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Arte Sella – Incorporare la natura nella prassi artistica

Arte Sella è un luogo dove ogni forma di espressione della creatività umana si fonde con il contesto naturale e i suoi elementi, dando vita a un dialogo unico tra l’ingegno dell’uomo e il mondo naturale. Nato nel 1986 dalla volontà di un gruppo di amici di creare un luogo dove artista e natura potessero entrare in completo contatto fisico e spirituale, oggi Arte Sella è un polo di ricerca e sperimentazione attiva. Giacomo Bianchi, attuale presidente, racconta la storia e l’evoluzione del progetto, le sfide di ieri e quelle future per capire quale importanza assume non solo a livello artistico ma anche teorico nella ricerca di un nuovo dialogo tra uomo e natura.

Arte Sella è un progetto unico nel panorama artistico italiano e internazionale. Quali sono le sue origini e le caratteristiche che lo contraddistinguono rispetto a progetti di tipo più tradizionale?
Arte Sella nasce spontaneamente nel 1986, dalla volontà di un gruppo di abitanti della Val di Sella, una valle meno nota rispetto ad altre ma unica dal punto di vista naturalistico.

Dagli anni ’80, le poche attività presenti hanno iniziato un drastico declino tanto che la valle stava rischiando di cadere in rovina e di essere abbandonata; perciò nasce l’esigenza di creare un progetto in grado di portare qui un nuovo valore basandosi su presupposti diversi da quelli del passato.

Date le caratteristiche del posto, l’idea del gruppo è stata quella di trasformarlo in un luogo di incontro e condivisione per gli artisti provenienti dall’area del middle europea.

Arte Sella non nasce come un progetto a lungo termine, ma piuttosto come un’iniziativa intima, con lo scopo di far condividere agli artisti uno spazio confinato, il giardino di Villa Strobele, per un periodo di tempo limitato che andava dalle 2 alle 3 settimane: qui vivevano insieme e si scambiavano idee per produrre opere di arte effimera.

In pochi anni, partendo da questa idea del luogo come origine della creatività, Arte Sella ha iniziato a concentrarsi sul concetto di “Arte nella natura” come una modalità di lavoro e di creazione artistica in natura che prendeva spunto da movimenti già strutturati come la Land Art e l’Arte povera, con questa idea che l’artista deve, in primis, mettersi in ascolto del luogo. Anche il visitatore è chiamato ad immergersi completamente nella natura: ciò che contraddistingue Arte Sella è la modalità di esperienza del tutto unica. All’utente viene – indirettamente – richiesto di usare tutto il suo corpo e i 5 sensi, anche l’olfatto. E dato che le opere vivono in un contesto mutevole, sono a loro volta in cambiamento, quindi sappiamo che qui ogni esperienza è davvero unica.

Se questo progetto nasce per essere circoscritto nello spazio e nel tempo così come anche la produzione delle opere, quale è invece oggi la visione di Arte Sella?
L’evoluzione di Arte Sella è un percorso di 35 anni ed è evidente che i presupposti iniziali siano cambiati. Ci sono alcuni elementi fondativi che invece rimangono invariati, fanno ancora parte della nostra prassi e sono quelli che ci contraddistinguono. I due principi fondamentali sono:

  • la non ossessione per la permanenza delle opere: sia l’artista che ArteSella, ma anche i visitatori condividono questa idea che, un po’ come l’uomo è una presenza effimera nella natura perché ha una scadenza, così anche le opere d’arte seguono lo stesso ritmo. La traccia che lasciamo rappresenta una nuova modalità di interazione, è un organismo che muta, si evolve e cambia. Questa metafora fortissima, rappresenta lo stare dell’uomo in natura che è in continua trasformazione. Siamo molto concentrati sul concetto di cambiamento ed evoluzione tanto che il metodo di produzione delle opere è molto diverso dagli anni ’80 e la nostra mission si è evoluta: oggi questo è un luogo di ricerca che per un artista significa essere messo di fronte a nuove ipotesi di lavoro con la natura;
  • la genesi dell’arte: oggi come agli inizi, Arte Sella invita l’artista a pensare e creare nuove forme di relazione con il territorio. L’artista si perde in questo luogo, lo studia non solo dal punto di vista naturalistico ma anche antropologico e storico. Ecco perché l’opera è stratificata: nasce qui e qui rimane.

In questo percorso lungo 35 anni, l’uomo e la natura hanno subito significativi cambiamenti. Qual è stato quello più significativo che ha interessato Arte Sella dalle sue origini ad oggi?
Si è notevolmente evoluto il concetto di ecologia, è cambiata la coscienza collettiva su quanto l’Homo Sapiens sia in grado di plasmare la natura a suo uso e consumo fino al punto di poterla distruggere. Oggi anche la relazione tra artista e natura è enormemente cambiata ed è riscontrabile nella prassi sotto molteplici punti. Quello più evidente è l’uso dei materiali, che in principio erano solo naturali, raccolti nel giardino della villa e nei boschi, ed erano una chiara evidenza fisica del tema ecologico.

Agli inizi, c’era un desiderio di sintonia quasi atavico con l’elemento naturale, una volontà di ritorno alle origini. Oggi questa modalità di interazione risulta un po’ naïf e un po’ ingenua; la relazione uomo natura è di tutt’altra complessità e focalizzarsi solo un elemento per affrontare il tema ecologico non rappresenta adeguatamente questa complessità.

Ora, lavoriamo molto con artisti che incorporano la tecnologia nelle loro opere o il cui lavoro è frutto di una relazione con la scienza, perché con l’arte e i suoi strumenti possiamo davvero incidere a livello sia concettuale sia programmatico su questa devastazione antropocentrica che interessa la contemporaneità. Un ritorno alle origini è impossibile e anche ingiusto, nega l’evoluzione dell’uomo che, per quanto ambigua, è costellata di tanti atti creativi che sono espressione della sua intelligenza.

Arte Sella è un progetto di continua ricerca che indaga la contemporaneità, esplora la complessità del rapporto uomo-natura, non celebra la perfetta sintonia tra i due mondi ma piuttosto vuole immaginare le possibilità di un nuovo rapporto abbracciando più ambiti come quello scientifico e tecnologico.

Da anni invitiamo anche molti architetti di fama internazionale ad interrogarsi su questo tema, per avere da loro un input perché, proprio nell’architettura, questo rapporto assume forme molto complesse soprattutto in virtù del principio della non permanenza. Le costruzioni dell’uomo sono i prodotti che più impattano sulla natura e che, soprattutto negli ultimi anni, stanno inglobando sempre più elementi tecnologici. Quello che accade qui non vuole diventare una risposta seriale, ma, come la ricerca primaria per la scienza, fornisce degli input intellettuali che pian piano possono trovare espressione anche nell’architettura.

Come riescono a convivere arte e ambiente pur essendo regolati da leggi – umane e naturali – e tempi di vita diversi – immortale e mortale?
L’arte è libera deontologicamente ma questa definizione è ambigua soprattutto per una realtà come Arte Sella che è anche espositiva e dove le opere vengono fruite in modo ravvicinato dai visitatori. Da un lato la creatività ha bisogno di non essere imbrigliata da regole umane, dall’altro un contesto “museale” deve rispettare le norme per la sicurezza. Gli artisti collaborano con profili tecnici per trovare il giusto compromesso tra espressione artistica e sicurezza.

Il calcolo strutturale da parte degli ingegneri è un passaggio fondamentale, è una forma di dialettica tra artista e regole, tra creatività e quotidianità e rappresenta la società moderna in bilico tra la normalizzazione e la spontaneità. 

Arte Sella promuove una nuova concezione del tempo in cui cade la certezza e la volontà che l’opera duri per sempre; si vuole riportarla dall’immortalità alla mortalità, a quello che è il tempo della natura. Un esempio eclatante è la tempesta del Vaia, un evento meteorologico estremo che ha interessato queste zone nell’ottobre del 2018; in 5 ore sono stati spazzati via circa 8 milioni di alberi e anche il giardino di Arte Sella è stato completamente distrutto. Questo azzeramento totale avvenuto in un tempo incontrollabile, in una prima fase ci ha lasciato totalmente sconvolti ma poi abbiamo capito con più forza il concetto di tempo, tra mortale e immortale: avevamo il dovere di accogliere e incorporare questo processo trasformativo all’interno della nostra metodologia artistica. Adesso le opere durano in media dai 10 ai 15 anni che è già un altro tempo rispetto allo standard dell’arte, ma

per noi è importante tener sempre in conto che la natura è mutevole e l’opera deve abitare in un flusso.

L’opera di Arcangelo Sassolino chiamata Physis, interpreta benissimo il tema del tempo: consiste in un enorme blocco di granito di 40 tonnellate tagliato a metà, dotato di un meccanismo attivato da un pannello fotovoltaico che avvicina ed allontana le due parti in base all’energia del sole. Rappresenta il tempo della natura, questi due massi che racchiudono essi stessi le diverse ere geologiche e che si trasformano, avvicinandosi e allontanandosi, seguendo i tempi della natura che non sono fissi e regolari. È un invito per lo spettatore a mettersi in ascolto, ad attendere una nuova forma di tempo. L’opera si appropria di una quarta dimensione, che è quella temporale.

Alcune innovazioni tecnologiche hanno cambiato molto la società e le modalità di interazione che in alcuni casi arrivano anche alla smaterializzazione. Quali incideranno maggiormente sul futuro di Arte Sella e come?
È difficile capire quali eventi futuri avranno la forza di incidere sull’arte in modo significativo. Da parte nostra c’è piena fiducia nell’artista e nella sua capacità di vedere, prima di chiunque altro, gli aspetti che segneranno la società e quindi anche l’arte. 

Oggi si parla molto del tema del tema del digitale, della virtualità, del metaverso oppure anche di genetica che, pur essendo un tema molto meno mainstream, è interessantissimo anche per il mondo dell’arte. Non sappiamo con certezza quali fenomeni avranno maggior impatto e quali direzioni tracceranno ma siamo in un momento di grande cambiamento che lascia spazio a molte possibilità.

Pensiamo alla video arte: all’inizio nessuno aveva capito le potenzialità di questo strumento eppure grazie agli artisti ha generato esempi di portata eccezionale.

Le opere sono sempre proiettate verso il futuro perché se rimanessimo focalizzati sul presente difficilmente riusciamo a dare dei messaggi significativi per la società. Un esempio significativo è Liquid Landscape di Daan Roosegaarde, questo prato liquido dove le persone possono camminare: la percezione è affidata allo spettatore che fluttuando su questa superficie dialoga intimamente con la natura.

Nell’anno di fondazione, quale è stata la sfida più difficile che Arte Sella ha affrontato?
La sfida più dura è stata senza dubbio quella culturale: innestare questo progetto in un contesto molto tradizionale che non aveva mai conosciuto quel tipo di linguaggio è stato molto difficile perché la gente del luogo non riusciva a comprenderlo. Negli anni ‘80, Arte Sella era un progetto già molto particolare e farlo arrivare in questa valle è stato come arrivare con una nave aliena e stravolgere la quotidianità di questi luoghi. Il linguaggio dell’arte contemporanea che usava gli elementi presenti in natura, all’inizio ha generato molta diffidenza tra le persone ma allo stesso tempo anche tanta curiosità. Il risultato poi è stato straordinario: piano piano l’arte è riuscita a comunicare con gli abitanti del luogo ed oggi il progetto è molto apprezzato.

E quali sono le grandi sfide del presente?
Ci sono del sfide legate ad eventi naturalistici come ad esempio quelli atmosferici che sono sempre più anomali rispetto a quelli noti e hanno una portata a volte distruttiva come la tempesta del 2008; oppure nuove varietà di insetti che attaccano gli alberi fino a farli morire.  Questo tipo di fenomeni sono sempre più frequenti e spesso imprevedibili mentre ci sono altri su cui possiamo agire e abbiamo il dovere di farlo. Una grande sfida per noi è quella della mobilità: come riusciamo a far accedere i visitatori ad Arte Sella senza impattare troppo sulla natura? Noi abbiamo una grande responsabilità rispetto a questo tema e ci interroghiamo su come rendere l’accesso più ecologico e sostenibile senza dover arrivare ad adottare misure estreme.

