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I luoghi dell’educare: il nido d’infanzia Iride di Guastalla

L’ambiente e le sue caratteristiche naturali sono elementi che rendono unico il Parmigiano Reggiano. In questo editoriale celebriamo l’importanza dello spazio circostante raccontando una realtà diversa ma unica nel suo genere: nido d’infanzia Iride a Guastalla (RE).

L’ambiente, nella nostra filosofia pedagogica, che muove dalle intuizioni di Loris Malaguzzi e del conseguente Reggio Emilia Approach, rappresenta un elemento fondamentale ed essenziale del progetto educativo, in quanto l’educazione non si costruisce nel vuoto, ma in qualche spazio, per cui il valore degli spazi dei nostri servizi educativi è sostanziale.   

Parliamo di spazio come luogo accogliente, stimolante, ricco, propositivo; una presenza vitale, un contenitore, ma soprattutto un contenuto che viene definito come il «Terzo Educatore» insieme a bambine, bambini e adulti (insegnanti e genitori), e assume una forte valenza educativa.

La progettazione e realizzazione del Nido d’infanzia Iride è nata dall’esigenza, del Comune di Guastalla, di costruire una nuova struttura nel luogo in cui vi era il nido “Rondine”, gravemente danneggiato dagli eventi sismici che hanno colpito i territori dell’Emilia Romagna nel maggio 2012, e realizzare un edificio ecosostenibile che potesse riunire in un solo fabbricato due ex nidi d’infanzia (nido “Pollicino” e “Rondine”) presenti storicamente sul territorio comunale.

La presenza sul lotto di numerosi alberi ad alto e medio fusto ha immediatamente suggerito l’idea di un edificio che dialogasse con il suo contorno. Ecco che la moltiplicazione degli elementi verticali in legno, che caratterizzano l’impianto della struttura, riprende il motivo dei filari degli alberi e dei tracciati dei campi coltivati, conferendo all’insieme leggerezza e scardinando la tipica immagine di nido come volume compatto e monolitico.  

Foto courtesty of Asilo nido iride

L’edilizia ecosostenibile è una metodologia per affrontare strategicamente il tema dell’adattamento ai mutamenti climatici, coniugando lo sviluppo socio-economico con la tutela dell’ambiente.   

Sul piano della sostenibilità il legno appare uno dei migliori materiali da costruzione, in quanto è rinnovabile e riciclabile. Nell’intero edificio sono state adottate soluzioni mirate a soddisfare le esigenze funzionali in termini di benessere ambientale, integrazione con il contesto, risparmio energetico, sviluppo sostenibile, manutenzione e gestione. Ciò ha permesso di realizzare un complesso ad alto contenuto tecnologico, sicuro, confortevole ed efficiente dal punto di vista energetico. 

«L’educazione è un fatto di interazioni complesse, molte delle quali si verificano solo se anche l’ambiente vi partecipa», scriveva Loris Malaguzzi.   

L’ambiente, quindi, inteso come spazio fisico, architettonico, ma anche relazionale, rappresenta un aspetto fondamentale dell’approccio pedagogico nel nostro nido. È capace di stimolare, suggerire, accrescere gli apprendimenti. Lo spazio dove sperimentare nuove conoscenze, incontri, reciprocità. Probabilmente, il primo luogo di educazione civile che incontrano i bambini. È su questi principi che si è costruito il disegno progettuale del Nido Iride, con peculiarità che lo distinguono da altre strutture per l’infanzia presenti a livello locale e nazionale.

Nel nuovo nido gli spazi non sono casuali e diventano una risorsa – o una sfida – per sperimentare nuove conoscenze. Come, ad esempio, le trasparenze che contraddistinguono e percorrono tutti gli ambienti, sottolineando la fitta rete di relazioni che animano il dentro e il fuori, dove anche il paesaggio entra all’interno attraverso grandi pareti di vetro. Queste stesse vetrate sostituiscono i muri divisori interni, consentendo un dialogo costante tra una sezione e l’altra, tra il dentro e il fuori.

Il Nido d’Infanzia Iride è stato aperto il 7 settembre ed inaugurato il 19 settembre del 2015.   

Foto courtesty of Asilo nido iride

Partendo dal nostro approccio pedagogico abbiamo scelto di non assegnare un nome al nuovo nido in occasione dell’apertura, ma di prenderci tempo per sostare sui valori e sulla responsabilità che porta con sé l’attribuzione di un nome per un servizio pubblico per la prima infanzia.  

Sostare per iniziare sempre dalle bambine e dai bambini, sostare per pensare, riflettere e approfondire, ma sostare anche per costruire un percorso di significati condivisi tra i bambini, le educatrici, le famiglie, gli amministratori e la cittadinanza.

Questa premessa ci ha portate, come gruppo di lavoro, a osservare, ascoltare e documentare come le bambine ed i bambini hanno abitato e vissuto, fin dai primi giorni di frequenza, gli spazi del nuovo nido d’infanzia; nido che si pone come luogo speciale, architettonicamente al di là degli schemi ordinari dei servizi educativi del territorio. Nido che presenta una prevalenza di materiali quali legno e vetro che gli conferiscono da un lato un’immagine imponente e maestosa, dall’altro uno stare al suo interno sereno, pacato e disteso.

Abitare e vivere un luogo nuovo e sconosciuto porta alla costruzione di relazioni e dinamiche abitative che comportano tempi di scoperta, attesa, slanci esperienziali, pause, ritorni, empatie, timori, incertezze e curiosità; tutti aspetti che legittimano l’incontro tra abitanti in un contesto nuovo che deve essere conosciuto per favorire il senso di appartenenza a quel luogo. La struttura del nuovo nido d’infanzia è stata abitata, dalle bambine e dai bambini fin dai primi giorni di frequenza, con particolare entusiasmo e benessere dello stare all’interno dello spazio.

Fin da subito i bambini hanno mostrato capacità di ambientamento molto forti, disinvoltura nell’avvicinare l’architettura nel suo complesso, curiosità e desiderio di sperimentare, senza limiti, luoghi, spazi, arredi e peculiarità compositive dell’edificio (come gli scivoli presenti in tutte le sezioni e le molteplici vetrate che caratterizzano il nido).   

La ricognizione delle osservazioni delle educatrici delle varie sezioni si è focalizzata proprio sulle vetrate che compongono il nido; esse, infatti, sono state incontrate dai bambini in differenti modi, attraverso differenti punti di vista e sguardi che hanno portato il gruppo di lavoro a soffermarsi sul concetto di trasparenza.

Foto courtesty of Asilo nido iride

La trasparenza si pone come peculiarità che caratterizza fortemente il nostro nido; essa rappresenta un’unicità sul territorio e si connota come ridondanza all’interno della struttura.   

Ogni sezione, infatti, presenta su tutti i lati le trasparenze; è proprio dal concetto di trasparenza che è nata, successivamente, la scelta del nome Iride per il nido. Nome identitario, che connota e restituisce senso, valore e riconoscibilità a questa peculiare quanto oramai familiare struttura educativa.  

L’ambiente che circonda e stimola i bambini e le bambine, dunque, è stato visto e considerato da più prospettive. L’ambiente è educativo perché sostiene ed accresce la conoscenza; è promotore di scoperte sempre nuove e in divenire perché non pensato dagli adulti in modo chiuso e strutturato.   

Lo spazio non è solo a misura dei bambini, o realizzato per i bambini, ma è proprio dei bambini, è loro, perché lo costruiscono, lo modificano, lo vivono, lo abitano connotandolo e conferendogli identità. 

L’ambiente, infatti, è interpretato anche attraverso le sue caratteristiche affettive, come spazio relazionale in grado di sostenere dialoghi, interazioni e connessioni. Inoltre, riflette la cultura di chi lo abita e, al tempo stesso, costruisce una propria cultura. Per questo risulta fondamentale dare identità agli spazi che si vivono attraverso accoglienza – personalizzazione – assenza di anonimato per tendere al benessere dato dal legame tra la persona che vive l’ambiente e l’ambiente stesso. Infatti, la mancanza di relazione tra le cose e le persone che vivono in un ambiente è mancanza di ecologia. Gli spazi al nido sono progettati in funzione del benessere di chi li abita e in base alla loro capacità di sostenere i processi di apprendimento e di costruzione culturale.

Le bambine e i bambini, inoltre, guidati dalla curiosità innata di dare un senso al mondo, si pongono continuamente nuovi focus, nuovi territori di ricerca e di esplorazione. Questo deve essere tenuto presente quando si progettano gli spazi, gli ambienti, le situazioni, che sono “strumenti e contesti indiretti” che consentono l’esplorazione stessa; indiretti, ma non decontestualizzati, collocati, cioè, in situazioni e insiemi di significato.

Illustrazione © Isabella Conti

Le forme della biodiversità

Quando addentiamo un pezzo di Parmigiano Reggiano «siamo travolti da un sapore che amiamo e che vogliamo ritrovare di continuo». E proprio quel sapore è «il risultato di una grande storia, ma non solo».

«Mastichiamo con soddisfazione un pezzo incredibile di biodiversità: c’è il campo, da cui proviene il foraggio in cui hanno vissuto centinaia di specie di piante e di animali; godiamo del latte di antiche razze, come la bianca modenese, la frisona, la bruna e la vacca rossa reggiana, che è sul territorio da oltre mille anni, ma che avrebbe rischiato l’estinzione. E ci stiamo facendo del bene perché consumiamo un alimento probiotico per natura».

Parole e riflessioni di David Bianco, apprezzato esperto di biodiversità e conservazione della natura, responsabile dell’Area Ambiente per l’Ente di gestione per i Parchi e la Biodiversità dell’Emilia Orientale, che ha espresso spesso il suo entusiasmo nei confronti del Parmigiano Reggiano, come prodotto e come filiera rispettosa del territorio e degli animali.

Con David Bianco abbiamo affrontato un viaggio intenso nel tempo, nella geografia, nei campi, nelle stalle, nel latte e infine nella forma del Parmigiano Reggiano.

Il Parmigiano Reggiano nella storia e nella geografia dell’Emilia-Romagna

 «Il Parmigiano Reggiano si produce esclusivamente in un territorio che presenta condizioni ritenute peculiari: le province di Parma, Reggio Emilia, Modena, la sponda sinistra del fiume Reno nel Bolognese e la sponda destra del Po nel Mantovano», spiega Bianco, «in parte perché quest’area ha delle caratteristiche ecologiche e agricole speciali. E poi perché ci sono delle ragioni storiche e politiche».

Partiamo proprio dalla storia. Che cosa è successo tra Parma, Reggio Emilia e dintorni?
Oggi noi ci muoviamo con facilità e rapidamente da una città all’altra, viviamo in un mondo globalizzato. Un tempo non era così: ci si muoveva lentamente, le barriere geografiche e i limiti politici tra amministrazioni diverse condizionavano gli scambi e i passaggi in ogni territorio. 

L’economia agricola era il risultato di processi locali in cui le caratteristiche ambientali erano intimamente connesse a dinamiche produttive e commerciali.

Nel caso di questo straordinario formaggio, pare che sia stata molto importante la sapiente mano dei monaci, che hanno fatto fare passi da gigante all’agricoltura del territorio. I Benedettini, per esempio, hanno bonificato i terreni, hanno messo a punto modi di coltivare, di realizzare e tenere le stalle, di fare i vari formaggi e anche il parmigiano, la cui prima caratteristica è dunque quella di essere intimamente radicato al suo territorio di origine. 

Un altro elemento che mi piace ricordare è la presenza di una speciale razza bovina, la vacca rossa reggiana, che pare sia stata portata in Emilia durante le invasioni barbariche. In quell’epoca i bovini erano utilizzati per il lavoro e il latte era un prodotto in più. Ogni microregione aveva le sue razze adatte al contesto; molto nota è anche la vacca modenese, dal mantello bianco, particolarmente adatta alla produzione di latte da Parmigiano Reggiano e da anni presidio Slow food.

