante diverse, perché condiziona il latte e determina il sapore del formaggio.

Le terre del Consorzio del Parmigiano Reggiano possiedono un eccezionale equilibrio ecologico che dipende dall’agroecosistema in cui avviene per tradizione l’allevamento e la produzione.

Foto di © David Bianco

Questo significa che da una parte c’è attenzione alle coltivazioni volute dall’uomo e, dall’altra, c’è anche uno sviluppo spontaneo di piante e altri organismi: un mix che può dare risultati eccellenti. Se poi si applica questo concetto al pascolo di montagna, si ottiene un grande prodotto, con una straordinaria natura.

Il connubio tra il campo e la stalla

«Una cosa importantissima», spiega David Bianco, «è che una volta ogni podere aveva una stalla e magari anche dal numero di bovine si capiva quanto era grande o redditizio il terreno. Prima, venti vacche significavano tanto, ed era fondamentale anche un fienile per alimentare gli animali d’inverno. Nel paesaggio tradizionale del Parmigiano Reggiano esiste una notevole varietà anche dal punto di vista architettonico: basta osservare le stalle, le case coloniche e il contesto circostante, tutto funzionale a una economia agraria circolare».

E oggi, come sono le stalle?
Sicuramente più grandi, per poter accogliere oltre un centinaio di bovine. Anche se architettonicamente meno belle, c’è più attenzione a lasciare spazi per muoversi a questi animali, e spesso gli ambienti sono arricchiti di elementi per il loro benessere, come grandi spazzole.

E in queste grandi stalle, oltre alle vacche, abitano anche altri animali.
Sì, possiamo riferirci alla tradizionale presenza di rondini e balestrucci, che possono trovare ambienti adatti per i loro nidi a coppa, fatti con fango e paglia. Sono utili perché mangiano i mosconi, per esempio. La loro presenza è fondamentale come nei campi e rappresenta una specie di congiunzione con la natura esterna. Suggerisco di favorire la loro presenza: purtroppo non tutti apprezzano, per via della caduta delle deiezioni: basta posizionare gli appositi nidi artificiali negli spazi più opportuni, oppure porre sotto al nido delle tavolette di legno che raccolgano gli scarti dell’allevamento dei piccoli. Sarebbe una specie di riconoscimento per il loro indefesso lavoro.

Nella forma del Parmigiano Reggiano, “una forma felice di biodiversità”

«L’ultima fantastica biodiversità che dobbiamo conoscere sta nel latte che viene prodotto da bovine trattate con attenzione in un agroecosistema così equilibrato.
Il Parmigiano Reggiano è fatto con il latte crudo. La sua carica microbica naturale deriva direttamente dal latte fresco.

La carica microbica è l’ultima parte dello “staff” che dovremmo immaginare nella “stanza dei bottoni” del Parmigiano Reggiano. Questa flora microbica evolve continuamente e questo è decisivo per il sapore del prodotto finale. 

Nelle diverse fasi, le varie popolazioni microbiologiche che vivono nel formaggio in maturazione cambiano, sfruttano certe sostanze, poi quello che residua da queste trasformazioni sarà utile per altri gruppi che vengono dopo e così via, fino alla parte finale della stagionatura».

«In questo modo si esaltano i profumi e certe caratteristiche che si avranno solo nelle ultime fasi di quello che definirei un passaggio evolutivo verso la maturazione finale. Se si produce il Parmigiano Reggiano oggi, infatti, lo si potrà assaggiare freschissimo tra 12 o 20 mesi, ma sarà meglio aspettare il 2025-2026. Questo è il risultato di un processo biologico ed ecologico in cui la parte più complicata sta proprio nell’assicurare a questo straordinario impasto fatto da latte scaldato, caglio e batteri, quel mix felice che porta ad avere un prodotto molto buono e quindi la biodiversità del latte che assomiglia un po’ al nostro microbiota intestinale e che ci fa anche tanto bene».

Torniamo al concetto di ecosistema: una forma in maturazione di Parmigiano Reggiano è come un piccolo ecosistema: «se noi guardassimo al microscopio il suo interno e la sua superficie, vedremmo le popolazioni cambiare spesso il loro ambiente, perché il substrato su cui loro vivono si trasforma, per rendere il formaggio come a noi piace, con quel gusto inconfondibile».

«Quella del Parmigiano Reggiano è una storia che unisce tante altre storie e tanti altri mondi», conclude David Bianco, «che dimostra come è possibile realizzare un prodotto di qualità in cui gli ingredienti possono essere tasselli di un mosaico e possono essere presi solo in un piccolo territorio, in un mondo che ha la necessità di andare più piano e amare di più quello che ha intorno».

Foto di © Stefano Marzoli

Le forme della biodiversità

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