Si parla sempre di più di Antropocene proprio per indicare come l’attività dell’uomo prevarichi la natura anziché conviverci in modo rispettoso. Come presidente di Arte Sella quale consiglio ci può dare?
Il consiglio più grande che posso dare è quello di incorporare nelle nostre vite la complessità della natura. Anche il termine Antropocene, a mio avviso, demarca una separazione tra i due mondi, quello umano e quello naturale, e l’uso di questi termini dualistici indica la considerazione della natura come altro da noi. Questo è l’aspetto più sbagliato. Dobbiamo abbattere questo dualismo, riunire i due mondi in modo che tornino ad essere una cosa sola e riconsiderare la capacità dell’uomo di generare non solo cose distruttive ma anche creative nel rispetto con la natura circostante.

© Foto Bartolomeo Rossi

La storia millenaria dei prati stabili

Nel corso dei secoli, il mondo dell’agricoltura si è modernizzato sempre di più, tanto che molte delle attività che prima richiedevano tempi lunghi e l’impiego di molte braccia, oggi vengono svolte facilmente anche da una sola persona. Ma la modernità, pur avendo cambiato molte delle produzioni del nostro paese, non è riuscita a intaccare i prati stabili, tappeti erbosi composti da piante spontanee, che richiedono il minimo intervento dell’uomo per crescere e proliferare.

Con oltre 70 varietà diverse di piante erbacee, il prato stabile rappresenta un ecosistema unico di biodiversità sul territorio, il cui foraggio, da più di 1000 anni, viene impiegato come principale fonte di alimentazione delle bovine da latte del Parmigiano Reggiano.

Questo sistema, che ancora vive di meccanismi naturali, è preziosissimo perché permette di produrre un formaggio unico, dal sapore autentico proprio come si faceva una volta.

Matteo Catellani, proprietario dell’azienda agricola Grana D’Oro di Cavriago, ancora alimenta i suoi animali con questo foraggio unico che lui stesso produce da quasi 40 anni. In questa intervista ci ha raccontato quanto sia importante continuare questa coltura per tenere viva la tradizione, tutelare l’ambiente e gli animali, e produrre un Parmigiano Reggiano di grande qualità.

Nonostante la loro storia millenaria e la straordinaria importanza, i prati stabili non sono così conosciuti. Cosa si intende esattamente con il termine “prati stabili”?

Un prato stabile è un manto erboso che non ha subito alcun intervento di aratura o dissodamento, non viene coltivato ma lasciato a vegetazione spontanea per moltissimi anni, addirittura centinaia.

È definito “stabile” proprio perché il suo ciclo naturale non viene mai rotto.

È composto da erbe che si autogenerano, cioè vanno in semenza e, una volta cadute, si autoseminano per poi rinascere da sole. Sono prati che non vengono mai arati perché di fatto questo cotico erboso rimane sempre perenne e c’è solamente bisogno di tenerli irrigati frequentemente e provvedere a un minimo di concimazione.

E si trovano nei territori dove si produce il Parmigiano Reggiano, corretto?

I prati stabili non sono così conosciuti, perché tutto sommato sono circoscritti ad una piccola area del territorio italiano: in Emilia Romagna si trovano adiacenti alle zone alluvionali come quelle lungo il fiume Enza. Lì, quando il fiume straripava, depositava quello strato di terriccio al di sopra delle ghiaie dove si sono formate queste praterie.

Per questo sono antichissime in queste zone, la loro formazione risale a mille anni fa. Poi però col tempo, si è iniziato a perfezionare il sistema di irrigazione e sono stati arginati fiumi e torrenti, costruendo i vari canali e linee di irrigazione; a partire dal 1460 si è cominciato anche a livellare gli appezzamenti e irrigarli periodicamente. In questo modo, si è formato questo particolare cotico erboso ricco di piante, il cui foraggio veniva utilizzato per l’alimentazione degli animali.

Quali specie di piante compongono un prato stabile?
Gli studi condotti sui prati stabili rivelano che per ettaro si contano circa tra le 60 e le 70 varietà di erbe diverse, di tipo stagionale. Non crescono mai tutte in una volta, ma si riproducono in varie fasi dell’anno. L’80% delle piante dei prati stabili sono graminacee e leguminose, ma sono numerose anche le essenze prative di altre famiglie. Ci sono erbe tipo il loietto che si presentano al primo sfalcio, mentre il trifoglio, la pastinaca, l’oriola e altre erbe le troviamo frequentemente al secondo e terzo sfalcio. Quando si va verso la stagione più calda ci sono anche le infestanti come la cicoria e, tra agosto e settembre, si riproducono e germogliano; in questo periodo si presenta anche il ranuncolo.

Perciò il prato stabile, nel suo complesso, è composto da una ricca varietà di erbe ma, essendo presenti solo in alcuni momenti dell’anno, i foraggi ricavati dai vari sfalci devono essere mescolati.

Tra le varietà di erbe che compongono il prato stabile, quali sono quelle più preziose per la nutrizione e il benessere degli animali?

Sicuramente la festuca, come anche il trifoglio, e tutte le sue varietà sono quelle che danno più apporto proteico agli animali. In generale però non è la singola pianta in sé a essere preziosa ma è il miscuglio del prato, dove c’è sia la parte proteica sia la parte più legnosa. Questo mix garantisce un apporto nutritivo equilibrato all’animale che può mangiarne in abbondanza, senza avere nessuna difficoltà nella digestione. Diciamo che tutto l’insieme è molto prezioso per l’animale, per questo motivo, quando i prati vanno in sofferenza o si trovano solamente poche varietà di erbe, l’animale mangia poco volentieri. Per esempio quando è presente solo il loietto, ecco in quel caso l’animale mangia poco volentieri, mentre invece se c’è del trifoglio e dell’oriola, allora mangia con più gusto.

Non ci sono erbe più preziose di altre ma è importante che siano presenti tutte per dare il giusto mix nutritivo e, soprattutto, per renderlo più appetibile.

Questo specifico tipo di coltivazione affonda le sue radici nel periodo pre-industriale, ci può raccontare la nascita e l’evoluzione di questa tecnica di cultura?

Nella nostra zona i prati e le praterie nascono sulle aree alluvionali e le esondazioni dei fiumi hanno dato origine allo strato di terriccio fertile che ha favorito la nascita di questa particolare coltura. Tra il 1000 e il 1200 d.C. sono sorti tanti piccoli allevamenti in prossimità di queste aree e, grazie agli animali, la concimazione avveniva in modo regolare. I frati benedettini, presenti nella zona, si sono interessati alla classificazione delle varietà di piante presenti, cosa che aiutato molto a preservare le stesse specie ancora oggi.

Il binomio tra una concimazione organica, che ha reso molto fertile il terreno, e un’irrigazione da monte, che ha trasportato a valle le semenze degli Appennini, ha fatto sì che queste erbe nascessero rigogliose e in maniera spontanea.

E qual è quindi il ruolo dell’irrigazione?

L’irrigazione è un fattore che ha inciso fortemente sulla nascita dei prati stabili: fin dal XII secolo sono stati arginati e regimentati i fiumi e torrenti con sorgente in montagna, che in precedenza annegavano la pianura per portare fertilità ai prati stabili. Oggi, su questo territorio, sono presenti dei Consorzi irrigui secolari: uno fra tutti il canale artificiale costruito dal duca Borso d’Este a partire dal 1462, con lo scopo di incanalare le acque dell’Enza per l’irrigazione di tutta questa area. Così, grazie a questa innovazione, è cominciata l’irrigazione regolare anche durante il periodo estivo in tutta l’area. Questo ha permesso che queste erbe si potessero mantenere il più possibile durante l’anno: dove c’è del trifoglio significa che c’è tanta acqua mentre il loietto si trova dove ce n’è meno.

Il fatto di aver abbinato questi prati all’alimentazione delle bovine da latte, prodotto utilizzato nelle produzione del Parmigiano Reggiano, ha dato dei risultati straordinari perché il latte ha delle caratteristiche totalmente diverse rispetto a un altro tipo di alimentazione.

L’alimentazione del bestiame con foraggio proveniente dal prato stabile, rende il latte diverso. Ci può spiegare su quali caratteristiche incide e perché è così importante per la produzione del Parmigiano Reggiano?

Per produrre il Parmigiano Reggiano, proprio come si faceva una volta, è fondamentale nutrire le mucche con un prato stabile, perché riesce a rispondere alla naturale esigenza alimentare dell’animale. Infatti, prima della pastorizia, l’animale al pascolo si nutriva delle erbe che crescevano in un preciso momento in campagna; perciò a primavera, trovava una foraggera molto variegata e con parecchi fiori, mentre in estate-autunno meno.

Inoltre, una volta che l’animale si nutre con foraggio da prato stabile, trasferisce degli odori e sapori al latte stesso. E a sua volta, il latte, una volta lavorato, trasferisce quegli odori e sapori al prodotto finito e rimangono distinguibili al palato, proprio a livello sensoriale al momento dell’assaggio. L’influenza dell’alimentazione sulle caratteristiche del prodotto è palese quando si hanno animali della stessa razza ma alimentati in zone diverse o in periodi diversi. È sicuro che  il formaggio avrà due sapori diversi, le risposte organolettiche saranno diverse.

Con il prato stabile si ottiene un formaggio più dolce, con un bel colore giallo paglierino che si trasferisce quando si prende in mano il Parmigiano Reggiano.

Poi anche in fase di produzione si notano delle differenze: il grasso del latte si spurga meglio, perciò anche la lavorazione diventa più sicura, perché bene o male, è meno probabile che insorgano batteri che vanno a creare dei problemi durante la fermentazione.

Mantenere questo tipo di alimentazione tradizionale, dove l’erba in un momento trasmette alcune caratteristiche piuttosto che altre, e che rispecchiano proprio il periodo in cui gli animali sono stati nutriti, è uno dei punti di forza del formaggio che produciamo, che non è industrializzato ma è ancora oggi un prodotto rigorosamente artigianale. Però diventa molto più difficoltosa la produzione, perché sta nell’abilità del casaro saper seguire la giusta lavorazione. Questo mondo ancora così artigianale è ciò che stupisce di più le persone che vengono a visitare la mia azienda.

E quale aspetto meraviglia maggiormente queste persone?

Spesso e volentieri, chi ci viene a trovare rimane un po’ stupito perché è convinto che avere un’azienda agricola oggigiorno sia una cosa molto più semplice rispetto al passato. Ma loro non sanno che qua di semplice non c’è niente! Le tecniche che utilizziamo sono ancora molto complesse. Da un lato, è vero che ci siamo evoluti molto, ad esempio per quanto riguarda la tipologia di strutture e di impianti, la modalità di gestione della mandria è quasi del tutto computerizzata tanto che lo stato di salute dell’animale viene seguito tutti i giorni. Facciamo un monitoraggio rigoroso dell’alimentazione e del dosaggio delle miscele; i piatti di mungitura moderni sono in grado di riconoscere anche le caratteristiche del latte, rilevando se la conducibilità è alta, un dato importantissimo perché indica un problema di cellule e quindi si va a indagare sulla salute dell’animale. Ecco tutta questa meccanizzazione porta a dei vantaggi notevolissimi per chi fa questo mestiere. Però, se si vuole abbinare ancora un’alimentazione tradizionale – che è fondamentale per avere un prodotto che corrisponda alle caratteristiche uniche del Parmigiano Reggiano – allora si devono conciliare questi due mondi: la tecnologia moderna con le tecniche del passato.

Chi vuole mantenere la qualità e la tradizione deve fare i conti con questo aspetto mentre chi vuole produrre e basta, si mette nelle mani di processi industrializzati che portano via molto meno tempo e sono anche molto più comodi, però il prodotto finale è molto più standardizzato. Noi invece cerchiamo di farlo come una volta, con un’attenta cura nella selezione dello sfalciato giusto che non sia né troppo vecchio né legnoso, ma che abbia ancora una fioritura appena sbocciata e fresca, stivato con attenzione.

Come si trasforma la coltivazione del prato stabile in foraggio per le mucche?