Per arrivare ai nostri tempi, come si è evoluta la situazione che si delineava già dal Medioevo?
Con le tradizioni che si sono consolidate, arriviamo al secondo dopoguerra, in cui le aziende che producevano il Parmigiano Reggiano erano più piccole di oggi e ben riconoscibili dal fatto di avere più tipologie di produzioni. A seconda delle zone era evidente un paesaggio assai vario per la rotazione delle colture: piantagioni di erba medica che venivano rinnovate dopo qualche anno, prati da fieno che si alternavano a seminati e altri elementi come filari di viti sostenute su aceri campestri o altre piante arboree; filari di gelsi e siepi campestri. Il paesaggio agrario era molto vario e ricco di biodiversità.

Dalla storia alla natura. I cicli chiusi e la biodiversità nelle aziende del Parmigiano Reggiano

«Le aziende chiudevano tutti i cicli: tutto il cibo proveniva dalla zona dell’azienda e anche tutto lo scarto contribuiva a produrre il letame».

Qual è l’importanza del letame in questa storia?
Il letame occupa uno spazio significativo per l’agricoltura: è una specie di meraviglia della biodiversità, a cui dobbiamo la fertilità dei terreni. Vi si ritrova la paglia, un prezioso scarto ottenuto dai campi di grano che veniva usato come lettiera nelle stalle e che incorporava le deiezioni degli animali. Posto nel letamaio, cominciava il silenzioso lavoro di batteri, funghi e lombrichi, producendo nel tempo un ottimo concime.

In questo senso si parla di una realtà che ha compreso tutte le potenzialità e i benefici della natura.
Esatto, ci si ritrova in un paesaggio di aziende agricole che hanno dei campi per produrre foraggio e altri per produrre grano, barbabietole e prodotti che consentano l’alternanza e la prosperità dei terreni. 

Visto dall’alto, si presenta tutto come un grande patchwork, con inserti di colore diverso che attirano lo sguardo. Una bella campagna, non certo monotona.

Se poi inforchiamo gli occhiali del naturalista possiamo fare tante scoperte. «In un campo di erba medica o in un seminativo per l’alternanza dei pascoli ci sono tante specie vegetali e questo è più facile riconoscerlo. La flora ricca voluta dall’uomo si mescola con altre specie vegetali spontanee e attira tanti altri ‘attori’ misconosciuti che, a ben guardare, potrebbero sedere tranquillamente al tavolo dello staff del Parmigiano Reggiano».

L’agroecosistema perfetto del Parmigiano Reggiano

Di che tipologia di “attori”, in termini di biodiversità, stiamo parlando?
Abbiamo molte farfalle, che nella prima fase della vita sono state bruchi, il grillo, la cavalletta, il bombo e molti altri insetti impollinatori, che altrove sono in grande crisi, ma nelle aree dove si produce il Parmigiano Reggiano e si mantengono campi di fieno sono ancora abbondanti. Questi insetti sono a loro volta mangiati da altri animali, da uccelli come la rondine, che magari fa il nido nella stalla, o il pipistrello, il balestruccio, il falco grillaio. Se troviamo delle siepi, poi, è possibile vedere il riccio e il rospo. Un tripudio di biodiversità importantissima, quella vegetale, che costituirà il cibo della mucca, influendo profondamente sui sapori del latte. Come sanno benissimo gli esperti, non è indifferente alla vacca mangiare piante diverse, perché condiziona il latte e determina il sapore del formaggio.

Le terre del Consorzio del Parmigiano Reggiano possiedono un eccezionale equilibrio ecologico che dipende dall’agroecosistema in cui avviene per tradizione l’allevamento e la produzione.

Foto di © David Bianco

Questo significa che da una parte c’è attenzione alle coltivazioni volute dall’uomo e, dall’altra, c’è anche uno sviluppo spontaneo di piante e altri organismi: un mix che può dare risultati eccellenti. Se poi si applica questo concetto al pascolo di montagna, si ottiene un grande prodotto, con una straordinaria natura.

Il connubio tra il campo e la stalla

«Una cosa importantissima», spiega David Bianco, «è che una volta ogni podere aveva una stalla e magari anche dal numero di bovine si capiva quanto era grande o redditizio il terreno. Prima, venti vacche significavano tanto, ed era fondamentale anche un fienile per alimentare gli animali d’inverno. Nel paesaggio tradizionale del Parmigiano Reggiano esiste una notevole varietà anche dal punto di vista architettonico: basta osservare le stalle, le case coloniche e il contesto circostante, tutto funzionale a una economia agraria circolare».

E oggi, come sono le stalle?
Sicuramente più grandi, per poter accogliere oltre un centinaio di bovine. Anche se architettonicamente meno belle, c’è più attenzione a lasciare spazi per muoversi a questi animali, e spesso gli ambienti sono arricchiti di elementi per il loro benessere, come grandi spazzole.

E in queste grandi stalle, oltre alle vacche, abitano anche altri animali.
Sì, possiamo riferirci alla tradizionale presenza di rondini e balestrucci, che possono trovare ambienti adatti per i loro nidi a coppa, fatti con fango e paglia. Sono utili perché mangiano i mosconi, per esempio. La loro presenza è fondamentale come nei campi e rappresenta una specie di congiunzione con la natura esterna. Suggerisco di favorire la loro presenza: purtroppo non tutti apprezzano, per via della caduta delle deiezioni: basta posizionare gli appositi nidi artificiali negli spazi più opportuni, oppure porre sotto al nido delle tavolette di legno che raccolgano gli scarti dell’allevamento dei piccoli. Sarebbe una specie di riconoscimento per il loro indefesso lavoro.

Nella forma del Parmigiano Reggiano, “una forma felice di biodiversità”

«L’ultima fantastica biodiversità che dobbiamo conoscere sta nel latte che viene prodotto da bovine trattate con attenzione in un agroecosistema così equilibrato.
Il Parmigiano Reggiano è fatto con il latte crudo. La sua carica microbica naturale deriva direttamente dal latte fresco.

La carica microbica è l’ultima parte dello “staff” che dovremmo immaginare nella “stanza dei bottoni” del Parmigiano Reggiano. Questa flora microbica evolve continuamente e questo è decisivo per il sapore del prodotto finale. 

Nelle diverse fasi, le varie popolazioni microbiologiche che vivono nel formaggio in maturazione cambiano, sfruttano certe sostanze, poi quello che residua da queste trasformazioni sarà utile per altri gruppi che vengono dopo e così via, fino alla parte finale della stagionatura».

«In questo modo si esaltano i profumi e certe caratteristiche che si avranno solo nelle ultime fasi di quello che definirei un passaggio evolutivo verso la maturazione finale. Se si produce il Parmigiano Reggiano oggi, infatti, lo si potrà assaggiare freschissimo tra 12 o 20 mesi, ma sarà meglio aspettare il 2025-2026. Questo è il risultato di un processo biologico ed ecologico in cui la parte più complicata sta proprio nell’assicurare a questo straordinario impasto fatto da latte scaldato, caglio e batteri, quel mix felice che porta ad avere un prodotto molto buono e quindi la biodiversità del latte che assomiglia un po’ al nostro microbiota intestinale e che ci fa anche tanto bene».

Torniamo al concetto di ecosistema: una forma in maturazione di Parmigiano Reggiano è come un piccolo ecosistema: «se noi guardassimo al microscopio il suo interno e la sua superficie, vedremmo le popolazioni cambiare spesso il loro ambiente, perché il substrato su cui loro vivono si trasforma, per rendere il formaggio come a noi piace, con quel gusto inconfondibile».

«Quella del Parmigiano Reggiano è una storia che unisce tante altre storie e tanti altri mondi», conclude David Bianco, «che dimostra come è possibile realizzare un prodotto di qualità in cui gli ingredienti possono essere tasselli di un mosaico e possono essere presi solo in un piccolo territorio, in un mondo che ha la necessità di andare più piano e amare di più quello che ha intorno».

Foto di © Stefano Marzoli

Un assaggio di storia della cucina

Il nome “Parmigiano Reggiano” è stato ufficializzato per la prima volta nel 1938, ma la storia di questa tipologia di formaggio risale già al medioevo. In questo editoriale di Agnese Portincasa ripercorriamo una delle storie che il formaggio “parmigiano” ha lasciato dietro di sé e seguiamo la sua evoluzione in cucina attraverso lo studio dei ricettari italiani tra Settecento e Ottocento.

In questi ultimi vent’anni ho letto una quantità inverosimile di ricette: raramente per cucinare qualcosa. E del resto questa è la grande ambiguità di chi mi sente raccontare che mi occupo di storia del cibo, della cucina, della gastronomia. “Sarai una cuoca bravissima”, affermano. E io rispondo che no, non è detto, e il solo pensarlo è un poco svilente. Certo ho alcuni cavalli di battaglia, ma non sono una che a Masterchef passerebbe le selezioni. Non ho un blog di cucina, né un profilo social dedicato, né siti tematici a mio nome. Non colleziono ricettari o menù, non raccolgo nulla che abbia a che fare con la cucina e la precettistica. Semplicemente: io la cucina la studio, e lo faccio confrontandomi con l’esigenza primaria data dalla mia formazione di storica che mi obbliga a utilizzare i documenti. 

Il problema è che la cucina è stata per secoli essenzialmente una pratica e ha lasciato dietro di sé rare tracce. 

Oggi, con l’avvento dei social, le cose sono decisamente cambiate: il cibo, il suo consumo e la sua preparazione sembrano essere diventate una delle nostre maggiori pre-occupazioni quotidiane e lasciano molte tracce; ci sarebbe da invidiare gli storici del futuro, e tuttavia andrebbe considerato come anche l’ipertrofia possa avere risultati simili alla scarsità. 

Ma prima della fase in cui siamo immersi la cucina era per lo più il campo di un nebbioso silenzio, difficile da penetrare: memore della lezione di Massimo Montanari, Alberto De Bernardi, Alberto Capatti, una ventina di anni fa mi sono messa a studiare le specifiche tracce lasciate nei ricettari italiani pubblicati fra la fine del Settecento e gli anni Ottanta del Novecento, con qualche incursione nella proliferazione editoriale del presente. 

Ho passato molto tempo ad analizzarli, sfogliarli, confrontarli per usarli come documenti per la storia. O meglio per rischiarare la nebbia e percorrere qualche sentiero utile a capire cos’è stata la cucina nel territorio italiano, quali ingredienti e strumenti l’hanno accompagnata, quali gusti, desideri, valori e mentalità sono passati attraverso i libri che qualche editore, nel tempo, ha deciso di pubblicare per lasciare un segno di valore collettivo, di significato sociale. Qualche anno fa il mio lavoro di dottorato è diventato un libro: Scrivere di gusto.1

Proprio studiando le ricette che mi sarebbero servite come fonte per la storia contemporanea ho incontrato il parmigiano tante volte, prima ancora che diventasse “il Parmigiano Reggiano”. 

Del resto era inevitabile: essendomi occupata di primi piatti, leggevo spesso, in conclusione dei testi che scorrevo, di come occorresse una spolverata di formaggio grattugiato per l’ottima riuscita della ricetta. E, nella precettistica da me analizzata, le notazioni sull’utilizzo di parmigiano si trovano già nei ricettari municipali di fine Settecento. 

E allora cominciamo da lì, con l’intento di proporre una lettura inedita che si fermerà appena prima di Pellegrino Artusi de La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene (1891). Insomma appena prima di quello che i più considerano l’esordio della cucina nazionale italiana. 

