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A Correggio gli “Agricoltori Custodi” fanno rivivere i semi antichi

Casa Vecchia, anzi Cà Vècia, è una galassia terrena. È un’azienda agricola nata nel 1933 a Villa Prato (RE), nel cuore dell’Emilia Romagna, la Food Valley italiana dove vengono prodotte eccellenze enogastronomiche del Made in Italy, come il Parmigiano Reggiano. È la base di Natura Maestra, linea di prodotti realizzati a filiera corta e ottenuti nell’ambito del progetto Agricoltori Custodi di Correggio, che recupera e protegge semi autoctoni di antiche varietà.

A gestire tutto insieme a Elena Luce Fiaccadori, laureata in Scienze Biologiche e agricoltrice di terza generazione, è Andrea Libero Gherpelli, agricoltore di quarta generazione e attore. Mentre parliamo con lui, suona il campanello dello spaccio. È un’altra intervista, lato mondo dello spettacolo, ma può aspettare: “Ambivalenza? È la mia biodiversità, io la chiamo così”.

Che tipo di terre sono quelle in cui lavorate?

Oggi sono terre morbide, fertili, sane. È uno dei risultati raggiunti con il nostro approccio agricolo che definiamo simbiotico, una relazione che abbiamo cercato di re-instaurare tra noi e l’elemento terra. Gli archeologi sui nostri terreni hanno trovato resti antichi tra cui un vomere dell’Età del Bronzo: qui si fa agricoltura almeno da allora.

È una terra particolarmente adatta ai semi?

Sì, lo è storicamente perché l’Emilia Romagna è una terra che arriva da paludi e raccolte di acqua che scendevano dalle montagne per riunirsi in queste piane con tutti i residui vegetali trasportati dalle piogge. Ora il terreno è straricco di sostanza organica. La Pianura Padana è da sempre estremamente fertile. Oggi abbiamo questa eredità – sarebbe il caso di ricordarlo – e potremmo fare
agricoltura di qualità perché storicamente abbiamo questa peculiarità.

Come descriveresti la Casa Vecchia?

È l’azienda agricola dove si è sviluppato il lavoro di quattro generazioni della mia famiglia, io arrivo soltanto per ultimo. Qui, già dai primi del ‘900, il mio bisnonno Giovita ha preso questo appezzamento di terra, dove facevano di tutto, perché le aziende agricole erano molto diversificate. Oggi invece sono più specializzate. Allora pensavano a tutto perché avevano l’obiettivo di “costruirsi” l’alimento: dovevano farsi latte, grano, vino, frutta, verdura. Ciò che era in esubero veniva venduto.

Per te, oltre a essere un’azienda agricola, è qualcosa di più?

È un progetto familiare e di comunità. Le comunità si sono sempre costruite intorno all’agricoltura, non è una novità. Le città da sempre venivano costruite dove l’agricoltura era fertile e si riuscivano a produrre gli alimenti. Come mio papà, anche io mi sono trovato fin da bambino a lavorare in questa azienda nella Pianura Padana: era un’agricoltura standardizzata, quella degli anni ‘70, che portavamo avanti insieme all’allevamento. Venivano usati i frumenti, quelli moderni, introdotti nella seconda metà del ‘900 per sfamare gli animali ma non noi.

Poi cos’è successo?

In famiglia si è sempre fatta arte ma in maniera goliardica, mai professionale. Dopo 4 generazioni sono stato il primo che si è potuto permettere il privilegio di allontanarsi e di cercare un percorso personale. Dopo la laurea in ingegneria a Bologna, conseguita nel 2000, sono partito per Roma e ho cercato di inseguire un bisogno comunicativo particolare, che ho sempre avuto. Ho vinto la borsa di studio all’Accademia (d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”, ndr) e si è aperta un’altra porta, quella del mio percorso artistico.

Un percorso che ti ha allontanato dall’agricoltura?

Naturalmente. Viaggiavo spesso, facevo tournée con i teatri stabili, e questo mi portava a stare fuori a lungo. Ma quando ti allontani, quella distanza ti permette di vedere le cose in una prospettiva diversa. E così mi sono accorto di quanto il lavoro in agricoltura sia straordinario, estremamente importante – direi fondamentale – per ognuno di noi; e anche di quanto stesse diventando disumanizzato, privo di slancio, di quanto negli anni si stesse perdendo l’approccio di relazione tra l’essere umano e il pianeta.