Il foraggio non è tutto uguale ma è prodotto in quattro momenti dell’anno in cui il prato viene sfalciato. Il “primo taglio” consiste nella prima volta dell’anno che si va a falciare il prato, e avviene verso la fine della primavera, di solito a maggio. È il momento in cui c’è più erba, tanto che questo taglio garantisce una produzione di foraggio annuale del 50%. Questo è anche il periodo dove ci sono più varietà di erbe e con più nutrienti perché grazie alle piogge e temperature miti hanno avuto tutta la primavera per nascere, crescere e maturare.

Questo taglio, una volta sfacciato, viene lasciato essiccare, portato via e messo a dimora.

Dopodiché sono necessari all’incirca 40 giorni affinché le erbe che compongono il prato possano crescere e fiorire di nuovo. Il secondo taglio quindi avviene alla fine di giugno, il terzo sfalcio cade tra la fine di luglio e inizio agosto, infine il quarto è a settembre. Tra uno sfalcio e l’altro, il prato si tiene irrigato seguendo tutte le indicazioni dovute.

Dato che non sono previste né semine né arature, come si preserva e propaga un prato stabile?

Dato che il processo non prevede l’utilizzo di sistemi tecnologici né chimici, un elemento fondamentale per preservare e poi ampliare un prato stabile è la pazienza. Per preservarlo, una parte delle erbe del prato stabile viene lasciata fiorire e poi sfiorire affinché possa creare dei nuovi semi che, una volta caduti, con il giusto apporto idrico e luce solare, germogliano dando vita a un nuovo prato stabile. È a tutti gli effetti un processo di autosemina e autogenerazione: per questo motivo un prato stabile non si deve arare, altrimente andrebbe eliminata tutta la varietà di semi fondamentale per la sua rigenerazione.

Per favorire la crescita e la propagazione vengono fatte delle concimazioni regolari con il letame bovino, perché i prati stabili sorgono proprio laddove ci sono gli allevamenti.

Fondamentale è l’irrigazione idrica dei prati perché, oltre ad essere essenziali per la crescita delle erbe, permettono di trasportare da un prato a un altro i semi, così come dalle montagne a valle, aumentando le varietà presenti nei singoli prati.

La propagazione, invece, è un processo un po’ più complesso: ecco perché i prati stabili sono più o meno gli stessi da più di 100 anni.

Bisogna circoscrivere un terreno, livellare e arginarlo bene per consentire una corretta irrigazione, si deve smettere totalmente di ararlo e adibirlo a medicaio. Anno dopo anno, con irrigazioni regolari, su questo terreno cominceranno a comparire le prime piante tipiche del prato stabile. La semina può essere di tipo naturale, oppure ci sono anche aziende che hanno prodotto dei mix pronti all’uso; nel primo caso i tempi sono più lunghi ma la varietà sarà più ricca, mentre nel secondo caso si riesce ad avere un prato stabile in un tempo più ridotto ma con una minore varietà. Per creare un cotico erboso con quelle 60/70 varietà di erbe all’ettaro ci vorrà almeno una decina di anni.

Secondo diverse ricerche, i prati stabili sono molto importanti non solo per l’alimentazione del bestiame ma contribuiscono a salvaguardare la salute del nostro pianeta. Ci può spiegare in che modo lo fanno?

Essendo una cultura che si autosemina e quindi non necessita di aratura, un prato stabile è in grado di immagazzinare azoto nel proprio cotico erboso senza rilasciarlo nell’atmosfera. Normalmente l’aratura comporta il rilascio di questo gas nell’atmosfera mentre nel caso del prato stabile diventa una sorta di magazzino naturale: a confronto di un prodotto come il mais, ha una capacità di immagazzinamento ben tre volte superiore all’incirca tra i 6 e 8 kg al metro quadro.

Poi per il fatto che non vengono arati, evita l’impiego di trattori a gasolio e altri macchinari per la sua gestione e mantenimento, così come non sono necessari agenti chimici dannosi per l’atmosfera e il sottosuolo. È una sorta di polmone per il nostro pianeta, anzi, meglio: è una sorta di un filtro naturale sempre “nuovo” perché facendo gli sfalci ogni 40 giorni è un po’ come se fosse sempre “appena installato”.

Inoltre è un vero e proprio termoregolatore, nel senso che il suo colore e il microclima necessario alla sua crescita, mitiga molto le temperature. Dove c’è un prato stabile c’è più fresco e questo si nota moltissimo quando passiamo dalla campagna al paese, ci sono almeno 3-4 gradi di differenza. 

Nel nostro paese ci sono delle normative che oggi aiutano a tutelare e mantenere questo tipo di coltura? Cosa altro si potrebbe fare per renderle più efficaci?

Da qualche anno a questa parte in Italia sono state attivate delle sovvenzioni da parte dello Stato per la tutela e il mantenimento dei prati stabili: finalmente dopo tanti anni è stato riconosciuto il principio della biodiversità che trova un esempio più che mai concreto nel prato stabile. La necessità che sento più impellente oggi è quella di attivare delle politiche non solo di riconoscimento ma soprattutto di tutela che aiutino, anzi incentivino noi agricoltori a mantenere questo tipo di coltura.

Sono necessari degli interventi in risposta ad alcuni fenomeni di questi anni, sempre nel pieno rispetto del territorio. Questo luogo è stato fortemente antropizzato perché lo abbiamo costruito e modellato per rispondere a delle esigenze concrete; se ci sono praterie e prati stabili è perché sono state create delle infrastrutture per poterli avere. Se avessimo lasciato tutto così com’era questo territorio oggi sarebbe principalmente boschivo e con molti acquitrini. Quindi credo che si debba studiare delle soluzioni iper localizzate perché ogni territorio ha delle caratteristiche e delle esigenze diverse che necessitano di soluzioni quasi “tailor made” per poter essere davvero efficaci e in grado di valorizzare i prodotti e le tradizioni.

Bisogna smettere di pensare a politiche universali che si basano sui processi industriali e sposano il principio di standardizzazione: non possiamo permettere che queste peculiarità, che danno vita a prodotti di eccellenza come il Parmigiano Reggiano, possano pian piano scomparire.

© Stefano Marzoli

Lo sguardo fisso verso la cima

C’è chi la montagna la vive come una saltuaria fuga dalla città, chi la guarda solo da lontano, chi la teme. Federica Mingolla, invece, è una di quelle persone che ha deciso di fare della montagna la sua casa, il suo habitat, la sua felicità. 

Climber professionista e aspirante guida alpina, spende la maggior parte del suo tempo tra le vette della Valle d’Aosta. Sempre in cerca di una nuova sfida, la sua vita si è adattata alla presenza della natura, che impone le sue condizioni e i suoi ritmi. Il rapporto che ne è scaturito, fatto di amore e rispetto, ha portato Federica a dedicarsi non solo ai traguardi più ambiziosi, ma anche alla salvaguardia dell’ambiente che la ospita.

Raccontaci la tua storia. Come è nata la tua passione per l’alpinismo e per l’arrampicata?

Ho iniziato ad avvicinarmi alla montagna quando ero molto piccola sulle vie ferrate. Successivamente, all’età di 15 anni, ho cominciato a scalare in una palestra indoor a Torino, la mia città. Da quel momento, non mi sono più fermata; mi sono riavvicinata all’outdoor iniziando a scalare su roccia; la mia passione è cresciuta sempre di più e mi sono spostata in fretta dalle falesie all’alta montagna. Ormai sono anni che pratico quasi esclusivamente l’alpinismo.

È da qui che nasce il tuo desiderio di diventare guida alpina?

Tutto è iniziato quando mi sono resa conto di quanto amassi stare in montagna e quanto mi trovassi in perfetta sintonia con quell’ambiente. Appena ho compiuto 21 anni, mi sono trasferita in Valle d’Aosta e non sono più tornata indietro. È stata una scelta di vita radicale, ma ne è valsa assolutamente la pena.

C’è stato qualcuno che in qualche modo ti ha spinto ad avvicinarti al mondo della montagna e dell’alpinismo? 

Sicuramente le amicizie che ho avuto hanno influenzato il mio modo di approcciarmi alla montagna. Mi sono sempre lasciata ispirare dalle persone che ammiravo e con cui passavo la maggior parte del mio tempo a seconda dei momenti della mia vita. C’è stato un periodo in cui andavo tanto in falesia con i miei amici che scalavano, uno in cui frequentavo gente veramente appassionata di montagna con cui passavo i weekend in alta quota. Tutte le esperienze che ho vissuto con loro hanno fatto sì che imboccassi questa strada professionale. 

Sei originaria di Torino e adesso vivi circondata dalle Alpi. Cos’è che ti affascina di più dello stare in montagna in un ambiente che non è quello urbano?

La montagna è un mondo a sé, non si può paragonare alla vita “reale”. Ci si immerge in qualcosa di estremamente unico, profondo. È un luogo in cui spesso ci sei solo tu e l’ambiente che ti circonda. Questo è sicuramente benefico anche per il tipo di attività che pratico; la montagna ti fa vivere i momenti molto più intensamente, ti costringe a incanalare il 100% della tua concentrazione e delle tue energie in quello che stai facendo.

Qui si vivono esperienze più emozionanti, da quando decidi di affrontare un progetto fino a che non arrivi in cima.

Insomma, sei nata cittadina e sei cresciuta alpina. La tua vita si divide tra il mondo della natura, scandito da un ritmo più lento e il mondo degli uomini, più frenetico e mutevole. Come vivi il dualismo tra questi due mondi? 

Sono abbastanza allergica alla folla, al caos. In città non mi sentivo a mio agio, invece, in montagna ho trovato la giusta quadra. Per lavoro devo comunque avere a che fare con le persone, ma la maggior parte sono clienti con una passione e un rispetto per la montagna, diversi dalla massa. Mi dispiace però vedere quanto la bellezza della montagna abbia attratto anche un pubblico più cittadino che però la frequenta con superficialità e maleducazione. In generale per tenermi alla larga da questo tipo di pubblico, che tanto mi ricorda l’ambiente cittadino da cui sono scappata, cerco di frequentare le mete meno ambite per ritagliarmi sempre uno spazio wild per me stessa.

Come ti alleni per affrontare un nuovo progetto?

Il mio allenamento per andare in montagna è semplicemente fare attività in montagna. Mi reputo una persona molto dinamica, frequento la montagna non solo per lavoro ma anche per passione. Sono sempre in continuo movimento e tutto quello che faccio è per me anche una forma di allenamento, non ho una tabella rigida da seguire. Quando ho una nuova idea rispetto a un percorso che voglio affrontare, mi prendo il tempo giusto per studiarlo e poi vado direttamente sul posto a provarlo, per testare subito la mia preparazione. 

Qual è stata la sfida alpinistica più entusiasmante che hai affrontato? 

In generale, ogni esperienza che ho vissuto in questi anni ha avuto un impatto particolare sulla mia vita. Con il passare del tempo sono cresciuta e maturata, e quelle che ora riesco a portare a termine in tempi brevi, prima mi sembravano delle sfide insormontabili. Sicuramente una conquista importante è stata scalare la parete est delle Grandes Jorasses pochi giorni dopo aver scalato anche la parete nord. Io ero particolarmente allenata e ho avuto la fortuna di affrontare queste vie con un amico che ha reso tutto molto spontaneo e naturale. Non è facile trovare una persona con cui sentirsi completamente a proprio agio durante un’attività sia faticosa che pericolosa. Noi siamo riusciti a crearci un equilibrio perfetto, siamo stati veloci, nonostante la roccia non fosse facile da scalare e ci siamo divertiti. È un’esperienza che ricordo con il sorriso.

Nel 1911 Paul Preuss ha dichiarato che “la donna è la rovina dell’alpinismo”. Oggi l’alpinismo rimane una disciplina dominata dagli uomini, ma con una forte crescita tra il pubblico femminile. Che cosa significa per te farsi largo in mezzo a una maggioranza di atleti uomini?

È buffo perché di recente questo aspetto dell’alpinismo mi è stato fatto notare più volte, mentre io non ci avevo mai fatto caso. Ho sempre avuto a che fare con gli uomini nella vita, sia lavorando in questo settore, che come amicizie. Per me è sempre stato normale scalare con un gruppo di maggioranza maschile, non l’ho mai vissuto come un fattore negativo. Fino a poco tempo fa non ero mai neanche stata con una donna in cordata. La verità è che non cambia niente, così come io vivo la montagna in un certo modo, mi aspetto che lo facciano anche gli altri che sono con me, indipendentemente dal loro genere.