Ne Il cuoco piemontese perfezionato a Parigi del 1766 (traduzione compilativa di un’opera francese di grande successo che si intitolava La cuisiniére bourgeoise), le ricette di primi piatti sono soltanto 22 a fronte di un complessivo di ben 862, ma il formaggio parmigiano compare in tutte le preparazioni, soprattutto quando la vivanda prevede un passaggio finale in forno, prima di essere servita. Più caratterizzata è la scelta di Antonio Nebbia, autore de Il Cuoco maceratese (la cui prima edizione è datata 1781), che non tralascia di specificare come ogniqualvolta si faccia menzione al parmigiano si debba intendere che sia grattugiato, e nel secondo volume aggiunge: 

Nel decorso di questa operetta, trattando io di far zuppe o altri piatti di magro, troverà chi legge che mi servo di butiro o formaggio parmigiano. Avverto però che, mancando quelli due generi, si può servire dell’olio dolce in vece del butiro e del formaggio nostrale dolce in luogo del parmigiano, e se saranno giorni di grasso, invece dell’olio e del burro si può servire dello strutto buono, e se è vigilia dell’olio, solo olio dolce.

Alla fine del Settecento, nell’Italia centrale dove questo ricettario circolava per lo più, si rimanda a una situazione che doveva essere consueta e nella quale sono contemplati cuochi che, non trovando disponibilità di una specifica materia prima, sono invitati a utilizzare un prodotto del territorio genericamente dolce – e chissà quanti formaggi di pecora saranno finiti a svolgere tale ruolo sostitutivo – capace di garantire risultati simili a un originale che ammette, già nel precetto, una possibile variabilità. 

Verrebbe quasi da affermare – se non risultasse profondamente antistorico – che la necessità/volontà di trovare un modo per sostituire i prodotti di eccellenza di alcune tipicità territoriali che oggi sono al centro del fenomeno dell’Italian sounding, fosse una questione dirimente assai prima che i flussi migratori degli Italiani all’estero e poi l’avvento del mercato globalizzato facessero circolare nel mondo i nostri prodotti-bandiera. Certo a quell’epoca le cose stavano diversamente da oggi e uno dei problemi per i cuochi professionali era la scarsa capillarità di un mercato nel quale prevalevano ancora il contado e la prossimità, e dove una cosa era avere sentito nominare o assaggiato il parmigiano, un’altra cosa era riuscire ad averne disponibilità, soprattutto fuori dai mercati urbani. 

Ricordo che questa questione era una delle più complesse da fare comprendere ai miei studenti alla Facoltà di Economia dell’Università di Parma, dove per quattro anni ho insegnato Storia del cibo e dell’alimentazione. Commetteremmo un errore storico grossolano se volessimo identificare l’eccellenza di un prodotto solo come il risultato di una lunga storia che si origina in un passato tanto remoto quanto le sue attestazioni d’uso o la rilevanza nei ricettari professionali sarebbero in grado di accertare. 

Non esiste, insomma, una storia unidirezionale e lineare che, identificato l’inizio di un processo, dà senso compiuto a ciò che mettiamo a valore nel tempo presente. 

La lettura dei ricettari rimarca semmai altre questioni cui avvicinarci con curiosità. Già alla lettura di poche battute ci si rende conto di come i libri di cucina alla fine del Settecento siano ancora opere complesse, in più volumi e/o con centinaia di ricette, pensate per gli addetti ai lavori. Certo la speranza delle case editrici si stava lentamente aprendo alla possibilità di attirare ed educare un pubblico borghese, più vasto di quello dei tecnici. Tuttavia in Italia, almeno fino ad Artusi, questa possibilità resterà solo sulla carta. Si tratta, inoltre, di opere che danno ancora grande spazio alla cucina di magro e di grasso: una distinzione che si era resa necessaria dai precetti del cristianesimo, già connotanti nelle scelte alimentari medievali, e che è ancora rilevante in questa fase storica, tanto da spingere autori e compilatori a conservare separate sezioni per la descrizione dell’una e dell’altra. 

Sempre alla fine del Settecento nelle opere enciclopediche Il cuoco galante (Vincenzo Corrado, 1778) e L’Apicio moderno (Francesco Leonardi, 1790) il parmigiano è un condimento versatile utilizzato per insaporire svariate vivande prima del passaggio in forno o per gli impasti (con la mollica, le carni, i formaggi morbidi). Con questi due autori aumentano i riferimenti alle preparazioni dette alla parmigiana, in parmigiano o al parmigiano: si tratta di un dettaglio significativo perché ci troviamo di fronte a due noti cuochi professionisti che firmano a loro nome svariati trattati gastronomici. 

47 ricette (28 in Corrado, 19 in Leonardi) sono identificate grazie a un gastrotoponimo (per intenderci, quando nel nome della ricetta c’è un chiaro riferimento a un luogo, a un territorio) ancora oggi molto diffuso nelle cucine regionali che sono base e sostanza dell’idea stessa di cucina italiana. Entrando nel dettaglio dei singoli precetti ci si rende conto di come il parmigiano avesse spesso la funzione di insaporire carni non pregiate per stemperarne il sapore forte. Già nel corso dell’Ottocento, e poi con maggior forza nel corso del Novecento, il sempre minor uso di frattaglie nelle consuetudini di una cucina di area italiana farà lentamente diradare questo binomio carne/parmigiano che resisterà connotante nelle preparazioni con verdure. 

Addentrandosi nell’Ottocento due ricettari meritano di essere citati per la valorizzazione di cucine locali urbane destinate a diventare veri e propri riferimenti della tradizione regionale italiana: la cucina napoletana di Ippolito Cavalcanti nella Cucina teorico-pratica (1837) e quella genovese di Giovanni Battista Ratto ne La cuciniera genovese (qui con qualche difficoltà a isolare l’anno della prima edizione, ma siamo fra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta dell’Ottocento). 

In una ricetta di maccheroni, Cavalcanti specifica che la pasta deve essere cotta vierd vierd (leggi al dente) e condita con cacio vecchio o provola. Qui non è dato sapere che tipo di formaggio sia quel cacio, probabilmente perché nell’Italia meridionale – ancora borbonica – il termine ha una genericità riferita a usi gergali e dialettali molto diffusi anche in Italia centrale e negli usi linguistici toscani (in svariati ricettari ottocenteschi si fa riferimento a pasta incaciata o incasciata). 

Ma che Cavalcanti usasse il parmigiano è evidente nelle prescrizioni in cui il cacio è identificato il solito formaggio parmigiano, con un riferimento a una consuetudine invalsa nell’uso. 

Anche più a nord, negli usi liguri di Ratto, il formaggio grattugiato è spesso la finitura dei primi piatti. Difficilmente ne è indicata la qualità o la provenienza, ma nel dizionario genovese-italiano che correda l’opera è presente la voce Piaxentin, tradotta con «cacio parmigiano o lodigiano». Però nella ricetta del Pesto l’abbinamento di formaggio sardo e formaggio parmigiano è già ratificata. 

Accade diversamente nella ricetta delle Lasagne alle genovese dove è previsto l’utilizzo di un cacio che può essere romano, o di Olanda, o di Cagliari, secondo il gusto. In questo caso il parmigiano pare essere l’unico formaggio non contemplato: i riferimenti a Roma e alla Sardegna sembrano identificare con chiarezza formaggi di pecora, più sapidi e pungenti, mentre la citazione dell’unico formaggio vaccino della lista – probabilmente il Leida invecchiato come spesso ricorrente – conferma che il risultato finale si deve contraddistinguere per una nota piccante. 

Ma forse la cosa più interessante in questo precetto si trova nel passaggio in cui si suggerisce una scelta “secondo il gusto” che elegge la preferenza personale/famigliare/territoriale come una scelta di valore. In un libro che insegna come fare qualcosa sembra una contraddizione, eppure non lo è, o almeno non lo era. Alcuni ricettari ottocenteschi – non è un caso che si tratti di pubblicazioni che codificano usi regionali, più liberi di spaziare nella variabilità propria del territorio – accolgono con leggerezza il fatto che si possa cucinare con quello che si preferisce o con quello che c’è. 

È una considerazione che potrebbe aiutare a interpretare non solo gli usi del passato, ma anche quelli della cucina di un mondo iperconnesso e culinariamente contaminato come quella contemporanea. 

Verrebbe da pensare che forse il nostro sguardo si stia orientando verso un gusto che fatica sempre di più a stare dentro precetti normativi costruiti su schemi professionali e/o delle cucine nazionali/territoriali. 

Fare quello che si preferisce con quello che c’è in fondo non è altro che la resistenza che la pratica di cucina oppone, almeno da quando si può parlare di cucina borghese, ai trattati che tentano di codificarla entro uno schema costrittivo. Trattati che restano, tuttavia, strumenti preziosi, perché è fra le loro pagine che continua ad avvenire l’incontro/scontro fra usi della consuetudine e spinte all’innovazione.

Illustrazione © Camilla Pintonato

Nota [1] Opera riletta per scrivere questo pezzo e che considero come un bilancio delle mie ricerche, al quale rimando anche per il ricco corredo di note e per la bibliografia.

Lipu e la salvaguardia degli uccelli e della biodiversità

La storia di LIPU e le sfide del prossimo decennio per la salvaguardia del capitale naturale, con l’esempio pionieristico della cooperazione con il Consorzio del Parmigiano Reggiano.

«Perché tacciono le voci della primavera in innumerevoli contrade d’America?».

Con una domanda inquietante, la biologa e zoologa statunitense Rachel Carson cominciava il suo trattato più famoso, “Primavera silenziosa”, nel 1962.
In un solo colpo, la scienziata lasciava la sua impronta nella coscienza profonda degli Usa che andavano verso il ’68 (quello che tra tante cose ha impresso nell’immaginario collettivo l’idea un po’ hippy e naïf di una nuova connessione tra uomo e natura); ne rendeva più concreta l’essenza, però, cambiando per sempre l’approccio all’agricoltura che metteva finalmente al bando fitofarmaci tossici come il Ddt. E avviava una seria riflessione sul senso dell’ecologia e delle azioni concrete che si potevano realizzare perché le attività umane non nuocessero mortalmente all’uomo stesso.

La Lipu e i suoi pilastri
Tre anni dopo l’uscita del saggio di Carson, nella primavera del 1965, il naturalista, etologo e filosofo Giorgio Punzo si appresta a leggere il giornale sul terrazzo di casa, nella sua Napoli. Indignato per la notizia della ripresa della stagione venatoria, osserva commosso un passero solitario posarsi accanto a lui. È la sua epifania: il suo modo per opporsi al declino culturale rappresentato dalla caccia in un mondo fragile è aprire l’associazione di volontariato Lenacdu, Lega nazionale contro la distruzione degli uccelli. Le prime tre sedi sono nel capoluogo partenopeo, a Roma e a Firenze.

L’associazione entra a far parte di una prestigiosa rete internazionale: The International Council for Bird Preservation (Icpb), fondata nel 1922, dunque fresca centenaria, oggi denominata BirdLife International.

Nel 1971 arriva l’iconico logo dell’upupa, disegnato dal Fulco Pratesi, fondatore del WWF Italia. Nel 1975 si passa alla sigla attuale, LIPU, più semplicemente Lega italiana protezione uccelli. Oggi Casa Lipu ha sede legale a Parma e conta circa 30 mila sostenitori, 1500 volontari e gestisce una trentina di riserve naturali in tutto il territorio nazionale. Il presidente è Aldo Verner, il direttore generale Danilo Selvaggi.

Con Claudio Celada, direttore dell’area Conservazione natura per l’associazione, abbiamo dialogato sulla mission e sulle azioni che Lipu mette in campo per la conservazione degli uccelli, in un contesto sempre più complesso e critico, in cui molto spesso la Lega italiana per la protezione degli uccelli ha trovato la sponda di enti pubblici e di aziende. Primi fra tutti, il Consorzio del formaggio Parmigiano Reggiano, pionieri in un campo di studio fondamentale per lo sviluppo sostenibile in Italia.