Invece questo tipo di agricoltura di cui ci occupiamo oggi, con l’azienda completamente virata sul progetto della custodia dei semi, per me è stato il modo di tornare alla terra, all’agricoltura, riportando la sensibilità e quel rispetto verso gli elementi che mi era mancato e che mi impediva di vivere con serenità la produzione agricola degli alimenti.

In che modo hai ricostruito quel legame con l’agricoltura, che sembrava essersi spezzato?

Ho sempre avuto un rapporto strettissimo e personale con la natura. Il “sistema-agricolo”, invece, in cui anche la nostra azienda era inserita, mi aveva messo in difficoltà; anzi, mi aveva fatto proprio passare la voglia di lavorare in questo settore, aveva sopito la mia passione. In me quindi c’era una mancanza di serenità. Poi ho capito cosa potevo fare. Ho cercato di scoprire cosa c’era prima, su cosa si fonda la base dell’agricoltura, ho ritrovato quelle – oramai troppo poco citate – antiche e buone pratiche agricole, sviluppate in secoli e millenni di pratica e attenta osservazione. Abbiamo iniziato a occuparci di grani antichi, ormai più di dieci anni fa, quando non si sapeva nemmeno cosa fossero.

Ho recuperato nel tempo molte varietà storiche di semi ormai fuori commercio, ma preservate all’interno di alcune banche del germoplasma (“depositi” di semi in cui preservare la biodiversità vegetale, ndr) e nelle università, per le loro caratteristiche uniche di naturale resistenza e resilienza, e le ho riseminate nell’orto; sono nate delle piante alte quanto me – io sono un metro e 90! All’inizio, di fronte a questi risultati, per me era evidente che eravamo tutti cresciuti dentro a un mondo forzato, modificato e per niente reale.

Come hai scoperto l’esistenza di semi antichi?

La prima volta ne ho sentito parlare da mio padre e poi da un professore dell’università che sono andato a disturbare. Gli ho chiesto “scusi ma grani antichi rispetto a cosa, rispetto a quando? E quelli che stiamo tutti seminando cosa sono?” Lì si è aperto il Vaso di Pandora: ho capito che fino ai tempi dei nostri bisnonni l’agricoltura era completamente diversa.

Il seme, riseminato ogni anno all’interno dei terreni, veniva considerato proprio come un bene aziendale. Potevi contare così, semina dopo semina, sulla sua intelligenza intrinseca: l’intelligenza vegetale è di gran lunga superiore alla nostra, alla mia di certo. Quindi se fai in modo di “allenare” l’intelligenza dei semi, nel giro di qualche anno puoi ottenere dei raccolti salubri nel pieno rispetto degli equilibri della natura.

Per te cosa vuol dire recuperare e custodire semi di antiche varietà?

Vuol dire essere dei privilegiati, perché si ha a che fare con la Storia senza intermediari. È come scoprire un pizzico di verità rispetto all’evoluzione dell’alimentazione umana. Oggi siamo finalmente molto più consapevoli di questa storia, ma il progetto può portarci a fare ancora nuove e importanti scoperte. Ci tengo a chiarire che non riceviamo fondi o sovvenzioni, il nostro progetto Agricoltori Custodi di Correggio vive solo grazie alla relazione con le persone: l’acquisto dei prodotti torna quindi a essere importante anche proprio per il mantenimento e sviluppo di questo progetto.

É un progetto con una valenza reale, concreta…

I semi sono come reperti e la nostra è una collezione di grandissimo valore storico e culturale. Il nostro obiettivo è ricostruire e ri-valorizzare un’intelligenza vegetale costruita in secoli e millenni, dato che i cereali sono presenti sul pianeta da tutto questo tempo, e riportarla in tavola. Quando riesci ad avere a che fare con questi semi, hai anche a che fare con qualcosa che abita questo pianeta da molto più tempo di te, e che ha raccolto molti più dati di te. È ovvio che i semi, sotto questo punto di vista, hanno molto da insegnarci. Diamogli insieme di nuovo l’opportunità di farlo.

Hai ritrovato l’equilibrio tra arte e natura nella tua vita personale?

Sì, certo, anche perché l’approccio artistico non ha confini. Io non mi sento di fare due mestieri diversi: forse da fuori può sembrare, ma nella realtà quando ti approcci a una storia, a un personaggio da interpretare, a un nuovo film o anche solo all’incontro con un regista, è necessaria la stessa sensibilità che serve per intuire e riscoprire cosa sta nascosto sotto alla relazione con i semi e con la Natura, che è una delle grandi meraviglie. Travalica i dogmi, le religioni, è molto semplice da interpretare; è come la musica o la danza, non ha parole, non ha lingue, è comprensibile da tutti, unisce i popoli.