Non c’è questa differenza che molti si aspettano di vedere, ognuno interpreta a modo suo l’andare in montagna, non è mai stato un ostacolo per me essere una donna in mezzo agli uomini.

Da quando hai iniziato a praticare queste discipline, che tipo di cambiamento hai notato nel mondo outdoor? Hai avuto la percezione che in questi anni si evolvesse? 

Secondo me, una cosa che è cambiata è l’aumento di interesse verso la montagna grazie ai social network. Ora è più facile raccontare le proprie imprese e scoprire chi ha fatto cosa. Infatti, tornando al discorso dell’aumento del pubblico femminile, posso dire con certezza che è stato un fenomeno supportato anche dalla facilità con cui si possono condividere i contenuti. Se prima le donne che compivano imprese eccezionali passavano più inosservate, ora tante vengono quasi mitizzate anche se affrontano dei percorsi con difficoltà minore. Anche il turismo sicuramente ha avuto una crescita considerevole. Posti molto belli e “instagrammabili” sono diventati più accessibili al pubblico generale.

Che impatto ha sulla montagna questo incremento di turisti? 

Da quello che vedo intorno a me, non riesco a definirlo un incremento positivo. Più la montagna viene frequentata da persone non abituate a questo tipo di ambiente, più vedo ampliare una situazione piuttosto critica. Basta vedere l’aumento considerevole di rifiuti e inquinamento. Le persone, tendenzialmente, hanno meno rispetto dell’ambiente in cui non vivono, pensano che siccome sono in valle, lontano dai loro luoghi d’abitudine, non vengano applicate le regole standard di civiltà e convivenza.

Diventare guida alpina significa avere una profonda conoscenza dell’ambiente in cui ci si muove e delle tecniche che lo rendono accessibile in modo sicuro e rispettoso. Secondo te, quali sono i principi fondamentali di cui bisogna tener conto per godersi la natura senza creare un impatto negativo?

Sicuramente un aspetto fondamentale è quello di non seguire il branco, ma i propri ideali. È sbagliato pensare che se qualcun altro lo fa, è giusto che lo faccia anche io. È importante far notare agli altri che stanno commettendo un errore, soprattutto in montagna, che non è solo un ambiente da proteggere, ma anche un ambiente rischioso. Non esistiamo solo noi, questa è una presunzione molto umana che deve decadere. Ci sono sicuramente delle piccole azioni che possono migliorare la situazione. Per esempio, sarebbe bello poter prediligere in queste zone la mobilità elettrica. È ovvio che non sia accessibile per tutti, servirebbe che le istituzioni premessero di più su questi temi e aiutassero concretamente nel cambio. 

Quindi per te che vivi a 360 gradi la natura, che cosa pensi sia importante ricordare a tutti per rispettare la montagna? 

Io penso che come tutti i processi di educazione, anche questo dovrebbe partire da quando si è bambini. Se gli adulti continuano a frequentare delle località a cui non sono abituati, comportandosi come se fossero in città, è certo che i bambini seguiranno questo cattivo esempio. A volte mi sembra ridicolo dover ricordare a delle persone adulte che non devono buttare i rifiuti in terra, non devono salire sui ghiacciai in ciabatte. Mi guardano smarriti, mi sembra che non vogliano neanche recepire il messaggio.

Quanto è necessario tenere conto dell’ambiente circostante in un mestiere come il tuo?

Il modo di andare in montagna sta cambiando molto velocemente perché la crisi climatica sta rendendo alcuni percorsi impraticabili. È evidente che qualcosa sta cambiando e noi ci ritroviamo ad affrontare la montagna in modo diverso.

Alcune salite per esempio è possibile farle solo d’inverno perché poi la temperatura è troppo alta, si stanno aprendo sempre più crepacci, i ghiacciai si stanno ritirando, alcuni anche di centinaia di metri. E questa cosa succede sotto lo sguardo di tutti, non è un mistero. Questo è un aspetto fondamentale per il mio mestiere perché aumenta anche la difficoltà e il rischio per i miei clienti.

Vista la direzione che sta prendendo l’impatto climatico anche negli ambienti di alta quota, che cosa ci può insegnare la montagna?

I fatti parlano chiaro, l’unica cosa che possiamo fare è cercare di ridurre i danni il più possibile. E per danni non intendo solo quelli che noi facciamo alla montagna, ma anche quelli che la montagna può fare a noi. Quello che sta succedendo sembra essere inarrestabile ormai, noi come essere umani possiamo solo adattarci. Bisogna sempre mettersi in condizione di sicurezza e non affrontare certe salite o discese quando fa troppo caldo, non bisogna mai forzare quello che ormai non si può più fare. Certo, si dice che le ere glaciali ci siano sempre state e che ne arriverà un’altra, ma per il momento possiamo semplicemente ascoltare i segnali che la montagna ci manda.

Hai una visione molto chiara di quella che è la situazione climatica attuale. Secondo te qual è l’errore umano che ha l’impatto più negativo sull’ambiente?

Parlando di quello che vedo tutti i giorni, anche le attività in montagna hanno un impatto. Macchine, funivie, impianti di risalita, sono tutti elementi comodi per l’uomo, ma sfavorevoli per l’ambiente. Ti faccio un esempio, in questi anni si è diffusa sempre di più la pratica dell’eliski; se ogni giorno si sollevano duecento elicotteri solo per portare poche persone in alta quota e riscendere i pendii è un consumo esagerato di gasolio. Però è un’attività dietro la quale c’è un business gigantesco difficilissimo da arrestare, perché comunque c’è gente che ne ha fatto il proprio e unico lavoro.

Qual è il tuo augurio per la montagna del futuro? 

Mi piacerebbe poter vedere le montagne com’erano prima, proprio come si vedono nelle vecchie fotografie dei rifugi: bianche, innevate, senza presenza umana. Pensa che io ormai il Monte Bianco lo chiamo Monte Bruno, non c’è più niente che ricordi com’era una volta. E questo sicuramente è un dispiacere.

Spero che ora, visto che questa situazione non è più una previsione ma un dato di fatto, l’impronta umana si ritiri: meno impianti, meno piste da sci, meno inquinamento in generale. Che la montagna possa riprendersi quello che le abbiamo tolto.

Foto © Lorenzo Morandini

Moda a basso impatto: l’equilibrio tra innovazione, etica ed estetica

Il servizio Google Trends, che si occupa di monitorare le tendenze crescenti nelle ricerche degli utenti di tutto il mondo, ha registrato a partire dal 2019 un picco di interesse per parole chiave riguardanti la moda etica, sostenibile e attenta all’ambiente.

Oggi, dopo tre anni, è ormai praticamente impossibile non imbattersi in campagne in cui è la sostenibilità ad essere al centro, o protagonista di collezioni speciali, le cosiddette capsule collections, create con materiali alternativi ed etichettate come “green” o “eco”.

Fortunatamente queste tematiche stanno diventando parte integrante delle strategie aziendali di molti brand di abbigliamento proprio per il crescente interesse dei consumatori, in particolare delle nuove generazioni – Generazione Z in primis, seguita dai Millennial.

Allo stesso tempo, però, aumenta anche la confusione a riguardo: etichette, certificazioni, linee dedicate… l’offerta sembra davvero moltiplicarsi in maniera esponenziale. Ma è sempre vero tutto quello che leggiamo?

In una recente indagine dell’Harvard Business Review, il 65% dei consumatori intervistati si dichiarava fortemente interessato ad aumentare i propri acquisti da brand di abbigliamento dall’approccio produttivo consapevole; anche se soltanto nel 26% dei casi l’intenzione si traduceva in un concreto cambiamento, si tratta di una percentuale davvero molto alta rispetto anche solo a 5 anni fa.

Se per colmare il gap tra intenzione e azione è fisiologico che trascorra qualche tempo, data l’attenzione relativamente nuova su tematiche piuttosto complesse e articolate, il mondo dell’innovazione rispetto allo sviluppo di nuovi materiali a basso impatto si sta muovendo invece in modo velocissimo.

Il tessile è da sempre considerato il primo tassello del mondo moda, l’ambito che più di tutti deve muoversi con anticipo cogliendo al volo i primissimi segnali del mercato, in modo da poter offrire per tempo soluzioni concrete che rispondono all’effettiva domanda da parte dei consumatori. E mai come oggi si è assistito a tanto fermento nel settore dello sviluppo dei materiali, con una corsa alla ricerca di soluzioni sempre più innovative e con il minor impatto ambientale possibile.

Per chi si occupa di ricerca in ambito tessile, ad esempio, il cotone biologico – dal minor impatto idrico rispetto a quello tradizionale e coltivato senza l’utilizzo di pesticidi, diserbanti e agenti chimici dannosi per uomo e ambiente – fa ormai già parte del passato: la nuova frontiera è creare nuovi filati senza sfruttare direttamente le risorse naturali, bensì ottenendoli dal recupero delle fibre a base cellulosica presenti nei vestiti usati o invenduti.

Una soluzione interessante per cercare di trasformare in risorse gli sprechi generati dalla sovrapproduzione, che ha portato a raggiungere gli oltre 92 milioni di metri cubi di rifiuti tessili annui. Questo è ciò di cui si occupano la svedese Re:newcell con il progetto Circulose e la finlandese Infinited Fiber Company con Infinna, la quale ha appena chiuso un round di finanziamenti da 30 milioni di euro da parte di alcuni colossi della moda: le due aziende estraggono fibre cellulosiche dagli abiti dismessi per poi, con un procedimento simile al riciclo della carta, ricreare un filato del tutto paragonabile al cotone.

Un altro settore che si prepara ad assistere a grossi stravolgimenti futuri è quello conciario: la richiesta per alternative animal-free al cuoio è in costante crescita, e anche i grossi gruppi del lusso sperimentano e sponsorizzano l’utilizzo di materiali innovativi per poterseli aggiudicare in esclusiva o in anteprima.

Se materiali derivati da scarti alimentari come ananas, uva, arance e mele sono approdati sul mercato già da qualche tempo, in pochi ancora hanno avuto modo di testare le ultimissime novità a sostituzione della pelle animale.

Come ad esempio Mylo, della statunitense Bolt Threads, o Reishi, sviluppato da MycoWorks, create a partire dal micelio, l’apparato vegetativo fibroso dei funghi; o ancora Desserto, brevetto messicano a base di cactus: tutte soluzioni dall’aspetto finale estremamente simile al cuoio.

Sempre rimanendo in questo ambito, ci sono grandi aspettative per aziende come la californiana Vitrolabs, che si sta occupando di sviluppare una tipologia di cuoio interamente coltivato in laboratorio a partire da cellule animali, e l’olandese Furoid, che porta avanti un discorso analogo per quanto riguarda le pellicce.

Spesso è proprio rispetto ai materiali di origine animale che si vedono sorgere soluzioni alternative interessanti, come la lana rigenerata, per la quale troviamo diverse aziende d’eccellenza all’interno del distretto tessile di Prato, dove si tramanda da generazioni il lavoro di cenciaiolo: una figura in grado di individuare al tatto l’esatta composizione dei capi dismessi, selezionando i materiali più puri che poi vengono successivamente riconvertiti in nuovo filato.

O ancora, tinture e pigmenti ottenuti a partire dalle alghe, seta ricavata dalla fibra di rosa, lenti per occhiali da sole create con emissioni di CO2, felpe a base di proteine fermentate.

In ogni caso, la parola chiave per i materiali di nuova generazione è circolarità: è ormai impossibile pensare a nuove alternative che non prevedano una soluzione per l’intero ciclo di vita di un prodotto, dalla creazione della fibra fino allo smaltimento del capo.

Le “tre R” sono ormai diventate il mantra di qualsiasi progettista che si cimenti con la moda a basso impatto: Reduce, Reuse, Recyle. Ovvero Riduzione – pensando alla sovrapproduzione ormai fuori controllo, Riutilizzo – allungando il più possibile la vita dei capi riparandoli, trasformandoli, rivendendoli o donandoli. E Riciclo – proprio affinché il meno possibile finisca in discarica, garantendo nuova vita alla fibra o al prodotto: da qui, il recente successo di tecniche come l’upcycling, volte a conferire nuovo valore a scarti e abiti dismessi.