Claudio Celada è nella Lipu dal 2000. Prima di allora, per cinque anni, ha conseguito un PhD in Conservation ecology alla University of Alberta, in Canada.

«I pilastri dell’azione della Lipu sono la conservazione degli uccelli e della biodiversità e l’aspetto della sensibilizzazione e dell’educazione ambientale. Da questi temi fondamentali derivano tutte le nostre strategie d’azione».

L’impegno della Lipu contro il bracconaggio e la caccia
«Un paradigma del funzionamento della Lipu nel contesto internazionale di BirdLife è quello della conservazione degli uccelli migratori», spiega Celada, «perché i volatili attraversano confini di tutto il mondo, quindi un’azione cooperativistica è fondamentale. Noi cerchiamo di mitigare tutte le minacce cui sono sottoposti nel loro duplice viaggio annuale».

Seguire la rotta di un uccello migratore può servire proprio per fare affiorare tutte le criticità ambientali che il mondo deve affrontare di questi tempi.

Ma qual è il primo problema da affrontare nella tutela degli uccelli migratori?
«Anzitutto la loro uccisione mirata e illegale: il fenomeno del bracconaggio. Secondo gli studi scientifici di BirdLife, solo in Italia questo fenomeno miete da 5 a 7 milioni di vittime. Ed è ancora molto diffuso in Italia. Nei siti maggiormente impattati da questo fenomeno portiamo avanti severe attività di contrasto all’illegalità, in stretta collaborazione con le istituzioni e con le forze dell’ordine, ma ci adoperiamo anche per sensibilizzare la popolazione, perché è anche un tema culturale e se non si agisce su quel campo; l’azione di repressione da sola non basta. Per esempio, in uno dei cosiddetti black spot (le aree più critiche per il bracconaggio), nel sud della Sardegna, con un liceo artistico di Cagliari abbiamo portato avanti una bella iniziativa di coinvolgimento degli studenti che hanno realizzato un murales sul tema con l’aiuto dell’artista Manu Invisible».

Sul bracconaggio, che è un’attività illegale, potremmo essere d’accordo tutti, ma che senso può avere perseguire l’attività venatoria, dunque legale, quando la scarsità e i cambiamenti climatici mettono a rischio la vita di tutti, uccelli compresi?
«Chi è socio della Lipu non può essere a favore della caccia, una pratica arcaica da abbandonare. Ma la direttiva europea ‘Uccelli’, così come la legge nazionale in materia, la prevedono e consentono, ma noi sappiamo che la situazione è drammaticamente cambiata negli ultimi decenni. In particolar modo per i migratori a lungo raggio, che spesso sono oggetto di caccia, ma anche per le specie alpine come la pernice bianca, la coturnice o altre che sappiamo essere davvero in grave difficoltà.

E, soprattutto, sappiamo che gli scenari climatici per il futuro sono pessimi, quindi ci saranno degli ulteriori cali nella popolazione aviaria. Dunque, al di là delle considerazioni di ordine etico e di sensibilità personale che uno può fare, un ragionamento meramente ecologico e di sostenibilità demografica rende evidente che la maggior parte delle specie cacciabili, non lo sono in modo sostenibile».

E come è possibile contrastare questo andamento?
«Ogni anno dobbiamo investire tempo e risorse nostre per fare ricorsi contro i calendari venatori delle Regioni, che continuano a prendere delle decisioni palesemente squilibrate da un punto di vista pro-caccia, cioè sembrano ignorare il fatto che c’è un progressivo deterioramento dello stato di conservazione di molte specie».

Non mi sembra comprensibile, e dunque spiegabile, questo sbilanciamento delle Regioni. A chi conviene?
«Questa è la domanda sulla quale vogliamo lavorare nei prossimi dieci anni, perché ci rendiamo conto che sarà molto difficile sradicare una cultura molto presente a livello regionale, anche se non mancano eccezioni positive. In questo senso, noi parliamo di zona grigia, qualcosa che formalmente è legale, ma ecologicamente non ha nessun senso. E il lavoro dei prossimi anni è fare uscire dal grigio queste dinamiche e portarle in un ambito di solidità scientifica».

I danni dell’agricoltura intensiva per gli uccelli e la proposta sostenibile della Lipu
Un’altra grande minaccia è l’agricoltura intensiva: «ha di fatto ridotto molte specie che di solito abitano gli ecosistemi agricoli, perché ne ha distrutto il cibo. C’è stato un vero tracollo della disponibilità di insetti, poi sono venuti meno anche i siti idonei alla nidificazione».

Per questo motivo la Lipu ha una linea di lavoro sulla Pac, la politica agricola europea, perché l’obiettivo è duplice: «da un lato far sì che la Pac possa ridare spazio alla natura, e dall’altro non abbandonare gli agricoltori, dal punto di vista della salute, della sostenibilità sociale ed economica del loro lavoro».

La collaborazione tra Lipu e Parmigiano Reggiano
Proprio per verificare la sostenibilità delle produzioni agricole a servizio del Parmigiano Reggiano si è sviluppata un’innovativa collaborazione della Lipu con il Consorzio.

Parmigiano Reggiano ha acconsentito a uno studio degli ecosistemi sui terreni del territorio del Consorzio. Racconta Claudio Celada: «Abbiamo incontrato la sensibilità dell’azienda già nel 2009, quando realizzammo lo studio regionale che cominciava a sancire una riduzione dell’avifauna agricola locale già significativa, e che oggi si attesta intorno al -37% del Farmland Bird Index – cioè le condizioni di abbondanza dell’avifauna in ambito rurale. Significa che in questi ultimi venti anni ci sono il 37% di uccelli in meno che abitano le zone agricole. Un dato molto pesante che riguarda soprattutto le specie che nidificano o si alimentano a terra e che rappresenta un vero e proprio collasso ecologico. Si tratta di specie peculiari come l’allodola, il saltimpalo, la pavoncella. Sono diminuite drasticamente, così come altre specie che hanno bisogno di siepi o di un mosaico di boschi e zone aperte, come anche la tortora, l’upupa, il torcicollo».

E dallo studio con il Consorzio del Parmigiano Reggiano che cosa ne è risultato?
«Quello che abbiamo visto in quello studio è che nell’area del Consorzio del Parmigiano Reggiano i prati stabili e medicali sono più abbondanti rispetto ad altre aree di controllo esterne, e quindi c’erano più uccelli in termini di diversità di specie, come il già citato saltimpalo e il cuculo. Poi c’era un focus sulla specie dello strillozzo, uno zigolo delle zone aperte; un focus sulla rondine, per la cui prosperità entrano in gioco anche le caratteristiche delle stalle dove sono tenuti gli animali, che devono essere aperte per poterle accogliere».

«All’interno dell’area del Consorzio le cose andavano meglio che altrove nei termini della diversità di specie, abbondanza e specie target. Le aree del Parmigiano Reggiano presentano, dunque, un maggiore spazio per la nidificazione a terra, che può sempre essere ampliato, una gestione sempre più virtuosa dello sfalcio, più attenta a non distruggere gli habitat dei nidificanti. Inoltre, un sempre minore uso di pesticidi ed erbicidi permette maggiore prosperità. Date queste ottime premesse, negli anni ci aspettiamo un sempre maggiore progresso nelle aree del Consorzio, in un quadro ecologico migliore di altri, soprattutto in pianura».

La Lipu e il contrasto al cambiamento climatico
Trattare della conservazione degli uccelli e delle loro migrazioni senza parlare del cambiamento climatico è come ammirare la bellezza di un’upupa e poi piantarle un colpo di doppietta: non ha senso.

«Le modalità con le quali il cambiamento climatico incide sulle migrazioni e sulla vita degli uccelli ha spinto BirdLife a sollecitare interventi urgenti per limitare i danni prima della catastrofe, come sottolinea l’ultimo rapporto State of the World’s Birds 2022».

«Per via del cambiamento climatico, per molte specie la migrazione viene posticipata e questa variazione temporale può comportare la drastica diminuzione della disponibilità di cibo, sia per chi viaggia sia per chi si riproduce. Viene meno anche la sincronia tra il ciclo di vita degli insetti e quello degli uccelli».

«Poi ci sono le specie non migratrici. Il cambiamento climatico si avverte in modo più drastico sulle catene montuose, e sulle Alpi il surriscaldamento è il doppio della media globale. Questo implica che le specie tipiche degli ambienti aperti, come i pascoli, siano a rischio, perché il limite arboreo aumenta di quota, cioè i cambiamenti climatici fanno sì che gli alberi crescano dove prima non arrivavano, invadendo gli spazi aperti al pascolo».

«Allo stesso tempo, i pascoli non possono salire di quota, perché incontrano un substrato roccioso che non è idoneo ad accogliere nuovi habitat pascolivi. Ne risulta un problema mortale per specie come la pernice bianca, il fringuello alpino, lo spioncello e il sordone».

«Per queste specie abbiamo elaborato uno studio internazionale in ambito panalpino e siamo stati in grado di individuare quelli che saranno i cosiddetti rifugi climatici nei prossimi decenni, cioè quelle aree che manterranno la loro idoneità a ospitare le specie a rischio. In questo senso, quello che si cerca di fare è di mappare come questi habitat nel futuro saranno distribuiti, e come le specie che dipendono da questi ambienti aperti potranno continuare a sopravvivere».

Avete ottenuto dei buoni risultati?
«Nel report di BirdLife si evidenzia la drammaticità della situazione, che ha portato il mondo a perdere in 20 anni specie che erano sul pianeta da 30 milioni di anni, ma anche la possibilità di invertire ancora la rotta con le buone pratiche di habitat restoration, che almeno in Europa dovrebbero riportare la situazione a livelli soddisfacenti entro il 2030».

«Per molti aspetti della sostenibilità ambientale stiamo superando la soglia di non ritorno e le soluzioni non possono essere del vecchio modello business as usual. Bisogna ristorare il nostro capitale naturale il più velocemente possibile».

Foto di copertina e galleria © Antonio Mantovani 
Foto naturalistiche © Davide Brozzi e Luigi Sebastiani

Unterthiner: un approccio lento alla natura

Scaglie presenta il nuovo editoriale di Stefano Unterthiner, fotografo naturalista e divulgatore scientifico. Proprio come la produzione del Parmigiano Reggiano richiede un approccio lento che va dalla produzione al controllo della qualità, al rispetto e all’attenzione per la natura e per il mondo animale; questo progetto, ispirandosi ai valori del Consorzio del Formaggio Parmigiano Reggiano, racconta l’importanza dell’esperienza dell’attesa e del rispetto dei tempi della natura.

Mi viene chiesto spesso cosa c’è dietro le mie fotografie, come ho realizzato alcune immagini o come sono riuscito  ad avvicinare quell’animale, con quale obiettivo ho scattato o quale “trucco” ho utilizzato. E poi, immancabilmente: “Chissà quanta pazienza c’è voluta per riuscire a immortalare quel momento!”. Di fronte a quest’ultima affermazione, rimango sempre un po’ sorpreso.

L’attesa accanto a un animale è il lato più gratificante del mio lavoro, anche più del risultato finale: è fondamentale per ottenere lo scatto “perfetto” che inseguo in ogni mio progetto. 

L’aspetto forse meno noto del mio lavoro, però, si nasconde dietro un’altra domanda: perché faccio fotografia naturalistica. 
Per rispondere devo fare qualche passo indietro, tornare ai giorni in cui, per la prima volta, presi in mano la fotocamera e mi avventurai in montagna alla ricerca di un animale selvatico. Avevo poco più di sedici anni quando mio zio Paolo mi prestò una delle sue Canon e mi portò a fotografare qualche stambecco nel Parco Nazionale del Gran Paradiso. Tra i sentieri della Valsavarenche e della Valnontey, nacque la mia grande passione per la fotografia. 