Perché avete rimesso in uso attrezzature della prima metà del ‘900?

Servono per riprodurre il seme in azienda, sono macchine che oggi le aziende agricole non hanno purtroppo più nel loro parco macchine ed è il motivo per cui acquistano il seme esternamente. È il modo per noi di selezionare la nuova semente dall’ultimo raccolto trebbiato.

I semi sono il punto di partenza per i prodotti “Natura Maestra”?

Da tutti questi cereali, macinati a pietra come si faceva un tempo, riusciamo a ricavare diversi prodotti, conservando il germe all’interno delle farine: farine di farro, di grani teneri e duri, di mais o ceci. Tutte varietà storiche. Dalle farine, poi, insieme a un gruppo di artigiani che abbiamo selezionato negli anni, riusciamo a realizzare una pasta che viene trafilata al bronzo: spaghetti,
fettuccine al farro e altri formati.

Poi facciamo prodotti da forno come pane con pasta madre, biscotti, cracker, grissini, focacce e tante altre cose. Oggi abbiamo una proposta molto ampia e ne siamo felici, perché è il risultato di una rinnovata relazione non solo con la natura, ma anche con gli artigiani del nostro territorio, che avevano dismesso l’approccio con questo tipo di “artigianato alimentare” e con questi cereali. Questi frumenti storici, peraltro, sono saporitissimi e molto più digeribili e delicati, ci stanno dando grandi
soddisfazioni con i benefici riscontrati da tanti nostri clienti.

Foto articolo di ©Andrea Lazzarini
Foto galleria di ©Stefano Marzoli

A tavola con la storia: un viaggio tra alimentazione e cultura con Giancarlo Signore

“Anche il saper mangiare fa parte della nostra educazione”: Giancarlo Signore è uno dei massimi esperti italiani di Storia dell’Alimentazione, e a questi studi ha dedicato la sua carriera accademica e di divulgatore. In questa intervista ci racconta l’origine e l’importanza di avere una buona alimentazione, per arrivare alla fatidica domanda: alla fine, siamo quello che mangiamo?

Nella storia dell’uomo il gesto di alimentarsi ha assunto funzioni diverse: ci ha sostenuto, ha stimolato il gusto e l’appagamento del palato, ha dato impulso all’arte – basti pensare che il tratto distintivo dell’arte pittorica di Giuseppe Arcimboldo è la rappresentazione di volti che si compongono di frutta e ortaggi – e ha preteso spesso rigore scientifico, dando adito al dibattito sulla differenza tra mangiare enutrirsi.

primo piano di giancarlo signore

Giancarlo Signore, romano, classe 1940, ha dedicato buona parte della sua vita a questi studi, cercando di esplorare il rapporto tra l’uomo e il cibo, sia come fonte di nutrimento che di piacere. Si è laureato in Farmacia, è entrato a far parte del Nobile Collegio-Universitas Aromatariorum, di cui è stato anche presidente (fino al 2007), per poi dedicarsi alla divulgazione, pubblicando diversi libri che esplorano la storia dell’enogastronomia.

Oggi Giancarlo Signore ha 84 anni, ma come sottolinea spesso l’età “è solo un numero, il mio corpo fatica, ma la mia mente è sempre allenata”. Infatti, l’amore per il buon cibo e quello che ha rappresentato per gli italiani rimane una delle sue principali passioni.

Quando ci siamo sentiti telefonicamente il Professore ha scherzato dicendo che, nonostante l’età, si sente vanaglorioso, ha ancora voglia di spiegare la storia dell’alimentazione, fatta di aneddoti da scoprire e di evoluzioni culturali a volte inaspettate, come il grande cambiamento di fine ‘900: i fast food. Ma procediamo con ordine. È dalla storia romana, forse ancor prima, dalla storia etrusca che ècominciato questo viaggio. Anche perché, se è vero che nel nostro Paese il cibo non è mai stato solocibo, ma è soprattutto un modo di condividere e di unire, da chi abbiamo preso questa abitudine?

«È dai tempi degli Etruschi che il cibo viene visto come un momento di condivisione e convivialità.Alcuni storici hanno ricostruito le loro abitudini alimentari sottolineando una grande passione per ilcibo, tanto da consumare pasti due volte al giorno. Un’abitudine all’epoca considerata scandalosa,soprattutto per greci e romani».