D’altronde, si stima che la maggior parte dell’impatto di un capo sia prevedibile in fase di design: ecco perché è così importante investire sulla formazione di una nuova generazione di progettisti che siano in grado di valutare l’intero ciclo di vita degli abiti, portare soluzioni concrete e ipotizzare scenari innovativi.

Non solo chi si occupa di progettazione e design può fare la propria parte.

Ciascuno di noi può provare ad applicare le stesse regole al nostro approccio al consumo, partendo proprio dalla riduzione: la pandemia, in particolare, ha portato molte persone a riflettere sui propri consumi e sulle storie degli oggetti e dei capi nelle proprie case.

Ci serve davvero tutto quello che acquistiamo? E abbiamo mai riflettuto su quante volte in media abbiamo indossato quello che possediamo nel nostro armadio?

Un passo semplice ma di grande impatto è proprio il cominciare a farsi più domande, a porle ai brand; scegliere meno e meglio, privilegiando la qualità e investendo in capi fatti per durare.

Ma anche il riutilizzo e il riciclo possono gradualmente diventare parte della nostra quotidianità: si sente spesso dire che il capo più sostenibile è quello che già possediamo, tutto ciò che dobbiamo (re)imparare a fare è prendercene cura. Come ad esempio evitare lavaggi a temperature troppo elevate, non esagerare con detersivi e ammorbidenti, o riporre gli indumenti con le giuste attenzioni – sapevate che la maglieria va sempre piegata e mai appesa in modo da non rovinare le fibre?

Cerchiamo di riparare i nostri abiti, o comunque allunghiamone la vita il più possibile, magari trasformandoli o riadattandoli con l’aiuto di una sarta o di un calzolaio, prima di rimetterli in circolo vendendoli o donandoli.

E quella che sembra un’azione molto semplice come leggere le etichette dei nostri vestiti, è in realtà forse il mezzo più immediato che abbiamo per intraprendere un percorso di consapevolezza, per cominciare a farsi e a fare domande e per riconnettersi con le storie dietro agli oggetti di cui ci circondiamo.

Illustrazione © Francesco Bongiorni

Nutrizione è condivisione

Se provo a pensare al cibo, sono molte le immagini che riaffiorano alla mente: dai cibi esotici, quelli un po’ più particolari, ai piatti tradizionali. Trovo curioso, però, che la prima immagine a essermi apparsa in testa sia la pasta al sugo e, più precisamente le ruote, proprio quelle della mia Bisnonna, un classico dei miei pranzi domenicali.

Riflettendoci poi, non lo trovo più così curioso perché credo che sia il piatto che per eccellenza racchiude, in tutta la sua semplicità, la bellezza della quotidianità in famiglia per tanti italiani. In particolar modo l’immaginario del “pranzo dalla nonna” con la sua pasta al sugo appare come la rappresentazione più immediata di una situazione in cui ognuno si può facilmente immedesimare.

Ho un ricordo molto nitido di quel piatto bello pieno di sugo e Parmigiano Reggiano, che di regola dev’essere abbastanza per farci la scarpetta, anche perché si sa, le nonne non sono mai timide con le dosi.

Stessa cosa per la tavola, preparata sempre con la stessa tovaglia, perché io non sono un ospite e non ho bisogno di una tovaglia più bella, sono di casa.

Mangio quella pasta condita con lo stesso sugo da 25 anni e non mi stanca mai, ma nonostante l’abitudine qualcosa è cambiato: la mia percezione. Ora quella pasta ha per me un valore ben preciso. Prima era solo un semplice pasto, il mio stomaco si riempiva ed io ero contento così, nient’altro da aggiungere.

Ho sempre avuto una sola e unica visione del cibo, ovvero mangiare per saziarmi, tanto che il mio motto un tempo era «il cibo non si condivide» proprio perché era mio e nessuno doveva mettersi tra me e il mio stomaco.

Avendo sempre vissuto in un paesino di diecimila abitanti, crescendo mi è capitato raramente di confrontarmi con realtà al di fuori della mia, i miei amici dell’oratorio vivevano quasi tutti le mie stesse esperienze di vita e se devo ripensare alle nostre scelte per quanto concerne la nutrizione riconosco molte similarità. Questo ambiente, per quanto io sia un grande amante dei piccoli paesi e del loro senso di comunità e pace, non mi ha mai aiutato a realizzare quanti modi esistano di vivere e interpretare il concetto stesso di nutrizione. Raramente mi è capitato in fase di crescita di pormi un quesito come questo.

E poi è arrivato quel qualcosa che ti porta a guardare altrove, che ti spinge ad ampliare le tue vedute. Per me quel qualcosa ha un nome ben preciso: Andrea.


Andrea è il mio attuale fidanzato, un fiero Emiliano Doc, di quelli che almeno una volta a settimana deve mangiare rigorosamente i tortellini fatti in casa. Si sa, l’Emilia Romagna è una regione che ti cresce a pane e Parmigiano Reggiano, che ti insegna a riconoscere il valore di ogni eccellenza gastronomica locale, tanto che questo orgoglio diventa parte integrante della tua personalità. Considerando poi la varietà e la qualità di queste eccellenze, non sorprende quindi trovare un Emiliano che diventi automaticamente “paladino della sua terra”, pronto a difendere i suoi prodotti DOP e IGP in giro per l’Italia e per il mondo.

E nonostante molti di questi piatti tipici siano presenti regolarmente sulle tavole di tutta Italia e praticamente chiunque abbia una conoscenza base della cucina emiliana, Andrea in pochissimo tempo mi ha portato a vederne le mille sfumature.

L’Emilia Romagna mi ha accolto come esploratore e mi ha dato modo di conoscere e di innamorarmi di sapori che non erano nuovi al mio palato, ma che in qualche modo non avevo assaporato mai così da vicino.
Da lì è iniziato per me un percorso di riscoperta del concetto di nutrizione, del valore delle tradizioni e di quanto il cibo nasconda una bellissima storia che ho da subito voluto raccontare attraverso il media che più sentivo mio: Instagram.

Ho la fortuna di poter parlare a un pubblico vasto e variegato e, allo stesso tempo, questa mia sete di conoscenza mi ha portato a volerne sapere sempre di più. La mia community si è da subito interessata alle storie legate al cibo dandomi un grande valore aggiunto: la loro esperienza personale.

Ognuno di loro ha iniziato a raccontarmi la propria piccola realtà e io ho iniziato ad assorbire quanto più possibile le loro esperienze, cercando successivamente di dare voce a quelle tradizioni che, a mio parere, hanno bisogno di essere ricordate e tramandate. È partito così un costante scambio interpersonale, ricco di sfaccettature e scoperte, che con il passare del tempo è diventato sempre più gratificante. Ed è stato proprio questo viaggio verso la scoperta di tutte le declinazioni del concetto di nutrizione a consolidare più che mai la mia community.

Lo scambio perenne di informazioni, spunti e tradizioni mi ha permesso di costruire un legame forte, sincero e leale. Si potrebbe quasi dire che loro hanno iniziato a nutrire me e io a nutrire loro. Tutto questo partendo dalla semplice condivisione di un piatto sui social.

Ritengo dunque che nutrirsi non sia puramente un sinonimo di mangiare, ma significa sopratutto scoprire nuovi sapori, e avere qualcuno con cui condividere il momento del pasto. Nutrirsi diventa quindi condivisione. Mangiare insieme è un atto di amore, che sia offrire ciò che si è preparato o semplicemente dedicare del tempo per farlo assieme. I pranzi, le ricorrenze, i momenti speciali sono sempre stati per noi italiani delle vere e proprie riunioni tra persone, parenti e non, che si incontrano per passare del tempo in allegria.

Nutrirsi è anche ricordare perché preparare da mangiare riempie la cucina di profumi che rimandano automaticamente a dei ricordi d’infanzia, alla gioia di trovarsi con la famiglia, con gli amici.

Proprio per questo, quando Harper Collins mi ha dato l’opportunità di scrivere un libro, l’ho intitolato Il Sapore dei Ricordi: una raccolta di aneddoti e ricette della famiglia Ferrari, e in particolar modo della mia bisnonna Maria. Tra proverbi locali, piatti della tradizione novarese e rivisitazioni caserecce dei grandi classici della cucina italiana, penso che tra quelle pagine si possa riconoscere una tipica famiglia italiana. Tutti abbiamo, o abbiamo avuto, quella nonna che tra una tisana alla malva e una crostata alla frutta ti racconta gli aneddoti di famiglia. Non importa che tu li abbia già ascoltati mille volte, né che ad ogni racconto diventino sempre più fantasiosi: non ti stancherai mai di ascoltarli.

Ho sempre pensato di essere un animo vecchio in un corpo giovane, una sorta di mosca bianca, che alla discoteca preferiva la tarda serata a giocare a carte con i nonni. Ma proprio grazie ai social ho scoperto che il mondo è pieno di ragazzi come me.

Al contrario di ciò che si potrebbe pensare, riscoprire una tradizione, un prodotto o un’eccellenza locale è quasi un’esigenza per i giovani. Sarà forse per questo che in una città frenetica e moderna come Milano stanno spopolando le osterie tradizionali, gestite da pittoresche “sciure” over 80 che, tra un risotto con l’ossobuco e una cotoletta fritta rigorosamente due volte, snocciolano alla loro clientela supergiovane perle di saggezza dei loro tempi. Le nonne sono sempre nonne. L’amore e l’affetto che mettono nei loro piatti è qualcosa che va oltre il saziarsi, è nutrirsi nel senso più ampio del termine.

Da Nord a Sud, passando per ogni piccola provincia, ho ritrovato questo bisogno da parte della mia community. Si è creato così una sorta di ponte territoriale tra me e loro, la voglia condivisa di ricostruire giorno dopo giorno il nostro passato per capire meglio il nostro presente.

Amare il posto in cui si è nati vuol dire amare chi si è, le proprie radici, ed è necessario valorizzare la bellezza che ci circonda.

I miei follower mi hanno riempito di messaggi e consigli, dove ognuno ha voluto raccontarmi le proprie meraviglie e tradizioni e così mi si è accesa una lampadina. Perché limitarmi alla mia famiglia quando l’Italia è piena di Bis, Zia Robi e Nonno Tonio?

Durante la pandemia ho deciso di mettermi in gioco. Viaggiare era impossibile così ho deciso di girare l’Italia attraverso il cibo. In questo modo sono nati una serie di contenuti che col tempo hanno creato un vero e proprio format: la Giornata Regione, 24 ore di esplorazione virtuale di una regione a scelta. Sarò sincero, non mi aspettavo fosse così complicato fornire una rappresentazione fedele dei cibi tipici di ogni regione italiana… perché ce ne sono tantissime!

Sono partito giocando in casa, con il Piemonte, ma nonostante la familiarità che pensavo di avere con la mia regione, l’esperimento non è andato proprio secondo i piani. Alcuni piatti che davo per scontato essere della tradizione piemontese erano in realtà legati esclusivamente al territorio di Novara. Da lì ho capito che serviva un lavoro di ricerca e documentazione più ampio per conoscere e riadattare al meglio i piatti che sarei andato a preparare.

Anche in questo caso i consigli non sono tardati ad arrivare, la mia community si è mobilitata subito per fornirmi tutte le informazioni necessarie, dapprima tramite ricette più o meno semplici da ricreare e, successivamente, all’apertura dei confini regionali, indicandomi i posti giusti dove assaggiare piatti autentici. Il cambiamento era avvenuto: ormai non ero più io a raccontare le usanze culinarie della mia famiglia, ma ho sentito la necessità di dar voce a tante altre famiglie italiane. È come se il mio profilo Instagram si fosse evoluto in una sorta di TripAdvisor dove i suggerimenti dei follower e i miei stessi contenuti sono pubblici e accessibili a tutti.

L’Italia è un paese dalla cultura (non solo) culinaria così ricca e variegata che inevitabilmente ci sono moltissime usanze che in qualche modo rischiano di essere dimenticate, o quantomeno non propriamente valorizzate. Attraverso contenuti di questo tipo mi piace pensare che insieme alla mia community stiamo facendo qualcosa per mantenerle vive.