In quegli anni, compresi quanto sia gratificante avvicinare un animale selvatico, quanto possa essere emozionante trascorrere una notte all’addiaccio, quanto è appagante passare una giornata girovagando tra boschi e praterie alpine.

Furono esperienze molto importanti perché mi avvicinarono alla natura. La fotocamera diventò la scusa per tornare in montagna a vivere una nuova avventura, il taccuino su cui annotare ciò che osservavo e imparavo. Oggi, trent’anni dopo quei giorni spensierati tra le amate montagne valdostane, il mio rapporto con la fotografia è cambiato, è maturato e non poteva essere altrimenti; ciò che è ancora intatto, però, sono l’amore per la natura e una grande attrazione per la fauna selvatica. Ed è qui la risposta a quella domanda taciuta: faccio fotografia naturalistica perché nella natura sono felice, perché sono ancora convinto, nonostante tutto, che la fotografia e la divulgazione possano contribuire a diffondere una maggiore attenzione verso l’ambiente e le altre specie.

Sui sentieri di montagna della mia giovinezza, ho imparato una regola che ho continuato ad applicare anche quando la fotografia è diventata una vera professione: il rispetto per i miei soggetti.

È sempre necessario prestare attenzione quando si ha una fotocamera in mano e si ambisce a fare una buona immagine. Imparare ad avvicinare un animale, senza interferire col suo comportamento e tutelando il suo benessere, è un aspetto essenziale in una fotografia naturalistica contemporanea ed etica. Prima di iniziare a lavorare a un nuovo progetto mi preparo con attenzione: leggo tutto ciò che è stato pubblicato sulla specie, prendo contatto con i ricercatori, pianifico lo sviluppo della storia, inizio anche a immaginare alcune fotografie (una sorta di “scatto mentale”) che poi cercherò di  realizzare.

Una preparazione meticolosa che affino successivamente sul terreno, col tempo e le osservazioni; per me è indispensabile per cercare di limitare il disturbo che posso eventualmente arrecare a un animale, e mi aiuta nel processo di  creazione della storia. 

Se c’è un “trucco”, dietro le mie immagini, è proprio questo mio approccio lento e non improvvisato alla fotografia, lo studio preliminare  della specie, la pazienza necessaria a farsi accettare da un animale selvatico, l’abilità a diventare una presenza discreta, abituale, un elemento dell’ambiente, fino a raggiungere una sorta “d’invisibilità”. I miei migliori scatti li ho realizzati ogniqualvolta sono riuscito a trovare questo magico equilibrio con i soggetti.  

Nel 2004, per esempio, sono riuscito ad instaurare  un rapporto molto speciale con una famiglia di volpi mentre lavoravo al capitolo conclusivo del libro dedicato proprio a questa specie e volevo fotografare l’attività intorno alla tana. La femmina, però, era piuttosto diffidente, e se avesse percepito la mia presenza come un pericolo avrebbe anche potuto spostare i cuccioli da un’altra parte. Ho trascorso diversi giorni nei paraggi per darle tempo di abituarsi, ogni giorno avvicinandomi un po’ di più, inizialmente nascondendomi sotto un telo mimetico, poi semplicemente accovacciandomi tra la vegetazione. Iniziai a fare le prime fotografie soltanto dopo una decina di giorni. A poco a poco, la mia presenza venne accettata dalla famigliola, tanto che i cuccioli, sempre curiosi di tutto ciò che accadeva loro intorno, arrivarono addirittura ad annusarmi gli scarponi. Con il passare delle settimane, l’attività attorno alla tana riprese come se io non fossi lì: ero visibile eppure “nascosto”, presente eppure “dimenticato”. Ricordo un episodio, in particolare: era l’ultima settimana che avrei passato in loro compagnia, e i tre cuccioli, esausti dopo essersi rincorsi attorno al grande masso che sovrastava la tana, si rannicchiarono accanto a dove mi ero appostato e si addormentarono. Ogni volta che rivedo quell’immagine percepisco ancora la magia del momento, l’emozione che provai.

Quando ho iniziato a riflettere sul contenuto di questo editoriale mi sono chiesto cosa avessi imparato negli anni trascorsi a documentare la fauna, cosa mi hanno insegnato le tante esperienze sul campo in giro per il mondo. Nel Sulawesi settentrionale ho conosciuto e fotografato Troublemaker, che non è il soprannome di una persona ma di un cinopiteco (Macaca nigra il nome scientifico): una rarissima specie di macaco presente soltanto nelle foreste nel Nord-Est della grande isola indonesiana. Il nomignolo, che in inglese significa letteralmente “combina-guai”, era stato dato dai ricercatori a un giovane maschio che faceva parte del gruppo da loro seguito nella riserva naturale di Tangkoko. Come suggerisce l’appellativo, quel maschio aveva un comportamento particolarmente vivace e curioso, aveva la tendenza a combinare sempre qualche dispetto ai ricercatori, ma anche al sottoscritto: lo trovavo irresistibilmente simpatico (per altri era insopportabile!). Riconoscere Troublemaker è semplice; basta incontrarlo una volta per non dimenticarlo, e dopo aver trascorso sei settimane con quel gruppo di primati mi divennero familiari numerosi altri macachi: ognuno riconoscibile per qualche chiara caratteristica morfologica e, soprattutto, con un diverso temperamento, un proprio distinto carattere. Ciò che la primatologa Jane Goodall aveva documentato per i suoi amati scimpanzé, l’ho osservato chiaramente nel cinopiteco:

ogni animale possiede non soltanto caratteristiche funzionali uniche, ma anche una personalità assolutamente definita.

Una prerogativa che non è esclusiva solo dei primati – l’ordine di mammiferi di cui facciamo parte anche noi – ma probabilmente, come suggerito da alcuni studi, è comune a moltissimi vertebrati. Questa è una  consapevolezza che ho sempre avuto, soprattutto dopo aver  trascorso lunghi periodi accanto ai miei amati soggetti selvatici, ed è alla base del rispetto, dell’etica del mio lavoro a cui accennavo precedentemente. La volpe, l’orso, la lontra, il cigno selvatico (l’elenco potrebbe essere lungo…) non sono “semplici” animali, automi guidati soltanto dall’istinto, ma degli individui,esseri viventi con  tratti non solo fisici, ma anche comportamentali ben distinti. Chiunque possieda un animale domestico sarà dello stesso avviso: un gatto o un cane ha certamente, agli occhi dei loro proprietari, una propria e chiara personalità. 

Tra 2006 e il 2007 ho trascorso, assieme a mia moglie Stéphanie, cinque mesi sull’isola della Possession, nell’arcipelago di Crozet, che fa parte delle Terre Australi e Antartiche Francesi (TAAF). Un luogo remoto, raggiungibile soltanto con diversi giorni di navigazione, dove la natura è ancora integra e l’uomo solo una presenza marginale, circoscritta all’interno della base scientifica che ospita una trentina di persone. A Possession ho trovato un mondo selvaggio, primordiale.

Ho percorso quelle terre spazzate dal vento, cercando e creando immagini, imparando a conoscere e a farmi conoscere dagli altri animali: ho nuotato con i pinguini, ascoltato i canti degli albatri, camminato sulle scogliere accompagnato dall’incedere lento di un’orca sotto costa. In quelle terre lontane ho sentito, com’ero riuscito a fare, forse, soltanto da ragazzo tra le montagne valdostane, quanto profondamente io sia legato alla natura.

Ho capito, ancora una volta, che la natura è tutto ciò di cui ho bisogno. Quella spedizione nell’isola di Possession, mi ha dato la possibilità di riflettere  su quale sia una condizione fondamentale per il benessere di tutti gli animali, Homo sapiens incluso: un ambiente quanto più integro possibile. L’arcipelago di Crozet è una delle poche wilderness che ancora rimangono nel nostro sofferente pianeta. La semplice definizione riportata in un dizionario è sufficiente per capire l’importanza di queste aree: “La natura nel suo stato originario, non ancora contaminata da interventi umani che abbiano compromesso l’habitat favorevole alla conservazione delle varie diversità biologiche”. Questi luoghi, veri e propri bacini di biodiversità, stanno però scomparendo a un ritmo sconcertante: negli ultimi vent’anni ne abbiamo perso il 10% e, attualmente, soltanto il 23% circa della superficie terrestre è ancora integro. 

Nelle città e nelle periferie abbiamo imparato – o forse dimenticato?- come trovare il nostro benessere anche senza natura, circondati dalla tecnologia, invece che da alberi, con in mano l’amato smartphone a rubarci troppo spesso l’attenzione e così anche tante specie si sono adattate a vivere in ambienti fortemente antropizzati. Ma è vero benessere? Mi è sufficiente fare ciò che ho imparato da ragazzo, incamminarmi su un sentiero di montagna, per trovare la mia risposta.

Illustrazione © Elisa Talentino, Foto © Stefano Unterthiner

Aurora Cavallo: il cibo ci unisce

Aurora Cavallo, nella vita digitale, è Cooker girl. Classe 2001, a soli 15 anni, questa brillante e determinata ragazza, decide di aprire un blog culinario con uno pseudonimo per mettere alla prova le sue abilità. Era un gioco, ma come spesso accade quando a guidare la storia sono le logiche dei social, il suo profilo in poco tempo diventa una reale opportunità e guadagna moltissimi follower, prima su TikTok, e poi anche su Instagram.

Tradizione e famiglia, ricette di cuore e di casa sono il centro della narrazione di questa giovane che ha saputo cogliere le possibilità del digitale per creare qualcosa che non esisteva e che oggi è parte determinante della sua carriera, della sua vita e del suo successo. Il segreto è uno solo: una spontaneità unica, che si fonde con la capacità naturale di coinvolgere i follower rendendoli partecipi della sua positività, del suo dinamismo e della sua allegria ai fornelli. 

I nonni sono il punto di riferimento, una costante fonte di ispirazione a cui dedica ricette mescolate a ricordi. Da gioco a realtà, questa esperienza ha segnato anche la scelta dei suoi studi: oggi Aurora è una studentessa all’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo e, da questa esperienza formativa, sta acquisendo gli strumenti per aiutare i ragazzi della sua età ad avere un rapporto più corretto e consapevole con il cibo.

I social network diventano un mezzo per comunicare alle giovani generazioni l’uso sano e consapevole del cibo, spesso scegliendo prodotti locali e biologici. 

La collaborazione con il sito GialloZafferano e l’uscita del suo libro La cucina scaldacuore. Storie, ricette e segreti hanno contribuito ad accrescere la sua popolarità soprattutto tra la iGen, che vede in lei un modello da cui imparare sempre nuove ricette e avere nuovi spunti sull’alimentazione.

Come scegli le ricette da condividere?
Le ricette che condivido rispecchiano totalmente la mia quotidianità e i miei gusti, a volte condivido cosa ho preparato per cena o per pranzo, in altro momento invece ho voglia di una focaccia, un dolce pazzesco che ho visto su Instagram e voglio provare a farlo: le mie ricette rispecchiano sempre il mio percorso in cucina. Sono sicuramente al 100% ricette che, in primis, mi diverte fare, ma soprattutto mangiare. Il mio rapporto col cibo è legato a un aspetto che va ben oltre il semplice nutrirsi, quello c’è ed è importante, ma ha un valore più ampio, come la condivisione, la dimostrazione d’affetto. Se voglio dire “ti voglio bene” lo faccio con una torta, che per me vale più di mille parole! 

Ma come ti nutri normalmente? Mangi tutto ciò che posti? 
La mia alimentazione non è ciò che posto, magari posto spesso ricette sfiziose, ma non le mangio ogni giorno. Ho un’alimentazione abbastanza standard, a me piace molto la cucina asiatica, cucino spesso quella tipologia di piatti. Mangio le stesse cose, magari fatte in modo diverso, non seguo una dieta particolare. Mi regolo da sola, a volte è un momento un po’ più detox, altre mi lascio trasportare da una cena più particolare: la parola chiave è equilibrio. Non sto dicendo nulla di nuovo, sia chiaro, è solo ciò che cerco di mettere in atto nella mia quotidianità. Ognuno vive l’alimentazione in modo molto personale.