Se dagli etruschi abbiamo ereditato il carattere della condivisione, cosa ci hanno tramandato, invece, i romani?

«Vorrei poter dire la quasi totale assenza della carne nella nostra dieta, ma non è così. I romani mangiavano molto grano e solo con l’avvento dell’Impero Romano hanno cominciato a mangiare carne. Sicuramente ci hanno tramandato un modo di dire ancora oggi in uso: “Pranzo luculliano”, che utilizziamo per far intendere che abbiamo mangiato molto.

Lucullo è stato un grande generale romano a cui piaceva molto avere tavole imbandite e ricche di cibi, che arrivavano anche dal Medio Oriente. E ci sono testimonianze di banchetti addobbati a festa alla presenza di Cesare e Cicerone. Proprio di Cicerone abbiamo una testimonianza scritta, che riprende il 15/05/24carattere di condivisione degli etruschi, in cui afferma che un buon pasto non basta se non è accompagnato dalla buona compagnia degli amici».

Dalla convivialità dei pasti, alla dimensione familiare. Quando è avvenuto questo passaggio?

«È un concetto che risale alla fine del ‘900, quando stare a tavola è diventato un piacere familiare.L’alimentazione mediterranea, soprattutto per noi italiani della generazione del Dopoguerra, non si compone solo di pasta e verdure, ma anche del piacere di portare a tavola il frutto del nostro lavoro e condividerlo in famiglia. Si tratta di un concetto più recente, ma storicamente il desiderio di rendere sacro il momento del pasto c’è sempre stato».

Tornando alla carne: a chi dobbiamo, se non ai romani, l’introduzione di questo alimento nella nostra dieta?

«L‘introduzione della carne come abitudine alimentare risale al VI secolo d.C., con l’arrivo dei Barbari. Erano loro a nutrirsi principalmente di cacciagione e, a seguito dell’insediamento di questo popolo in Italia – anche se non era l’Italia di oggi, ovviamente – l’abitudine si è sedimentata. Del resto, i Barbari sono stati uno dei pochi popoli che, giunti in Italia, sono rimasti nelle nostre terre».

Tornando ai giorni nostri, quanto conta nella nostra cultura enogastronomica la qualità?

«Dovremmo studiare tutti un po’ di più, perché c’è bisogno di essere educati al mangiar bene. Se c’è questa educazione ci sono anche le buone abitudini, come quella di tornare a comprare frutta e verdura nei mercati. C’è scritto anche nelle Linee guida della buona alimentazione italiana, in cui si raccomanda di mangiare tutto, ma di avere consapevolezza dei cibi che assumiamo. Faccio un esempio: la vitamina C è presente nelle arance, ma se con quelle stesse arance facciamo una spremutae la beviamo dopo due ore, il valore nutrizionale si perde del tutto»

Alcuni cibi fanno parte di noi da sempre. Ci siamo quasi affezionati, ci ricordano dei momenti o risvegliano delle emozioni. Qual è, per lei, questo cibo?

«Penso al Parmigiano Reggiano e penso a quanto mi piaceva mangiarlo, pezzetto dopo pezzetto, nel Dopoguerra. Era uno dei miei piaceri. Ancora oggi, quando lo mangio, penso alla mia gioventù.Il Parmigiano Reggiano è una perla italiana conosciuta in tutto il mondo e non si tratta solo di un marchio riconoscibile, ma di un alimento fortemente nutritivo, ricco di calcio. Infatti, è il formaggio che più di altri ricorda un farmaco: ha un quantitativo di calcio che serve a tutti, soprattutto ai bambini e alle persone anziane»

Rispettare degli standard di qualità nell’alimentarsi, però, può essere difficile in una routine quotidiana molto frenetica, la quale spesso ci costringe a pasti veloci e frugali. Come siamo arrivati ai fast food e perché tutt’oggi continuano a essere così frequentati?

«Sono convinto che alcune realtà, come quelle dei fast food, siano nate per scimmiottare costumi che non sono nostri e che arrivano da lontano, convinti che quello che esiste al di là dei nostri confini sia sempre meglio. Ma non dipende solo da questo: negli ultimi anni le nostre abitudini sono cambiate drasticamente, se prima il nostro costume era quello di vivere i pasti in famiglia, oggi non abbiamo più tempo per farlo. C’è il lavoro, ci sono gli impegni e sembra sempre di avere poco tempo. Abbiamo fretta, e questa fretta la mettiamo anche nei pasti»


In quest’ottica, quali saranno le abitudini alimentari del futuro?