Ora a quel tavolo, la domenica a pranzo, non ci siamo solo io e la mia bisnonna, ma anche tutte quelle persone che in qualche modo si sono presentate con una sedia e si sono unite portando ciascuno qualcosa di tipico. Le porte di casa sono state aperte e sono pronte per accogliere chiunque abbia voglia di raccontare la propria storia, e io sono qui a prendere nota di tutto, con tanta sete di conoscere, condividere e nutrirmi.

Illustrazione © Andrea Mongia

Il cibo medicina per le ossa

Si stima che, in Italia, l’osteoporosi colpisca oltre 5.000.000 persone e le fratture da fragilità colpiscono circa il 40% della popolazione nel corso della vita con rilevanti conseguenze, sia in termini di mortalità che di disabilità motoria, con elevati costi sia sanitari sia sociali. 

Fondazione Firmo (Fondazione Italiana Ricerca sulle Malattie dell’Osso) è un ente privato non profit che opera da oltre dieci anni nel campo dell’osteoporosi. Nonostante l’alta incidenza, questa malattia è ancora poco conosciuta e i progetti di sensibilizzazione e informazione sono scarsi, così come anche i fondi destinati alla ricerca.

Per scoprire di più sulle malattie dello scheletro e quale ruolo riveste l’alimentazione nel prevenirle e curarle, abbiamo intervistato la professoressa Maria Luisa Brandi, Medico Chirurgo Specialista in Endocrinologia e Malattie del Metabolismo e presidentessa della Fondazione Firmo e Direttrice del Donatello Bone Clinic

Prima di tutto, ci può spiegare meglio che cos’è l’osteoporosi e quali sono i rischi per la salute?
Come la pressione arteriosa o il colesterolo, l’osteoporosi è un fattore misurabile con cui siamo in grado di definire il grado di fragilità ossea di un individuo.
Questa è una misurazione continua e avviene grazie alla mineralometria ossea computerizzata – l’acronimo di MOC – una radiografia con cui otteniamo dei valori che, una volta confrontati con la carta di rischio comunemente chiamata FRAX, ci permettono di quantizzare la probabilità di un individuo di incappare in una frattura del femore per fragilità nell’arco di 10 anni.


Di questi 5 milioni di persone, quali sono i target statisticamente più colpiti e quali invece sono quelli di cui si parla poco?

L’osteoporosi è comunemente associata all’anzianità; un’altra categoria altrettanto ampia ma meno considerata è la donna in menopausa; questo target è particolarmente delicato perché diventa soggetto anche a ipercolesterolemia, che si verifica quando il colesterolo totale è troppo alto. Proprio per evitare questa condizione, le donne in menopausa tendono a ridurre l’introito di latte e latticini in un momento in cui ne avrebbero più bisogno del dovuto – una situazione che noi medici riscontriamo spesso. Ci sono poi le cosiddette osteoporosi secondarie, tra cui le più note sono quelle da cortisonici e da trattamenti antitumorali, soprattutto in donne con carcinoma mammario che devono assumere farmaci ormonali, oppure uomini con tumore prostatico. In questi casi, si verifica un’osteoporosi abbastanza acuta ed è quindi su questi target che bisogna fare maggiore prevenzione.


Fin da piccoli ci insegnano che il latte e i suoi derivati sono importanti per la salute delle ossa, in particolare durante l’età della crescita e soprattutto in vecchiaia.
Quanto c’è di vero in questa affermazione?

Questa affermazione può essere definita “una fisiologia”, perché l’essere umano ha necessariamente bisogno del calcio per vivere in quanto la cellula muscolare cardiaca, o la cellula del sistema nervoso centrale, non possono funzionare senza calcio.

Come si lega questa necessità al tema delle ossa?
Per spiegarlo faccio una premessa importante che ci aiuta a capire questa correlazione e il perché è molto importante assumere quotidianamente latte e latticini. Finché l’uomo è stato un animale acquatico, poteva assumere calcio a volontà perché presente in abbondanza nell’acqua. Il problema della disponibilità del calcio è nato quando è diventato un animale terrestre, perché i singoli alimenti disponibili in natura non contengono le quantità di calcio giornaliere necessarie alla sua sopravvivenza.
Il motivo per cui lo scheletro degli animali terrestri si è mineralizzato è per diventare un réservoir di calcio dal quale attingere ogni volta che si verifica una carenza di questo elemento così prezioso.
Data questa premessa, è facile capire perché il latte e i latticini sono tanto importanti! A parità di volume o peso, sono gli alimenti più ricchi di calcio sul nostro pianeta e permettono di introdurre quei 1000mg giornalieri di cui abbiamo bisogno senza dover attingere dallo scheletro. 1000mg è il fabbisogno richiesto per un soggetto adulto, mentre valori più elevati si hanno negli anziani, negli adolescenti e nelle donne in gravidanza o in allattamento. Ecco perché tutti sappiamo che il calcio è importante soprattutto in fase di crescita e in vecchiaia. Nei bambini in età scolare è necessaria una quantità pari a 600/800mg, che è una quantità altissima in proporzione al suo peso: questo è dovuto al fatto che il bambino deve mineralizzare tutto lo scheletro.

Si dice che il Parmigiano Reggiano sia uno degli alimenti d’oro per la salute delle ossa, in che quantità dovrebbe essere presente nella nostra dieta?
Il Parmigiano Reggiano è l’alimento d’oro della dieta per l’osteoporosi, perché con soli 30g al giorno è possibile introdurre ben 300mg di calcio, quasi ⅓ del fabbisogno giornaliero. Rispetto ad altri alimenti che richiedono quantità di gran lunga maggiori, il Parmigiano Reggiano, con un peso equivalente a un morso, permette di assumere il calcio quotidiano richiesto. Per esempio, anche il sesamo, di per sé, è un alimento molto ricco di calcio ma è necessario mangiarne una quantità di gran lunga superiore rispetto a quella necessaria con il Parmigiano Reggiano. Il calcio è presente anche nelle verdure come broccoli e la cicoria, frutta secca come mandorle ma, come nel caso del sesamo, è necessario consumarne quantità troppo grandi per raggiungere i 1000mg quotidiani e queste quantità sono incompatibili con la nostra alimentazione. Possiamo anche ricorrere a un integratore quando è davvero impossibile fare altrimenti, ma è sempre preferibile una buona dieta per l’osteoporosi.


Negli ultimi anni, abbiamo assistito a una serie di trasformazioni socio-culturali che hanno cambiato molto le nostre abitudini. Ci sono degli aspetti di questi nuovi stili di vita che incidono sul problema dell’osteoporosi?

Un cambiamento che ha influito sulla salute delle ossa è legato alla tipologia di attività che facciamo: ad esempio, la maggior parte dei lavori viene svolto in uffici, locali, fabbriche, luoghi che sono spesso al chiuso e illuminati con luce artificiale. Nella maggior parte dei casi, le otto ore lavorative si concentrano di giorno il che impedisce alle persone di avere una corretta esposizione solare, fondamentale per la salute dell’osso perché è proprio grazie alla pelle che sintetizziamo la vitamina D. Un altro fattore che incide molto sulla salute dell’osso è la comunicazione negativa su latte, latticini e tutti i derivati: oggi stanno circolando molte teorie estreme sull’assunzione di questi prodotti tanto che, in molti casi, le persone decidono di eliminarli completamente perché hanno paura di ammalarsi in maniera grave.

In queste trasformazioni dannose rientrano anche le diverse teorie alimentari e i trend culinari che dilagano nei canali digitali?
Assolutamente sì! Ci sono una serie di diete e filosofie culinarie che demonizzano in maniera estrema alcuni alimenti, come il Parmigiano Reggiano, mentre invece promuovono l’integrazione nella dieta di alimenti spesso non noti nelle nostre tavole e che provengono da filiere non certificate, come alghe e mucillagini. Spesso le informazioni alimentari vengono da fonti non attendibili o addirittura da profili senza alcuna qualificazione medica, provocando gravi danni perché causano scompensi nutrizionali. Nella mia esperienza professionale purtroppo ho avuto modo di confrontarmi con alcuni pazienti che seguivano diete completamente sbilanciate e davano credito a credenze del tutto sbagliate; questo ha inciso sulla salute del loro scheletro, provocando l’insorgenza dell’osteoporosi.

Quali sono gli altri alleati della nutrizione che permettono di avere ossa sane e forti?
Noi medici sosteniamo che la prevenzione primaria sia l’arma più efficace per poter prevenire e combattere questa malattia. È fondamentale fare una buona prevenzione sin dalle generazioni più piccole, in modo che siano noti già nell’età dello sviluppo i fattori che aiutano ad avere uno scheletro in salute. Quali sono questi fattori? In primis l’attività fisica regolare, perché ci aiuta ad avere uno stimolo meccanico gravitazionale, indispensabile per non perdere la struttura ossea; successivamente l’esposizione alla luce solare giornaliera almeno 30 minuti al giorno senza crema protettiva in modo che la nostra pelle possa sintetizzare la vitamina D, l’ormone necessario ad assorbire il calcio a livello intestinale. Se non ne avessimo a sufficienza, anche introducendo una buona quantità di calcio, non avremmo una struttura sana.

Che tipo di beneficio si può avere da un alimento come il Parmigiano Reggiano nella prevenzione e nella lotta contro l’osteoporosi?
In generale il Parmigiano Reggiano offre una serie di vantaggi per la nostra salute: in primis, è un alimento buono e si sposa bene con molti altri cibi della nostra tavola.
A livello nutrizionale, grazie al suo processo di stagionatura, il Parmigiano Reggiano perde il lattosio, un nutriente che spesso provoca delle fastidiose intolleranze tanto da non poter essere consumato da una buona fetta di persone. Poi è un alimento che non contiene livelli di colesterolo tali da provocare dei problemi, e anche le lipoproteine sono presenti in una concentrazione limitata, non dannosa per la salute rispetto a quelle contenute in altri alimenti che derivano dal mondo animale. La cosa più importante, come abbiamo già detto, è che il Parmigiano Reggiano per peso contiene una quantità straordinaria di calcio ed è per questo che noi raccomandiamo l’assunzione giornaliera in piccole quantità.

Il Parmigiano Reggiano va considerato come una pillola-cibo, perché con quantità piccole e fisse tutti i giorni apporta i corretti nutrienti diventando a tutti gli effetti il “cibo medicina dell’osso”. Quindi ai miei pazienti consiglio di consumare ogni giorno “un cioccolatino” di Parmigiano Reggiano per avere ossa forti e un piccolo piacere quotidiano.

Quali sono gli errori più comuni che vengono fatti e che intaccano la salute delle nostre ossa?
In primis l’introduzione di una quantità di calcio giornaliera inferiore a quelle raccomandata, il che induce il nostro organismo ad attingere dallo scheletro per poter vivere. Questo avviene spesso nelle diete drastiche e sbilanciate che negli ultimi anni sono diventate tanto di moda per perdere rapidamente peso. È il caso delle famose diete iperproteiche, che sono pericolose perché, oltre a provocare degli sbilanciamenti a livello nutrizionale, inducono un’alta perdita di calcio attraverso le urine. Anche il consumo eccessivo di alcol e superalcolici è dannoso per la salute delle ossa, così come il fumo di nicotina.


Ci sono altri fattori che contribuiscono all’insorgenza dell’osteoporosi?
L’insorgenza dell’osteoporosi può essere la conseguenza di malassorbimenti che dipendono da tutte le malattie neuromuscolari, reumatiche e, più in generale, di tutte quelle malattie che impediscono al muscolo di funzionare bene, creando difficoltà nel processo di formazione dell’osso. Esistono purtroppo molte malattie rare e oltre 500 displasie diverse dell’osso; un caso molto comune è quando a una bassa introduzione di calcio, che accade molto spesso a causa di diete errate, coincide anche un malassorbimento. Infine, come detto in precedenza, tutte le malattie oncologiche che prevedono una terapia molto aggressiva, comportano osteoporosi come anche le malattie endocrine.