Com’è il tuo rapporto con il cibo nella vita privata? Che cosa ti piace di più scegliere?
La mia cucina preferita è quella italiana, non potrei vivere senza pasta e pizza. Apprezzo quella asiatica, infatti mi piacciono molto le spezie e i sapori decisi. Che sia un formaggio stagionato, un pad thai con tantissime spezie, un curry io impazzisco! Il mio piatto preferito è la più semplice pasta al pomodoro. Vivo in un piccolo paese, dove non c’è l’approvvigionamento di ingredienti che può esserci a Milano o in altre grandi città. Sono molto curiosa e quando viaggio provo sempre piatti particolari, anche nell’università che frequento siamo spinti a conoscere nuove tradizioni e culture culinarie.

Come valorizzi la sostenibilità nelle tue ricette e nel tuo lavoro?
Sostenibilità è un termine che si presta a molte interpretazioni, non vi è una definizione universale e questo è un problema, forse uno dei primi: infatti si può usare questa parola anche in modo sbagliato. La mia interpretazione è cercare, nel mio piccolo, di supportare una sostenibilità di tipo sociale: pagare il giusto per un prodotto, perché dare il giusto valore economico al cibo è importante, e questa cosa noi la stiamo un po’ perdendo. La sostenibilità è anche ambientale: non sono vegetariana o vegana, ma conosco l’impatto dell’industria della carne sul cibo. Cerco di ridurre i consumi di prodotti animali, però per il background che ho – nata in Piemonte dove agricoltura e allevamento sono comunque alla base dell’economia – per il momento non mi sento di eliminare del tutto questi alimenti dalla dieta. Conosco tante famiglie che vanno avanti grazie alla loro azienda di allevamento di bovini. Bisogna conoscere, diventare curiosi, chiedere, capire ciò che compriamo e rispettare dei limiti.

Qual è la tua cucina preferita? Come scegli la tua materia prima e i prodotti da usare nelle ricette ma anche nella tua alimentazione quotidiana? 
Se devo scegliere, mi piace sperimentare ricette vegetariane e vegane, non sono una grande fan della carne, ne mangio poca. Ho la fortuna di vivere in un paesino, e sottolineo “fortuna”! Il Piemonte ti dà la possibilità di conoscere più facilmente le fonti di materie prime, qui è diverso rispetto a Milano. Il mercato è il posto che preferisco, ho il mio banco preferito. Conoscere le persone è importante, conoscere il produttore vuol dire conoscere il prodotto.

Qual è il valore aggiunto e il contributo che vuoi dare con il tuo lavoro al mondo del cibo? Che cosa pensi ti differenzi dagli altri?
Per me il cibo non è solo nutrizione, ma ha un forte valore sociale e comunitario, e questo aspetto è ciò che sento più vicino a me. Credo sia questa la mia causa: l’aspetto comunitario. Cerco di condividere un profilo gioioso, che sorride: in un certo senso, il cibo è condivisione, gioia, fermarsi, sedersi a tavola e raccontarsi.

Questo mi differenzia dagli altri: non c’è niente di più vero della frase “food brings people together”. La sposo totalmente. La tua crescita, in termini di followers e popolarità, si è tradotta anche in una crescita dal punto di vista professionale, con una maggiore consapevolezza e attenzione a certe tematiche?

A livello professionale, il mio modo di comunicare è cambiato moltissimo con la crescita della fanbase. Imparare a conoscersi a vicenda aiuta a capire cosa puoi dire e cosa non puoi, perché alla fine, anche se attraverso i social, sono sempre io, Aurora. Capisci quanto alcune tematiche siano tanto vicine sia a te che alla community a cui ti rivolgi. L’altro giorno, ad esempio, parlavo del mercato, e spiegavo che c’erano due tipi di zucchine diverse: io, seppur a un prezzo più alto, ho deciso di scegliere quella del Roero e ho spiegato che dietro a prezzi molto bassi potrebbe nascondersi situazioni di caporalato e altri problemi. Il riscontro che ho avuto è stato molto positivo: non hanno solo espresso solidarietà con la mia scelta, ma hanno condiviso con me il loro punto di vista. Questo è il dibattito che preferisco, perché così ho possibilità di interfacciarmi con altre persone con background culturali, economici e sociali diversi dai miei.

Che cosa ti evoca nella memoria il Parmigiano Reggiano e qual è il tuo primo ricordo legato a una “scaglia” di formaggio? 
Il primo ricordo che mi viene in mente è legato ai pasti dai genitori di mio papà dove c’è sempre il formaggio e viene grattugiato esclusivamente sul momento da nonno Beppe: loro non conoscono il formaggio già grattugiato. Lui lo ama, e ama in particolare il Parmigiano Reggiano con la pasta al burro. È un ricordo magnifico.

Foto © Gabriele Stabile

Arte Sella – Incorporare la natura nella prassi artistica

Arte Sella è un luogo dove ogni forma di espressione della creatività umana si fonde con il contesto naturale e i suoi elementi, dando vita a un dialogo unico tra l’ingegno dell’uomo e il mondo naturale. Nato nel 1986 dalla volontà di un gruppo di amici di creare un luogo dove artista e natura potessero entrare in completo contatto fisico e spirituale, oggi Arte Sella è un polo di ricerca e sperimentazione attiva. Giacomo Bianchi, attuale presidente, racconta la storia e l’evoluzione del progetto, le sfide di ieri e quelle future per capire quale importanza assume non solo a livello artistico ma anche teorico nella ricerca di un nuovo dialogo tra uomo e natura.

Arte Sella è un progetto unico nel panorama artistico italiano e internazionale. Quali sono le sue origini e le caratteristiche che lo contraddistinguono rispetto a progetti di tipo più tradizionale?
Arte Sella nasce spontaneamente nel 1986, dalla volontà di un gruppo di abitanti della Val di Sella, una valle meno nota rispetto ad altre ma unica dal punto di vista naturalistico.

Dagli anni ’80, le poche attività presenti hanno iniziato un drastico declino tanto che la valle stava rischiando di cadere in rovina e di essere abbandonata; perciò nasce l’esigenza di creare un progetto in grado di portare qui un nuovo valore basandosi su presupposti diversi da quelli del passato.

Date le caratteristiche del posto, l’idea del gruppo è stata quella di trasformarlo in un luogo di incontro e condivisione per gli artisti provenienti dall’area del middle europea.

Arte Sella non nasce come un progetto a lungo termine, ma piuttosto come un’iniziativa intima, con lo scopo di far condividere agli artisti uno spazio confinato, il giardino di Villa Strobele, per un periodo di tempo limitato che andava dalle 2 alle 3 settimane: qui vivevano insieme e si scambiavano idee per produrre opere di arte effimera.

In pochi anni, partendo da questa idea del luogo come origine della creatività, Arte Sella ha iniziato a concentrarsi sul concetto di “Arte nella natura” come una modalità di lavoro e di creazione artistica in natura che prendeva spunto da movimenti già strutturati come la Land Art e l’Arte povera, con questa idea che l’artista deve, in primis, mettersi in ascolto del luogo. Anche il visitatore è chiamato ad immergersi completamente nella natura: ciò che contraddistingue Arte Sella è la modalità di esperienza del tutto unica. All’utente viene – indirettamente – richiesto di usare tutto il suo corpo e i 5  sensi, anche l’olfatto. E dato che le opere vivono in un contesto mutevole, sono a loro volta in cambiamento, quindi sappiamo che qui ogni esperienza è davvero unica.

Se questo progetto nasce per essere circoscritto nello spazio e nel tempo così come anche la produzione delle opere, quale è invece oggi la visione di Arte Sella?
L’evoluzione di Arte Sella è un percorso di 35 anni ed è evidente che i presupposti iniziali siano cambiati. Ci sono alcuni elementi fondativi che invece rimangono invariati, fanno ancora parte della nostra prassi e sono quelli che ci contraddistinguono. I due principi fondamentali sono:

  • la non ossessione per la permanenza delle opere: sia l’artista che ArteSella, ma anche i visitatori condividono questa idea che, un po’ come l’uomo è una presenza effimera nella natura perché ha una scadenza, così anche le opere d’arte seguono lo stesso ritmo. La traccia che lasciamo rappresenta una nuova modalità di interazione, è un organismo che muta, si evolve e cambia. Questa metafora fortissima, rappresenta lo stare dell’uomo in natura che è in continua trasformazione. Siamo molto concentrati sul concetto di cambiamento ed evoluzione tanto che il metodo di produzione delle opere è molto diverso dagli anni ’80 e la nostra mission si è evoluta: oggi questo è un luogo di ricerca che per un artista significa essere messo di fronte a nuove ipotesi di lavoro con la natura;
  • la genesi dell’arte: oggi come agli inizi, Arte Sella invita l’artista a pensare e creare nuove forme di relazione con il territorio. L’artista si perde in questo luogo, lo studia non solo dal punto di vista naturalistico ma anche antropologico e storico. Ecco perché l’opera è stratificata: nasce qui e qui rimane.

In questo percorso lungo 35 anni, l’uomo e la natura hanno subito significativi cambiamenti. Qual è stato quello più significativo che ha interessato Arte Sella dalle sue origini ad oggi?
Si è notevolmente evoluto il concetto di ecologia, è cambiata la coscienza collettiva su quanto l’Homo Sapiens sia in grado di plasmare la natura a suo uso e consumo fino al punto di poterla distruggere. Oggi anche la relazione tra artista e natura è enormemente cambiata ed è riscontrabile nella prassi sotto molteplici punti. Quello più evidente è l’uso dei materiali, che in principio erano solo naturali, raccolti nel giardino della villa e nei boschi, ed erano una chiara evidenza fisica del tema ecologico.

Agli inizi, c’era un desiderio di sintonia quasi atavico con l’elemento naturale, una volontà di ritorno alle origini. Oggi questa modalità di interazione risulta un po’ naïf e un po’ ingenua; la relazione uomo natura è di tutt’altra complessità e focalizzarsi solo un elemento per affrontare il tema ecologico non rappresenta adeguatamente questa complessità.

Ora, lavoriamo molto con artisti che incorporano la tecnologia nelle loro opere o il cui lavoro è frutto di una relazione con la scienza, perché con l’arte e i suoi strumenti possiamo davvero incidere a livello sia concettuale sia programmatico su questa devastazione antropocentrica che interessa la contemporaneità. Un ritorno alle origini è impossibile e anche ingiusto, nega l’evoluzione dell’uomo che, per quanto ambigua, è costellata di tanti atti creativi che sono espressione della sua intelligenza.

Arte Sella è  progetto di continua ricerca che indaga la contemporaneità, esplora la complessità del rapporto uomo-natura, non celebra la perfetta sintonia tra i due mondi ma piuttosto vuole immaginare le possibilità di un nuovo rapporto abbracciando più ambiti come quello scientifico e tecnologico.

Da anni invitiamo anche molti architetti di fama internazionale ad interrogarsi su questo tema, per avere da loro un input perché, proprio nell’architettura, questo rapporto assume forme molto complesse soprattutto in virtù del principio della non permanenza. Le costruzioni dell’uomo sono i prodotti che più impattano sulla natura e che, soprattutto negli ultimi anni, stanno inglobando sempre più elementi tecnologici. Quello che accade qui non vuole diventare una risposta seriale, ma, come la ricerca primaria per la scienza, fornisce degli input intellettuali che pian piano possono trovare espressione anche nell’architettura.