«Io credo molto nella pasta, è un alimento ideale. La pasta è consigliabile in qualsiasi dieta e addirittura fa dimagrire, sempre se non si mangiano quattro etti di bucatini! Ma 70 grammi di pasta, lo dicono anche le linee guida, fa bene alla nostra salute. Del resto, noi italiani arriviamo almeno agli 80 anni e questo dipende molto dalla nostra alimentazione, quella mediterranea»

È vero che siamo quello che mangiamo?

«La domanda è quasi filosofica. “We are what we eat” che significa? Significa dover rispettare un’alimentazione variegata, sana, attenta alla qualità. In questo senso, se mangiamo bene il nostro corpo è sano e allora sì, siamo quello che mangiamo. Come possiamo arrivare a questo? Dobbiamo imparare a mangiare: il saper mangiare è un’educazione che dobbiamo far nostra».

I luoghi dell’educare: il nido d’infanzia Iride di Guastalla

L’ambiente e le sue caratteristiche naturali sono elementi che rendono unico il Parmigiano Reggiano. In questo editoriale celebriamo l’importanza dello spazio circostante raccontando una realtà diversa ma unica nel suo genere: nido d’infanzia Iride a Guastalla (RE).

L’ambiente, nella nostra filosofia pedagogica, che muove dalle intuizioni di Loris Malaguzzi e del conseguente Reggio Emilia Approach, rappresenta un elemento fondamentale ed essenziale del progetto educativo, in quanto l’educazione non si costruisce nel vuoto, ma in qualche spazio, per cui il valore degli spazi dei nostri servizi educativi è sostanziale.   

Parliamo di spazio come luogo accogliente, stimolante, ricco, propositivo; una presenza vitale, un contenitore, ma soprattutto un contenuto che viene definito come il «Terzo Educatore» insieme a bambine, bambini e adulti (insegnanti e genitori), e assume una forte valenza educativa.

La progettazione e realizzazione del Nido d’infanzia Iride è nata dall’esigenza, del Comune di Guastalla, di costruire una nuova struttura nel luogo in cui vi era il nido “Rondine”, gravemente danneggiato dagli eventi sismici che hanno colpito i territori dell’Emilia Romagna nel maggio 2012, e realizzare un edificio ecosostenibile che potesse riunire in un solo fabbricato due ex nidi d’infanzia (nido “Pollicino” e “Rondine”) presenti storicamente sul territorio comunale.

La presenza sul lotto di numerosi alberi ad alto e medio fusto ha immediatamente suggerito l’idea di un edificio che dialogasse con il suo contorno. Ecco che la moltiplicazione degli elementi verticali in legno, che caratterizzano l’impianto della struttura, riprende il motivo dei filari degli alberi e dei tracciati dei campi coltivati, conferendo all’insieme leggerezza e scardinando la tipica immagine di nido come volume compatto e monolitico.  

Foto courtesty of Asilo nido iride

L’edilizia ecosostenibile è una metodologia per affrontare strategicamente il tema dell’adattamento ai mutamenti climatici, coniugando lo sviluppo socio-economico con la tutela dell’ambiente.   

Sul piano della sostenibilità il legno appare uno dei migliori materiali da costruzione, in quanto è rinnovabile e riciclabile. Nell’intero edificio sono state adottate soluzioni mirate a soddisfare le esigenze funzionali in termini di benessere ambientale, integrazione con il contesto, risparmio energetico, sviluppo sostenibile, manutenzione e gestione. Ciò ha permesso di realizzare un complesso ad alto contenuto tecnologico, sicuro, confortevole ed efficiente dal punto di vista energetico. 

«L’educazione è un fatto di interazioni complesse, molte delle quali si verificano solo se anche l’ambiente vi partecipa», scriveva Loris Malaguzzi.   

L’ambiente, quindi, inteso come spazio fisico, architettonico, ma anche relazionale, rappresenta un aspetto fondamentale dell’approccio pedagogico nel nostro nido. È capace di stimolare, suggerire, accrescere gli apprendimenti. Lo spazio dove sperimentare nuove conoscenze, incontri, reciprocità. Probabilmente, il primo luogo di educazione civile che incontrano i bambini. È su questi principi che si è costruito il disegno progettuale del Nido Iride, con peculiarità che lo distinguono da altre strutture per l’infanzia presenti a livello locale e nazionale.