Esistono dei campanelli di allarme che ci fanno presupporre una possibile osteoporosi?
Il primo campanello d’allarme è sempre la familiarità: se nella nostra famiglia ci sono stati casi di osteoporosi allora è probabile che nel nostro patrimonio genetico abbiamo ereditato questo tipo di malattia. Per una donna in menopausa, i dolori alla schiena e/o alle articolazioni sono un campanello di allarme perché indicano una diminuzione della massa ossea. Anche l’incurvatura della schiena è un altro segnale di una possibile osteoporosi perché indica un possibile schiacciamento vertebrale.

Quali sono gli altri alleati della nutrizione che permettono di avere ossa sane e forti?
Noi medici sosteniamo che la prevenzione primaria sia l’arma più efficace per poter prevenire e combattere questa malattia. È fondamentale fare una buona prevenzione sin dalle generazioni più piccole, in modo che siano noti già nell’età dello sviluppo i fattori che aiutano ad avere uno scheletro in salute.

Fattori di che tipo?
Bisogna svolgere attività fisica regolare perché ci aiuta ad avere uno stimolo meccanico gravitazionale indispensabile per non perdere la struttura ossea; successivamente l’esposizione alla luce solare giornaliera almeno 30 minuti al giorno senza crema protettiva in modo che la nostra pelle possa sintetizzare la vitamina D, l’ormone necessario ad assorbire il calcio a livello intestinale: se non ne avessimo a sufficienza, anche introducendo una buona quantità di calcio, non avremmo una struttura sana. Una credenza molto diffusa è quella di considerare l’Italia un paese così ben esposto alla luce solare tanto da avere un ottimo livello di vitamina D. Invece gli studi hanno dimostrato che il nostro paese è uno dei più colpiti e la cosa ancora più incredibile è che questo problema si verifica soprattutto al sud. Quindi, a maggior ragione, non dovrebbe mai mancare nelle nostre diete la razione di calcio consigliata.


FIRMO è un’associazione che nasce con l’ambizioso obiettivo di debellare le malattie dell’osso avvalendosi dell’informazione, della formazione e della ricerca. Quali attività promuove l’associazione per raggiungere questo obiettivo?

Noi cerchiamo di diffondere quanto più possibile informazioni sull’osteoporosi e la salute dell’osso perché crediamo che per poter debellare queste malattie sia necessario educare le persone. Organizziamo costantemente eventi di tutti i tipi per arrivare al maggior numero di persone: per fare un esempio, facciamo attività di comunicazione nelle piazze italiane grazie a un nostro camper che gira per la penisola da nord a sud. Svolgiamo molte attività anche nelle scuole, puntando soprattutto alle generazioni più giovani perché inizino subito ad adottare uno stile di vita sano per la salute dello scheletro.Usiamo i nostri canali social non solo per diffondere informazioni ma soprattutto per comunicare con la community più digitale rispondendo a tutte le loro domande. Cerchiamo di essere attivi il più possibile e non perdiamo mai nessuna occasione per trasferire alle persone quante più conoscenze possibili per poter davvero raggiungere il nostro obiettivo.

© Stefano Marzoli

Se la disinformazione è fronte pacco

Andrea Ghiselli, presidente della Società Italiana di Scienze dell’Alimentazione, spiega perché sono utili le etichettature fronte pacco e perché il Nutrinform è più utile del Nutri-score. Quale sarà la scelta dell’Unione Europea?

«Come ogni altro animale, anche l’uomo è geneticamente programmato alla scelta di alimenti che gli diano il massimo della redditività. La redditività è in funzione delle calorie ottenute dal cibo e dal tempo e dall’energia spesi per cercarlo, manipolarlo e consumarlo. 

In natura c’è un equilibrio costante tra l’accesso al cibo e la fatica fisica per procurarselo. Nessun animale è obeso, perché raggiungere cibi energetici costa fatica fisica e perché se mangiasse troppo cibo, questo poi comincerebbe a scarseggiare. Un animale obeso fa poca strada: il leone obeso non insegue la gazzella e la gazzella obesa non sfugge al leone. 

L’uomo, invece, si è affrancato dalla fatica fisica per procurarsi il cibo e lo trova anche stando seduto sul divano: gli basta ordinarlo per riceverlo sotto il naso.

Le nostre scelte in fatto di cibo, però, seguono le stesse primitive dinamiche di redditività. Se al supermercato trovo un alimento che nella parte anteriore del pacco mi fa capire subito che è positivo o negativo per la mia salute, questo almeno è quello che credo, perché sforzarmi di guardare oltre? Gli studi scientifici dimostrano che sarò indotto ad acquistarlo, perché ormai le mie difese sono basse e sceglierò comunque quel prodotto».

Il professore Andrea Ghiselli racconta vividamente le dinamiche di selezione del cibo per introdurre l’equivoco del Nutri-score, in favore di un sistema più votato all’informazione e all’educazione alimentare, il Nutrinform. 

Chi è Andrea Ghiselli

Andrea Ghiselli è presidente della Società Italiana di Scienze dell’Alimentazione (S.I.S.A.), incarico che ricopre ormai a tempo pieno, a un anno dal pensionamento dal suo più che trentennale impegno per il Centro di ricerca per gli alimenti e la nutrizione del Consiglio per la ricerca e in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria (CREA-Nutrizione), di cui è stato anche dirigente di ricerca. A queste attività si associa una lunga carriera come docente di Fisiologia umana del Corso di Laurea per Dietista all’Università “La Sapienza” di Roma, numerose pubblicazioni, relazioni e convegni.

Tra le diverse attività, la S.I.S.A. si occupa di una corretta informazione ed educazione alimentare. A tale scopo promuove la ricerca e lo scambio di esperienze tra cultori scientifici della materia, realizza programmi di educazione alimentare, fornisce supporto tecnico e scientifico per l’industria agroalimentare. Inoltre realizza numerosi documenti e pubblicazioni, come il position paper pubblicato per confutare l’utilità del Nutri-score proponendo un sistema a suo avviso più efficace, il Nutrinform.

Che cos’è il Nutri-score e come funziona

Come spiega il professore Ghiselli, oltre alla conquista delle tabelle nutrizionali leggibili sul retro delle confezioni, «abbiamo bisogno di etichette fronte pacco (Fop, in inglese front of pack) che aiutino il consumatore a effettuare scelte migliori, soprattutto meno caloriche, meno ricche di sale, zucchero e grassi, tutti nutrienti che consumiamo in quantità eccessiva, anche perché geneticamente programmati per farlo. Perciò sono nati dei sistemi a mio modo di vedere piuttosto ingenui. Senza tenere conto delle reazioni del consumatore, sono state pensate delle etichette a semaforo, conosciute, appunto, come traffic light systems. L’idea è che il consumatore abbia la percezione visiva immediata della presunta bontà dell’alimento, che deve scegliere tramite le luci del semaforo».

Il sistema che si sta diffondendo negli ultimi anni è il Nutri-score, che assegna cinque gradazioni cromatiche sovrastate dalla relativa lettera dell’alfabeto: dal verde scuro con la lettera “A” al rosso intenso della lettera “E”. Il Nutri-score assegna un colore e una lettera in base a sette parametri: quattro nutrienti “cattivi”, calorie, acidi grassi saturi, zucchero, sale; e tre “buoni”, proteine, fibre, percentuale di frutta e vegetali. Un alto contenuto di fibre, proteine, vegetali e frutta migliora il punteggio e sposta lo score verso un colore rassicurante. Al contrario, un alimento ricco di calorie da zuccheri, acidi grassi saturi e sale ottiene uno score peggiore e dunque una gradazione più allarmante.

Particolare da non sottovalutare: i parametri del Nutri-score si basano sul contenuto di nutrienti per 100 grammi di prodotto per gli alimenti solidi e 100 millilitri per gli alimenti liquidi e non sull’effettiva quantità di consumo, o porzione. 

Il sistema è stato messo a punto da un gruppo di ricerca francese, l’EREN, Équipe de Recherche en Epidémiologie Nutritionnelle. Spiega Ghiselli: «Il governo francese lo ha fatto suo e molte multinazionali d’Oltralpe lo supportano» con alcune importanti eccezioni, come quella di Lactalis

Le criticità del Nutri-score

Il professor Ghiselli spiega perché il sistema Nutri-score non è affidabile: «Poteva essere un’idea accompagnare il consumatore nelle scelte alimentari più sane, il problema è che studi affermati dimostrano che non è così». 

E perché, se contengono ingredienti più salutari? «Un esempio su tutti è quello della pizza margherita: pochissime fibre, tante proteine, un cospicuo apporto di grassi e di sale. Eppure, per 100 grammi, il bollino è verde. Ma noi normalmente consumiamo una pizza intera, che pesa almeno 300 grammi. Che succede quando mangiamo una pizza? Occupiamo la metà dello spazio disponibile per l’energia, il 60% di grassi e di sale. Succede la stessa cosa con le patatine fritte: verdi, a prescindere dalla quantità. Inoltre, un alimento con il bollino verde dovrebbe essere consumato tutti i giorni. Si potrebbero mangiare pizza e patate fritte tutti i giorni? Il bollino verde non significa che un alimento è sano sempre e comunque per la propria dieta. Con il Nutrinform non si corre questo rischio perché il consumatore ha ben chiara la quantità di energia, saturi e sale che apporta quella pizza». 

«Con il Nutri-score, invece, abbiamo un colore come risultato complessivo. Un prodotto, dunque, può avere una classificazione ‘A’ grazie ai pochi grassi saturi e a una generosa aggiunta di proteine, ma può essere troppo carico di sodio. Il consumatore, che acquista di pancia secondo ogni studio scientifico sulla materia, e magari è iperteso, non è messo in condizioni di sapere se il prodotto scelto contiene troppo sale. È assurdo e non scientifico, poi, che l’addizione di proteine risulti un fattore premiante».

Ghiselli ritiene che il Nutri-score apra la strada agli alimenti che lui definisce “pasticciati” in laboratorio. «I banchi dei supermercati sono invasi da questi alimenti pasticciati, aiutati magari dall’aggiunta posticcia di fibre e proteine. Togliere grassi e aggiungere additivi, togliere zucchero e aggiungere edulcoranti acalorici, aumentare il contenuto di proteine e di fibre si traduce nella realizzazione di un alimento ultra-processato, con una lista di ingredienti lunghissima, ricco di additivi, addensanti, emulsionanti, aromi, ma con uno score verde. Questo spiega perché molte multinazionali lo stanno supportando, dato che possono modificare i prodotti a proprio piacimento».

L’impegno italiano per il contrasto all’obesità

Spiega Ghiselli: «In Italia abbiamo un grave problema derivante dalla cattiva alimentazione e dalla mancanza di esercizio fisico. L’unico modo che abbiamo per far fronte alla continua tentazione nel mondo moderno è l’autocontrollo o, come si definisce in termini anglosassoni forse più accademici, l’empowerment. L’informazione, l’educazione alimentare e più in generale l’istruzione, sono le condizioni che “allenano” l’empowerment». 

«Studi scientifici accreditati dimostrano che un’etichetta positiva che assegna solo un giudizio, senza ulteriori informazioni, crea molti problemi. Fa abbassare le barriere critiche, come evidenziato in uno studio molto divertente di Priven-Baum e altri, condotto sull’onda dei prodotti che si dichiaravano “senza zucchero”, ma usavano poi edulcoranti di vario tipo, o ancora meglio sulla recente messa al bando dell’olio di palma. Si sono inventati un prodotto inesistente, recante l’etichetta ‘mui-free’. Il mui non esiste e non esiste, quindi, una percezione del rischio. Gli studiosi hanno visto che tra due prodotti identici, i consumatori preferivano il mui-free anche in assenza di percezione di rischio, a significare che le etichette sugli alimenti, se non sono informative, possono indirizzare il consumatore verso scelte inadeguate». 

«Allo stesso modo, studi scientifici condotti da Oostenbach e altri, da Schuldt e altri, da Cleeren e altri hanno ampiamente dimostrato che l’etichettatura verde induce non solo a un abbassamento del filtro critico dei consumatori, ma anche a un iperconsumo di prodotti etichettati e percepiti come positivi, ma con le problematiche che abbiamo affrontato».