Come riescono a convivere arte e ambiente pur essendo regolati da leggi – umane e naturali – e tempi di vita diversi – immortale e mortale?
L’arte è libera deontologicamente ma questa definizione è ambigua soprattutto per una realtà come Arte Sella che è anche espositiva e dove le opere vengono fruite in modo ravvicinato dai visitatori. Da un lato la creatività ha bisogno di non essere imbrigliata da regole umane, dall’altro un contesto “museale” deve rispettare le norme per la sicurezza. Gli artisti collaborano con profili tecnici per trovare il giusto compromesso tra espressione artistica e sicurezza.

Il calcolo strutturale da parte degli ingegneri è un passaggio fondamentale, è una forma di dialettica tra artista e regole, tra creatività e quotidianità e rappresenta la società moderna in bilico tra la normalizzazione e la spontaneità. 

Arte Sella promuove una nuova concezione del tempo in cui cade la certezza e la volontà che l’opera duri per sempre; si vuole riportarla dall’immortalità alla mortalità, a quello che è il tempo della natura. Un esempio eclatante è la tempesta del Vaia, un evento meteorologico estremo che ha interessato queste zone nell’ottobre del 2018; in 5 ore sono stati spazzati via circa 8 milioni di alberi e anche il giardino di Arte Sella è stato completamente distrutto. Questo azzeramento totale avvenuto in un tempo incontrollabile, in una prima fase ci ha lasciato totalmente sconvolti ma poi abbiamo capito con più forza il concetto di tempo, tra mortale e immortale: avevamo il dovere di accogliere e incorporare questo processo trasformativo all’interno della nostra metodologia artistica. Adesso le opere durano in media dai 10 ai 15 anni che è già un altro tempo rispetto allo standard dell’arte, ma

per noi è importante tener sempre in conto che la natura è mutevole e l’opera deve abitare in un flusso.

L’opera di Arcangelo Sassolino chiamata Physis, interpreta benissimo il tema del tempo: consiste in un enorme blocco di granito di 40 tonnellate tagliato a metà, dotato di un meccanismo attivato da un pannello fotovoltaico che avvicina ed allontana le due parti in base all’energia del sole. Rappresenta il tempo della natura, questi due massi che racchiudono essi stessi le diverse ere geologiche e che si trasformano, avvicinandosi e allontanandosi, seguendo i tempi della natura che non sono fissi e regolari. È un invito per lo spettatore a mettersi in ascolto, ad attendere una nuova forma di tempo. L’opera si appropria di una quarta dimensione, che è quella temporale.

Alcune innovazioni tecnologiche hanno cambiato molto la società e le modalità di interazione che in alcuni casi arrivano anche alla smaterializzazione. Quali incideranno maggiormente sul futuro di Arte Sella e come?
È difficile capire quali eventi futuri avranno la forza di incidere sull’arte in modo significativo. Da parte nostra c’è piena fiducia nell’artista e nella sua capacità di vedere, prima di chiunque altro, gli aspetti che segneranno la società e quindi anche l’arte. 

Oggi si parla molto del tema del tema del digitale, della virtualità, del metaverso oppure anche di genetica che, pur essendo un tema molto meno mainstream, è interessantissimo anche per il mondo dell’arte. Non sappiamo con certezza quali fenomeni avranno maggior impatto e quali direzioni tracceranno ma siamo in un momento di grande cambiamento che lascia spazio a molte possibilità.

Pensiamo alla video arte: all’inizio nessuno aveva capito le potenzialità di questo strumento eppure grazie agli artisti ha generato esempi di portata eccezionale.

Le opere sono sempre proiettate verso il futuro perché se rimanessimo focalizzati sul presente difficilmente riusciamo a dare dei messaggi significativi per la società. Un esempio significativo è Liquid Landscape di Daan Roosegaarde, questo prato liquido dove le persone possono camminare: la percezione è affidata allo spettatore che fluttuando su questa superficie dialoga intimamente con la natura.

Nell’anno di fondazione, quale è stata la sfida più difficile che Arte Sella ha affrontato?
La sfida più dura è stata senza dubbio quella culturale: innestare questo progetto in un contesto molto tradizionale che non aveva mai conosciuto quel tipo di linguaggio è stato molto difficile perché la gente del luogo non riusciva a comprenderlo. Negli anni ‘80, Arte Sella era un progetto già molto particolare e farlo arrivare in questa valle è stato come arrivare con una nave aliena e stravolgere la quotidianità di questi luoghi. Il linguaggio dell’arte contemporanea che usava gli elementi presenti in natura, all’inizio ha generato molta diffidenza tra le persone ma allo stesso tempo anche tanta curiosità. Il risultato poi è stato straordinario: piano piano l’arte è riuscita a comunicare con gli abitanti del luogo ed oggi il progetto è molto apprezzato.

E quali sono le grandi sfide del presente?
Ci sono del sfide legate ad eventi naturalistici come ad esempio quelli atmosferici che sono sempre più anomali rispetto a quelli noti e hanno una portata a volte distruttiva come la tempesta del 2008; oppure nuove varietà di insetti che attaccano gli alberi fino a farli morire.  Questo tipo di fenomeni sono sempre più frequenti e spesso imprevedibili mentre ci sono altri su cui possiamo agire e abbiamo il dovere di farlo. Una grande sfida per noi è quella della mobilità: come riusciamo a far accedere i visitatori ad Arte Sella senza impattare troppo sulla natura? Noi abbiamo una grande responsabilità rispetto a questo tema e ci interroghiamo su come rendere l’accesso più ecologico e sostenibile senza dover arrivare ad adottare misure estreme.

Si parla sempre di più di Antropocene proprio per indicare come l’attività dell’uomo prevarichi la natura anziché conviverci in modo rispettoso. Come presidente di Arte Sella quale consiglio ci può dare?
Il consiglio più grande che posso dare è quello di incorporare nelle nostre vite la complessità della natura. Anche il termine Antropocene, a mio avviso, demarca una separazione tra i due mondi, quello umano e quello naturale, e l’uso di questi termini dualistici indica la considerazione della natura come altro da noi. Questo è l’aspetto più sbagliato. Dobbiamo abbattere questo dualismo, riunire i due mondi in modo che tornino ad essere una cosa sola e riconsiderare la capacità dell’uomo di generare non solo cose distruttive ma anche creative nel rispetto con la natura circostante.

© Foto Bartolomeo Rossi

La storia millenaria dei prati stabili

Nel corso dei secoli, il mondo dell’agricoltura si è modernizzato sempre di più, tanto che molte delle attività che prima richiedevano tempi lunghi e l’impiego di molte braccia, oggi vengono svolte facilmente anche da una sola persona. Ma la modernità, pur avendo cambiato molte delle produzioni del nostro paese, non è riuscita a intaccare i prati stabili, tappeti erbosi composti da piante spontanee, che richiedono il minimo intervento dell’uomo per crescere e proliferare.

Con oltre 70 varietà diverse di piante erbacee, il prato stabile rappresenta un ecosistema unico di biodiversità sul territorio, il cui foraggio, da più di 1000 anni, viene impiegato come principale fonte di alimentazione delle bovine da latte del Parmigiano Reggiano.

Questo sistema, che ancora vive di meccanismi naturali, è preziosissimo perché permette di produrre un formaggio unico, dal sapore autentico proprio come si faceva una volta.

Matteo Catellani, proprietario dell’azienda agricola Grana D’Oro di Cavriago, ancora alimenta i suoi animali con questo foraggio unico che lui stesso produce da quasi 40 anni. In questa intervista ci ha raccontato quanto sia importante continuare questa coltura per tenere viva la tradizione, tutelare l’ambiente e gli animali, e produrre un Parmigiano Reggiano di grande qualità.

Nonostante la loro storia millenaria e la straordinaria importanza, i prati stabili non sono così conosciuti. Cosa si intende esattamente con il termine “prati stabili”?

Un prato stabile è un manto erboso che non ha subito alcun intervento di aratura o dissodamento, non viene coltivato ma lasciato a vegetazione spontanea per moltissimi anni, addirittura centinaia.

È definito “stabile” proprio perché il suo ciclo naturale non viene mai rotto.

È composto da erbe che si autogenerano, cioè vanno in semenza e, una volta cadute, si autoseminano per poi rinascere da sole. Sono prati che non vengono mai arati perché di fatto questo cotico erboso rimane sempre perenne e c’è solamente bisogno di tenerli irrigati frequentemente e provvedere a un minimo di concimazione.

E si trovano nei territori dove si produce il Parmigiano Reggiano, corretto?

I prati stabili non sono così conosciuti, perché tutto sommato sono circoscritti ad una piccola area del territorio italiano: in Emilia Romagna si trovano adiacenti alle zone alluvionali come quelle lungo il fiume Enza. Lì, quando il fiume straripava, depositava quello strato di terriccio al di sopra delle ghiaie dove si sono formate queste praterie.

Per questo sono antichissime in queste zone, la loro formazione risale a mille anni fa. Poi però col tempo, si è iniziato a perfezionare il sistema di irrigazione e sono stati arginati fiumi e torrenti, costruendo i vari canali e linee di irrigazione; a partire dal 1460 si è cominciato anche a livellare gli appezzamenti e irrigarli periodicamente. In questo modo, si è formato questo particolare cotico erboso ricco di piante, il cui foraggio veniva utilizzato per l’alimentazione degli animali.

Quali specie di piante compongono un prato stabile?
Gli studi condotti sui prati stabili rivelano che per ettaro si contano circa tra le 60 e le 70 varietà di erbe diverse, di tipo stagionale. Non crescono mai tutte in una volta, ma si riproducono in varie fasi dell’anno. L’80% delle piante dei prati stabili sono graminacee e leguminose, ma sono numerose anche le essenze prative di altre famiglie. Ci sono erbe tipo il loietto che si presentano al primo sfalcio, mentre il trifoglio, la pastinaca, l’oriola e altre erbe le troviamo frequentemente al secondo e terzo sfalcio. Quando si va verso la stagione più calda ci sono anche le infestanti come la cicoria e, tra agosto e settembre, si riproducono e germogliano; in questo periodo si presenta anche il ranuncolo.

Perciò il prato stabile, nel suo complesso, è composto da una ricca varietà di erbe ma, essendo presenti solo in alcuni momenti dell’anno, i foraggi ricavati dai vari sfalci devono essere mescolati.

Tra le varietà di erbe che compongono il prato stabile, quali sono quelle più preziose per la nutrizione e il benessere degli animali?

Sicuramente la festuca, come anche il trifoglio, e tutte le sue varietà sono quelle che danno più apporto proteico agli animali. In generale però non è la singola pianta in sé a essere preziosa ma è il miscuglio del prato, dove c’è sia la parte proteica sia la parte più legnosa. Questo mix garantisce un apporto nutritivo equilibrato all’animale che può mangiarne in abbondanza, senza avere nessuna difficoltà nella digestione. Diciamo che tutto l’insieme è molto prezioso per l’animale, per questo motivo, quando i prati vanno in sofferenza o si trovano solamente poche varietà di erbe, l’animale mangia poco volentieri. Per esempio quando è presente solo il loietto, ecco in quel caso l’animale mangia poco volentieri, mentre invece se c’è del trifoglio e dell’oriola, allora mangia con più gusto.

Non ci sono erbe più preziose di altre ma è importante che siano presenti tutte per dare il giusto mix nutritivo e, soprattutto, per renderlo più appetibile.

Questo specifico tipo di coltivazione affonda le sue radici nel periodo pre-industriale, ci può raccontare la nascita e l’evoluzione di questa tecnica di cultura?

Nella nostra zona i prati e le praterie nascono sulle aree alluvionali e le esondazioni dei fiumi hanno dato origine allo strato di terriccio fertile che ha favorito la nascita di questa particolare coltura. Tra il 1000 e il 1200 d.C. sono sorti tanti piccoli allevamenti in prossimità di queste aree e, grazie agli animali, la concimazione avveniva in modo regolare. I frati benedettini, presenti nella zona, si sono interessati alla classificazione delle varietà di piante presenti, cosa che aiutato molto a preservare le stesse specie ancora oggi.