Nel nuovo nido gli spazi non sono casuali e diventano una risorsa – o una sfida – per sperimentare nuove conoscenze. Come, ad esempio, le trasparenze che contraddistinguono e percorrono tutti gli ambienti, sottolineando la fitta rete di relazioni che animano il dentro e il fuori, dove anche il paesaggio entra all’interno attraverso grandi pareti di vetro. Queste stesse vetrate sostituiscono i muri divisori interni, consentendo un dialogo costante tra una sezione e l’altra, tra il dentro e il fuori.

Il Nido d’Infanzia Iride è stato aperto il 7 settembre ed inaugurato il 19 settembre del 2015.   

Foto courtesty of Asilo nido iride

Partendo dal nostro approccio pedagogico abbiamo scelto di non assegnare un nome al nuovo nido in occasione dell’apertura, ma di prenderci tempo per sostare sui valori e sulla responsabilità che porta con sé l’attribuzione di un nome per un servizio pubblico per la prima infanzia.  

Sostare per iniziare sempre dalle bambine e dai bambini, sostare per pensare, riflettere e approfondire, ma sostare anche per costruire un percorso di significati condivisi tra i bambini, le educatrici, le famiglie, gli amministratori e la cittadinanza.

Questa premessa ci ha portate, come gruppo di lavoro, a osservare, ascoltare e documentare come le bambine ed i bambini hanno abitato e vissuto, fin dai primi giorni di frequenza, gli spazi del nuovo nido d’infanzia; nido che si pone come luogo speciale, architettonicamente al di là degli schemi ordinari dei servizi educativi del territorio. Nido che presenta una prevalenza di materiali quali legno e vetro che gli conferiscono da un lato un’immagine imponente e maestosa, dall’altro uno stare al suo interno sereno, pacato e disteso.

Abitare e vivere un luogo nuovo e sconosciuto porta alla costruzione di relazioni e dinamiche abitative che comportano tempi di scoperta, attesa, slanci esperienziali, pause, ritorni, empatie, timori, incertezze e curiosità; tutti aspetti che legittimano l’incontro tra abitanti in un contesto nuovo che deve essere conosciuto per favorire il senso di appartenenza a quel luogo. La struttura del nuovo nido d’infanzia è stata abitata, dalle bambine e dai bambini fin dai primi giorni di frequenza, con particolare entusiasmo e benessere dello stare all’interno dello spazio.

Fin da subito i bambini hanno mostrato capacità di ambientamento molto forti, disinvoltura nell’avvicinare l’architettura nel suo complesso, curiosità e desiderio di sperimentare, senza limiti, luoghi, spazi, arredi e peculiarità compositive dell’edificio (come gli scivoli presenti in tutte le sezioni e le molteplici vetrate che caratterizzano il nido).   

La ricognizione delle osservazioni delle educatrici delle varie sezioni si è focalizzata proprio sulle vetrate che compongono il nido; esse, infatti, sono state incontrate dai bambini in differenti modi, attraverso differenti punti di vista e sguardi che hanno portato il gruppo di lavoro a soffermarsi sul concetto di trasparenza.

Foto courtesty of Asilo nido iride

La trasparenza si pone come peculiarità che caratterizza fortemente il nostro nido; essa rappresenta un’unicità sul territorio e si connota come ridondanza all’interno della struttura.   

Ogni sezione, infatti, presenta su tutti i lati le trasparenze; è proprio dal concetto di trasparenza che è nata, successivamente, la scelta del nome Iride per il nido. Nome identitario, che connota e restituisce senso, valore e riconoscibilità a questa peculiare quanto oramai familiare struttura educativa.  

L’ambiente che circonda e stimola i bambini e le bambine, dunque, è stato visto e considerato da più prospettive. L’ambiente è educativo perché sostiene ed accresce la conoscenza; è promotore di scoperte sempre nuove e in divenire perché non pensato dagli adulti in modo chiuso e strutturato.   

Lo spazio non è solo a misura dei bambini, o realizzato per i bambini, ma è proprio dei bambini, è loro, perché lo costruiscono, lo modificano, lo vivono, lo abitano connotandolo e conferendogli identità. 