«In sinergia con il Ministero della Sanità, il Ministero dello Sviluppo economico, e il Ministero dell’Agricoltura, da alcuni anni abbiamo messo a punto un sistema di etichettatura Fop, non direttivo, non basato sui colori, ma informativo e che per questo abbiamo chiamato Nutrinform. Come fosse una batteria di quelle che siamo abituati a vedere come indicatori della carica degli smartphone, Nutrinform indica quanto incide percentualmente nei nutrienti la porzione di alimento che si sta consumando su un fabbisogno tipo di 2000 kcal, cioè lo standard della popolazione adulta».

«Il nostro lavoro – specifica Ghiselli – non è orientato a evitare i bollini rossi che condannerebbero molti prodotti. Quello che ci preoccupa è il verde perché dobbiamo proteggere i consumatori dall’iperconsumo», tema alla base di quella che l’Organizzazione mondiale della Sanità ha definito un’epidemia: l’obesità.

Uno studio cui ha partecipato lo stesso professor Ghiselli ha evidenziato scientificamente la funzionalità del Nutrinform rispetto alla parzialità del Nutri-score, tenendo conto proprio dei comportamenti dei consumatori rispetto alle etichette Fop.

Il Nutrinform e il sistema “a batteria”

La batteria del Nutrinform ha un colore neutro, proprio perché non vuole essere impositivo, ma informativo. Il sistema valuta l’incidenza dei cibi sulla dieta, basandosi su porzioni adeguate a un’alimentazione sana. Un esempio di lettura del Nutrinform su di un pacco di pasta da 500 grammi: esso contiene sei porzioni standard da 80 grammi ciascuna, nell’ambito di una dieta standard per un adulto medio, da 2000 kcal giornaliere. La porzione contiene: 287 kcal, il 14% del fabbisogno giornaliero; 1.6 grammi di grassi e 0.4 grammi di grassi saturi, il 2% del fabbisogno; 2.8 grammi di zuccheri, il 3% del fabbisogno e zero grammi di sale.

Spiega Ghiselli: «In questo modo il consumatore è informato sia dell’esistenza delle porzioni standard, che del peso di una porzione e di quanti nutrienti contiene e anche, auspicabilmente in futuro, quante porzioni giornaliere o settimanali di quel prodotto si consiglia di consumare. Mentre il Nutri-score incoraggia l’industria a produrre alimenti ultra-processati, il Nutrinform no, tutt’al più stimola l’industria ad adeguarsi alle porzioni standard, cosa che riveste una ulteriore valenza educativa». 

Il dibattito sull’etichettatura fronte pacco in Europa

Il dibattito europeo sull’adozione dell’etichetta Fop, che dovrebbe concludersi entro fine 2022, però, non sta andando benissimo. Nutri-score è stato adottato da Francia e Germania, la Spagna ne usa una versione adeguata ai suoi parametri, l’Italia adotta il Nutrinform

L’Italia ha assunto inizialmente un atteggiamento protettivo nei confronti dei suoi prodotti, ma di fatto il Nutri-score può penalizzare il formaggio italiano come quello francese, l’olio italiano come quello greco e i biscotti tedeschi come quelli francesi. 

Il cambio di strategia è avvenuto successivamente, forse troppo tardi? Il professore Ghiselli spiega ancora una volta con un’immagine vivida la questione: «Se le autorità decidono di scrivere che il fumo uccide sui pacchetti di sigarette per tentare di contenere il vizio, la reazione non può essere che così la vendita del prodotto è penalizzata, perché è proprio quello l’obiettivo. Dovevamo far notare da subito, come facciamo ora, la fallacia, l’ingannevolezza e l’inutilità del Nutri-score. Cosa che sta comunque avvenendo, grazie a numerosi studi scientifici».

Foto © Gabriele Stabile 

Sei falsi miti sul Parmigiano Reggiano

Il nostro Paese è famoso in tutto il mondo per la sua bellezza paesaggistica, il clima mediterraneo e soprattutto per la cucina e i prodotti tipici di ogni sua regione.

Uno dei capostipiti culinari, per gusto ed eccellenza, è il Parmigiano Reggiano, amato e consumato in tutto il mondo.

È uno dei perni della nostra tradizione gastronomica e da sempre è un membro delle nostre tavole; le sue origini risalgono al Medioevo e i primi caseifici vennero creati nei monasteri benedettini e cistercensi di Parma e Reggio Emilia, regione ricca di corsi d’acqua e pascoli.

In questa zona si diffuse la produzione di questo formaggio tipico a pasta dura e la lavorazione non è mai stata modificata, quindi ancora oggi avviene in modo naturale, senza l’utilizzo di additivi.

Da un punto di vista nutrizionale/dietetico, è spesso messa in discussione la sua presenza in una corretta alimentazione con non pochi falsi miti e false credenze popolari che gli sono state attribuite.

Nonostante appartenga alla temuta categoria “formaggi”, questo nobile alimento vanta una vasta gamma di benefici e proprietà notevoli per il nostro benessere.

Basti pensare agli innumerevoli studi condotti a riguardo in cui si attesta che può aiutare a prevenire e combattere patologie come osteoporosi, ipertensione, obesità e diabete. Quindi, sfatiamo cinque falsi miti sul Parmigiano Reggiano ed esaltiamo la nobiltà di questo cibo così antico e genuino.

Il primo consiglio, essenziale, è imparare a leggere le etichette nutrizionali in cui vengono indicati: tabella nutrizionale con kcal, macro e micro nutrienti contenuti in 100g di prodotto, gli ingredienti (esclusivamente latte, sale e caglio), l’origine del prodotto e la sua “storia”, il grado di maturazione e il caseificio di produzione.

FALSO MITO 1: Il Parmigiano Reggiano contiene lattosio.

Il Ministero della Salute ha legittimato l’uso della dicitura sui prodotti con un contenuto di Lattosio inferiore a 0,1g per 100g e ha reso obbligatoria la seguente dicitura all’interno dell’etichetta del Parmigiano Reggiano: “l’assenza di Lattosio è conseguenza naturale del tipico processo di ottenimento del Parmigiano Reggiano. Contiene galattosio in quantità inferiore a 0,1mg/100g”.

Il Parmigiano Reggiano può dunque essere consumato anche da persone che presentano intolleranze a questo zucchero complesso.

Il lattosio viene meno poiché dopo la caseificazione avviene lo sviluppo di lattobacilli che fermentano la totalità del lattosio presente in circa 8 ore.

FALSO MITO 2: Il Parmigiano Reggiano è vietato nelle diete

Vale il detto “poco ma di qualità” quando si parla di formaggio, poiché è vero che contiene molti grassi saturi, ma possiede un elevato contenuto proteico ad alto valore biologico e un’importante quota di sali minerali preziosi come fosforo, calcio, magnesio e vitamina D – micro elementi che possiamo definire “amici delle ossa” – vitamina A, B2, B6 e B12 fondamentali per il sostentamento metabolico di bambini, anziani e donne in gravidanza. Protegge e sostiene il sistema immunitario grazie alla squadra di vitamina B, zinco e ferro che partecipano alla produzione di anticorpi e linfociti.

30g al giorno abbinati a un frutto di stagione possono costituire una merenda sana per bambini e ragazzi, sportivi, donne in gravidanza e menopausa, e anziani.

FALSO MITO 3: Meglio i formaggi light in una dieta rispetto al Parmigiano Reggiano

“Non prendiamo lucciole per lanterne”, scegliete bene e in modo consapevole senza farvi ingannare dalle etichette e dai claims nutrizionali come “light”, “senza grassi”, “proteico” ecc.

Sono sempre più presenti questi prodotti nei frigoriferi dei supermercati, complici le diete del momento e i food-trend. Il capro espiatorio è sempre il grasso e il prodotto viene artefatto denaturandolo: viene addizionato di additivi e le sue caratteristiche tipiche vengono a mancare. Senza contare l’aspetto psicologico: siamo fortemente tentati a mangiarne il doppio: tanto è light!

Qualità e quantità devono sempre andare alla stessa velocità, quindi evviva i nostri 30g di Parmigiano Reggiano al giorno!

FALSO MITO 4: Sei intollerante al glutine, non puoi mangiare Parmigiano Reggiano

Non vi è alcuna correlazione tra glutine e formaggi – se intendiamo quelli “veri” realizzati esclusivamente con latte, sale e caglio.

Il problema può sussistere quando si scelgono prodotti lattiero-caseari frutto della tecnologia alimentare/industriale, come ad esempio i prodotti light citati prima che possono contenere amido e gelificanti, inseriti in sostituzione del grasso per ottenere un’emulsione di caratteristiche simili a quelli “tradizionali”.

Lo stesso vale per i formaggi fusi, le fette, i formaggi spalmabili, per il loro contenuto notevole di addensanti, gelificanti, sale e aromi. Un occhio di riguardo anche agli yogurt alla frutta, al “gusto di…”, “crema di…”, che possono contenere purea e semilavorati di frutta, preparazioni dolciarie, aromi e addensanti che vanno a incrementare la consistenza cremosa, tipica di quel determinato prodotto. Queste preparazioni potrebbero contenere tracce di glutine per via della lunga lista di ingredienti e quindi della probabile promiscuità.

È ancora più importante e doveroso imparare a leggere bene l’etichetta nutrizionale e gli ingredienti.

FALSO MITO 5: I formaggi devono essere bianchi all’interno

Ok, il latte è bianco e la nostra convinzione è che sia sinonimo di qualità; in realtà ci stiamo sbagliando. Il colore non è indice di un prodotto migliore.

Il colore varia al variare dell’animale, della stagione e del cibo; infatti, gli animali durante la stagione calda mangiano erba fresca, che è ricca di beta carotene, un pigmento che conferisce un colore giallastro al latte ed è maggiormente ricco di vitamine A, E e D e un aroma tipico e genuino.

FALSO MITO 6: Il Parmigiano Reggiano viene addizionato di glutammato monosodico

Il glutammato monosodico è il sale sodico dell’acido glutammico, un aminoacido non essenziale che viene prodotto ogni giorno anche dal nostro organismo, in cui svolge il ruolo di neurotrasmettitore.

Questa molecola è naturalmente presente in diversi alimenti, come il latte e i suoi derivati, nelle carni (pollame, suino, manzo) e in alcune verdure, come pomodori e funghi, ma anche nei piselli, nelle cipolle, nel mais, negli asparagi, nelle verze e negli spinaci.

Il glutammato è conosciuto da tutti come il “quinto sapore” o gusto “umami”; ha un sapore caratteristico e genera in bocca una sensazione di sapidità tipica.

Viene notevolmente utilizzato nella cucina orientale, tanto da andare a sostituire quasi totalmente il comune sale – cloruro di sodio (NaCl) –  nelle pietanze.

In occidente è ancora messo all’angolo il suo uso e viene ancora visto come qualcosa di nocivo, una sorta di “schifezza” da bandire completamente. Questa diatriba ha una sua nascita che coincide con la produzione dei dadi da cucina (sia vegetale che di carne) di cui il glutammato è un ingrediente.

L’Unione Europea, infatti, lo ha classificato come additivo alimentare (E621) sicuro e ha fissato in 10 grammi per ogni kg di prodotto l’uso massimo consentito (Reg. U.E. n.1129/2011).

Quindi, è dannoso oppure no?

Il glutammato, naturale o di sintesi, contiene circa 1/3 del quantitativo di sodio contenuto nel classico sale che usiamo a casa. Ciò tradotto significa che se usiamo glutammato riduciamo l’assunzione di sodio avendo quindi una maggiore sapidità alle pietanze; quindi abbiamo due vantaggi in uno.

Il Parmigiano Reggiano è uno dei cibi più ricchi naturalmente di glutammato; circa 1,6g per 100g di prodotto. È naturale poiché, come già citato sopra, il latte ne è ricco e, durante i processi di maturazione/stagionatura, aumenta con l’aumentare dei mesi. Possiamo quindi affermare che il Parmigiano Reggiano non viene addizionato di alcun additivo alimentare, glutammato compreso, come invece avviene per i classici dadi da cucina.

Concludendo, ricordiamo che è bene imparare a fare una spesa intelligente e trasformarci un po’ in “detective”, selezionando scrupolosamente la qualità che andrà sempre combinata con le dosi corrette per una sana e bilanciata alimentazione.

Illustrazione © Victor Cavazzoni