Il binomio tra una concimazione organica, che ha reso molto fertile il terreno, e un’irrigazione da monte, che ha trasportato a valle le semenze degli Appennini, ha fatto sì che queste erbe nascessero rigogliose e in maniera spontanea.

E qual è quindi il ruolo dell’irrigazione?

L’irrigazione è un fattore che ha inciso fortemente sulla nascita dei prati stabili: fin dal XII secolo sono stati arginati e regimentati i fiumi e torrenti con sorgente in montagna, che in precedenza annegavano la pianura per portare fertilità ai prati stabili. Oggi, su questo territorio, sono presenti dei Consorzi irrigui secolari: uno fra tutti il canale artificiale costruito dal duca Borso d’Este a partire dal 1462, con lo scopo di incanalare le acque dell’Enza per l’irrigazione di tutta questa area. Così, grazie a questa innovazione, è cominciata l’irrigazione regolare anche durante il periodo estivo in tutta l’area. Questo ha permesso che queste erbe si potessero mantenere il più possibile durante l’anno: dove c’è del trifoglio significa che c’è tanta acqua mentre il loietto si trova dove ce n’è meno.

Il fatto di aver abbinato questi prati all’alimentazione delle bovine da latte, prodotto utilizzato nelle produzione del Parmigiano Reggiano, ha dato dei risultati straordinari perché il latte ha delle caratteristiche totalmente diverse rispetto a un altro tipo di alimentazione.

L’alimentazione del bestiame con foraggio proveniente dal prato stabile, rende il latte diverso. Ci può spiegare su quali caratteristiche incide e perché è così importante per la produzione del Parmigiano Reggiano?

Per produrre il Parmigiano Reggiano, proprio come si faceva una volta, è fondamentale nutrire le mucche con un prato stabile, perché riesce a rispondere alla naturale esigenza alimentare dell’animale. Infatti, prima della pastorizia, l’animale al pascolo si nutriva delle erbe che crescevano in un preciso momento in campagna; perciò a primavera, trovava una foraggera molto variegata e con parecchi fiori, mentre in estate-autunno meno.

Inoltre, una volta che l’animale si nutre con foraggio da prato stabile, trasferisce degli odori e sapori al latte stesso. E a sua volta, il latte, una volta lavorato, trasferisce quegli odori e sapori al prodotto finito e rimangono distinguibili al palato, proprio a livello sensoriale al momento dell’assaggio. L’influenza dell’alimentazione sulle caratteristiche del prodotto è palese quando si hanno animali della stessa razza ma alimentati in zone diverse o in periodi diversi. È sicuro che  il formaggio avrà due sapori diversi, le risposte organolettiche saranno diverse.

Con il prato stabile si ottiene un formaggio più dolce, con un bel colore giallo paglierino che si trasferisce quando si prende in mano il Parmigiano Reggiano.

Poi anche in fase di produzione si notano delle differenze: il grasso del latte si spurga meglio, perciò anche la lavorazione diventa più più sicura, perché bene o male, è meno probabile che insorgano batteri che vanno a creare dei problemi durante la fermentazione.

Mantenere questo tipo di alimentazione tradizionale, dove l’erba in un momento trasmette alcune caratteristiche piuttosto che altre, e che rispecchiano proprio il periodo in cui gli animali sono stati nutriti, è uno dei punti di forza del formaggio che produciamo, che non è industrializzato ma è ancora oggi un prodotto rigorosamente artigianale. Però diventa molto più difficoltosa la produzione, perché sta nell’abilità del casaro saper seguire la giusta lavorazione. Questo mondo ancora così artigianale è ciò che stupisce di più le persone che vengono a visitare la mia azienda.

E quale aspetto meraviglia maggiormente queste persone?

Spesso e volentieri, chi ci viene a trovare rimane un po’ stupito perché è convinto che avere un’azienda agricola oggigiorno sia una cosa molto più semplice rispetto al passato. Ma loro non sanno che qua di semplice non c’è niente! Le tecniche che utilizziamo sono ancora molto complesse. Da un lato, è vero che ci siamo evoluti molto, ad esempio per quanto riguarda la tipologia di strutture e di impianti, la modalità di gestione della mandria è quasi del tutto computerizzata tanto che lo stato di salute dell’animale viene seguito tutti i giorni. Facciamo un monitoraggio rigoroso dell’alimentazione e del dosaggio delle miscele; i piatti di mungitura moderni sono in grado di riconoscere anche le caratteristiche del latte, rilevando se la conducibilità è alta, un dato importantissimo perché indica un problema di cellule e quindi si va a indagare sulla salute dell’animale. Ecco tutta questa meccanizzazione porta a dei vantaggi notevolissimi per chi fa questo mestiere. Però, se si vuole abbinare ancora un’alimentazione tradizionale – che è fondamentale per avere un prodotto che corrisponda alle caratteristiche uniche del Parmigiano Reggiano – allora si devono conciliare questi due mondi: la tecnologia moderna con le tecniche del passato.

Chi vuole mantenere la qualità e la tradizione deve fare i conti con questo aspetto mentre chi vuole produrre e basta, si mette nelle mani di processi industrializzati che portano via molto meno tempo e sono anche molto più comodi, però il prodotto finale è molto più standardizzato. Noi invece cerchiamo di farlo come una volta, con un’attenta cura nella selezione dello sfalciato giusto che non sia né troppo vecchio né legnoso, ma che abbia ancora una fioritura appena sbocciata e fresca, stivato con attenzione.

Come si trasforma la coltivazione del prato stabile in foraggio per le mucche?

Il foraggio non è tutto uguale ma è prodotto in quattro momenti dell’anno in cui il prato viene sfalciato. Il “primo taglio” consiste nella prima volta dell’anno che si va a falciare il prato, e avviene verso la fine della primavera, di solito a maggio. È il momento in cui c’è più erba, tanto che questo taglio garantisce una produzione di foraggio annuale del 50%. Questo è anche il periodo dove ci sono più varietà di erbe e con più nutrienti perché grazie alle piogge e temperature miti hanno avuto tutta la primavera per nascere, crescere e maturare.

Questo taglio, una volta sfacciato, viene lasciato essiccare, portato via e messo a dimora.

Dopodiché sono necessari all’incirca 40 giorni affinché le erbe che compongono il prato possano crescere e fiorire di nuovo. Il secondo taglio quindi avviene alla fine di giugno, il terzo sfalcio cade tra la fine di luglio e inizio agosto, infine il quarto è a settembre. Tra uno sfalcio e l’altro, il prato si tiene irrigato seguendo tutte le indicazioni dovute.

Dato che non sono previste né semine né arature, come si preserva e propaga un prato stabile?

Dato che il processo non prevede l’utilizzo di sistemi tecnologici né chimici, un elemento fondamentale per preservare e poi ampliare un prato stabile è la pazienza. Per preservarlo, una parte delle erbe del prato stabile viene lasciata fiorire e poi sfiorire affinché possa creare dei nuovi semi che, una volta caduti, con il giusto apporto idrico e luce solare, germogliano dando vita a un nuovo prato stabile. È a tutti gli effetti un processo di autosemina e autogenerazione: per questo motivo un prato stabile non si deve arare, altrimente andrebbe eliminata tutta la varietà di semi fondamentale per la sua rigenerazione.

Per favorire la crescita e la propagazione vengono fatte delle concimazioni regolari con il letame bovino, perché i prati stabili sorgono proprio laddove ci sono gli allevamenti.

Fondamentale è l’irrigazione idrica dei prati perché, oltre ad essere essenziali per la crescita delle erbe, permettono di trasportare da un prato a un altro i semi, così come dalle montagne a valle, aumentando le varietà presenti nei singoli prati.

La propagazione, invece, è un processo un po’ più complesso: ecco perché i prati stabili sono più o meno gli stessi da più di 100 anni.

Bisogna circoscrivere un terreno, livellare e arginarlo bene per consentire una corretta irrigazione, si deve smettere totalmente di ararlo e adibirlo a medicaio. Anno dopo anno, con irrigazioni regolari, su questo terreno cominceranno a comparire le prime piante tipiche del prato stabile. La semina può essere di tipo naturale, oppure ci sono anche aziende che hanno prodotto dei mix pronti all’uso; nel primo caso i tempi sono più lunghi ma la varietà sarà più ricca, mentre nel secondo caso si riesce ad avere un prato stabile in un tempo più ridotto ma con una minore varietà. Per creare un cotico erboso con quelle 60/70 varietà di erbe all’ettaro ci vorrà almeno una decina di anni.

Secondo diverse ricerche, i prati stabili sono molto importanti non solo per l’alimentazione del bestiame ma contribuiscono a salvaguardare la salute del nostro pianeta. Ci può spiegare in che modo lo fanno?

Essendo una cultura che si autosemina e quindi non necessita di aratura, un prato stabile è in grado di immagazzinare azoto nel proprio cotico erboso senza rilasciarlo nell’atmosfera. Normalmente l’aratura comporta il rilascio di questo gas nell’atmosfera mentre nel caso del prato stabile diventa una sorta di magazzino naturale: a confronto di un prodotto come il mais, ha una capacità di immagazzinamento ben tre volte superiore all’incirca tra i 6 e 8 kg al metro quadro.

Poi per il fatto che non vengono arati, evita l’impiego di trattori a gasolio e altri macchinari per la sua gestione e mantenimento, così come non sono necessari agenti chimici dannosi per l’atmosfera e il sottosuolo. È una sorta di polmone per il nostro pianeta, anzi, meglio: è una sorta di un filtro naturale sempre “nuovo” perché facendo gli sfalci ogni 40 giorni è un po’ come se fosse sempre “appena installato”.

Inoltre è un vero e proprio termoregolatore, nel senso che il suo colore e il microclima necessario alla sua crescita, mitiga molto le temperature. Dove c’è un prato stabile c’è più fresco e questo si nota moltissimo quando passiamo dalla campagna al paese, ci sono almeno 3-4 gradi di differenza. 

Nel nostro paese ci sono delle normative che oggi aiutano a tutelare e mantenere questo tipo di coltura? Cosa altro si potrebbe fare per renderle più efficaci?

Da qualche anno a questa parte in Italia sono state attivate delle sovvenzioni da parte dello Stato per la tutela e il mantenimento dei prati stabili: finalmente dopo tanti anni è stato riconosciuto il principio della biodiversità che trova un esempio più che mai concreto nel prato stabile. La necessità che sento più impellente oggi è quella di attivare delle politiche non solo di riconoscimento ma soprattutto di tutela che aiutino, anzi incentivino noi agricoltori a mantenere questo tipo di coltura.

Sono necessari degli interventi in risposta ad alcuni fenomeni di questi anni, sempre nel pieno rispetto del territorio. Questo luogo è stato fortemente antropizzato perché lo abbiamo costruito e modellato per rispondere a delle esigenze concrete; se ci sono praterie e prati stabili è perché sono state create delle infrastrutture per poterli avere. Se avessimo lasciato tutto così com’era questo territorio oggi sarebbe principalmente boschivo e con molti acquitrini. Quindi credo che si debba studiare delle soluzioni iper localizzate perché ogni territorio ha delle caratteristiche e delle esigenze diverse che necessitano di soluzioni quasi “tailor made” per poter essere davvero efficaci e in grado di valorizzare i prodotti e le tradizioni.

Bisogna smettere di pensare a politiche universali che si basano sui processi industriali e sposano il principio di standardizzazione: non possiamo permettere che queste peculiarità, che danno vita a prodotti di eccellenza come il Parmigiano Reggiano, possano pian piano scomparire.

© Stefano Marzoli