L’ambiente, infatti, è interpretato anche attraverso le sue caratteristiche affettive, come spazio relazionale in grado di sostenere dialoghi, interazioni e connessioni. Inoltre, riflette la cultura di chi lo abita e, al tempo stesso, costruisce una propria cultura. Per questo risulta fondamentale dare identità agli spazi che si vivono attraverso accoglienza – personalizzazione – assenza di anonimato per tendere al benessere dato dal legame tra la persona che vive l’ambiente e l’ambiente stesso. Infatti, la mancanza di relazione tra le cose e le persone che vivono in un ambiente è mancanza di ecologia. Gli spazi al nido sono progettati in funzione del benessere di chi li abita e in base alla loro capacità di sostenere i processi di apprendimento e di costruzione culturale.

Le bambine e i bambini, inoltre, guidati dalla curiosità innata di dare un senso al mondo, si pongono continuamente nuovi focus, nuovi territori di ricerca e di esplorazione. Questo deve essere tenuto presente quando si progettano gli spazi, gli ambienti, le situazioni, che sono “strumenti e contesti indiretti” che consentono l’esplorazione stessa; indiretti, ma non decontestualizzati, collocati, cioè, in situazioni e insiemi di significato.

Illustrazione © Isabella Conti

Le forme della biodiversità

Quando addentiamo un pezzo di Parmigiano Reggiano «siamo travolti da un sapore che amiamo e che vogliamo ritrovare di continuo». E proprio quel sapore è «il risultato di una grande storia, ma non solo».

«Mastichiamo con soddisfazione un pezzo incredibile di biodiversità: c’è il campo, da cui proviene il foraggio in cui hanno vissuto centinaia di specie di piante e di animali; godiamo del latte di antiche razze, come la bianca modenese, la frisona, la bruna e la vacca rossa reggiana, che è sul territorio da oltre mille anni, ma che avrebbe rischiato l’estinzione. E ci stiamo facendo del bene perché consumiamo un alimento probiotico per natura».

Parole e riflessioni di David Bianco, apprezzato esperto di biodiversità e conservazione della natura, responsabile dell’Area Ambiente per l’Ente di gestione per i Parchi e la Biodiversità dell’Emilia Orientale, che ha espresso spesso il suo entusiasmo nei confronti del Parmigiano Reggiano, come prodotto e come filiera rispettosa del territorio e degli animali.

Con David Bianco abbiamo affrontato un viaggio intenso nel tempo, nella geografia, nei campi, nelle stalle, nel latte e infine nella forma del Parmigiano Reggiano.

Il Parmigiano Reggiano nella storia e nella geografia dell’Emilia-Romagna

 «Il Parmigiano Reggiano si produce esclusivamente in un territorio che presenta condizioni ritenute peculiari: le province di Parma, Reggio Emilia, Modena, la sponda sinistra del fiume Reno nel Bolognese e la sponda destra del Po nel Mantovano», spiega Bianco, «in parte perché quest’area ha delle caratteristiche ecologiche e agricole speciali. E poi perché ci sono delle ragioni storiche e politiche».

Partiamo proprio dalla storia. Che cosa è successo tra Parma, Reggio Emilia e dintorni?
Oggi noi ci muoviamo con facilità e rapidamente da una città all’altra, viviamo in un mondo globalizzato. Un tempo non era così: ci si muoveva lentamente, le barriere geografiche e i limiti politici tra amministrazioni diverse condizionavano gli scambi e i passaggi in ogni territorio. 

L’economia agricola era il risultato di processi locali in cui le caratteristiche ambientali erano intimamente connesse a dinamiche produttive e commerciali.

Nel caso di questo straordinario formaggio, pare che sia stata molto importante la sapiente mano dei monaci, che hanno fatto fare passi da gigante all’agricoltura del territorio. I Benedettini, per esempio, hanno bonificato i terreni, hanno messo a punto modi di coltivare, di realizzare e tenere le stalle, di fare i vari formaggi e anche il parmigiano, la cui prima caratteristica è dunque quella di essere intimamente radicato al suo territorio di origine. 

Un altro elemento che mi piace ricordare è la presenza di una speciale razza bovina, la vacca rossa reggiana, che pare sia stata portata in Emilia durante le invasioni barbariche. In quell’epoca i bovini erano utilizzati per il lavoro e il latte era un prodotto in più. Ogni microregione aveva le sue razze adatte al contesto; molto nota è anche la vacca modenese, dal mantello bianco, particolarmente adatta alla produzione di latte da Parmigiano Reggiano e da anni presidio Slow food.

Per arrivare ai nostri tempi, come si è evoluta la situazione che si delineava già dal Medioevo?
Con le tradizioni che si sono consolidate, arriviamo al secondo dopoguerra, in cui le aziende che producevano il Parmigiano Reggiano erano più piccole di oggi e ben riconoscibili dal fatto di avere più tipologie di produzioni. A seconda delle zone era evidente un paesaggio assai vario per la rotazione delle colture: piantagioni di erba medica che venivano rinnovate dopo qualche anno, prati da fieno che si alternavano a seminati e altri elementi come filari di viti sostenute su aceri campestri o altre piante arboree; filari di gelsi e siepi campestri. Il paesaggio agrario era molto vario e ricco di biodiversità.

Dalla storia alla natura. I cicli chiusi e la biodiversità nelle aziende del Parmigiano Reggiano

«Le aziende chiudevano tutti i cicli: tutto il cibo proveniva dalla zona dell’azienda e anche tutto lo scarto contribuiva a produrre il letame».

Qual è l’importanza del letame in questa storia?
Il letame occupa uno spazio significativo per l’agricoltura: è una specie di meraviglia della biodiversità, a cui dobbiamo la fertilità dei terreni. Vi si ritrova la paglia, un prezioso scarto ottenuto dai campi di grano che veniva usato come lettiera nelle stalle e che incorporava le deiezioni degli animali. Posto nel letamaio, cominciava il silenzioso lavoro di batteri, funghi e lombrichi, producendo nel tempo un ottimo concime.

In questo senso si parla di una realtà che ha compreso tutte le potenzialità e i benefici della natura.
Esatto, ci si ritrova in un paesaggio di aziende agricole che hanno dei campi per produrre foraggio e altri per produrre grano, barbabietole e prodotti che consentano l’alternanza e la prosperità dei terreni. 

Visto dall’alto, si presenta tutto come un grande patchwork, con inserti di colore diverso che attirano lo sguardo. Una bella campagna, non certo monotona.

Se poi inforchiamo gli occhiali del naturalista possiamo fare tante scoperte. «In un campo di erba medica o in un seminativo per l’alternanza dei pascoli ci sono tante specie vegetali e questo è più facile riconoscerlo. La flora ricca voluta dall’uomo si mescola con altre specie vegetali spontanee e attira tanti altri ‘attori’ misconosciuti che, a ben guardare, potrebbero sedere tranquillamente al tavolo dello staff del Parmigiano Reggiano».

L’agroecosistema perfetto del Parmigiano Reggiano

Di che tipologia di “attori”, in termini di biodiversità, stiamo parlando?
Abbiamo molte farfalle, che nella prima fase della vita sono state bruchi, il grillo, la cavalletta, il bombo e molti altri insetti impollinatori, che altrove sono in grande crisi, ma nelle aree dove si produce il Parmigiano Reggiano e si mantengono campi di fieno sono ancora abbondanti. Questi insetti sono a loro volta mangiati da altri animali, da uccelli come la rondine, che magari fa il nido nella stalla, o il pipistrello, il balestruccio, il falco grillaio. Se troviamo delle siepi, poi, è possibile vedere il riccio e il rospo. Un tripudio di biodiversità importantissima, quella vegetale, che costituirà il cibo della mucca, influendo profondamente sui sapori del latte. Come sanno benissimo gli esperti, non è indifferente alla vacca mangiare piante diverse, perché condiziona il latte e determina il sapore del formaggio.

Le terre del Consorzio del Parmigiano Reggiano possiedono un eccezionale equilibrio ecologico che dipende dall’agroecosistema in cui avviene per tradizione l’allevamento e la produzione.

Foto di © David Bianco

Questo significa che da una parte c’è attenzione alle coltivazioni volute dall’uomo e, dall’altra, c’è anche uno sviluppo spontaneo di piante e altri organismi: un mix che può dare risultati eccellenti. Se poi si applica questo concetto al pascolo di montagna, si ottiene un grande prodotto, con una straordinaria natura.

Il connubio tra il campo e la stalla

«Una cosa importantissima», spiega David Bianco, «è che una volta ogni podere aveva una stalla e magari anche dal numero di bovine si capiva quanto era grande o redditizio il terreno. Prima, venti vacche significavano tanto, ed era fondamentale anche un fienile per alimentare gli animali d’inverno. Nel paesaggio tradizionale del Parmigiano Reggiano esiste una notevole varietà anche dal punto di vista architettonico: basta osservare le stalle, le case coloniche e il contesto circostante, tutto funzionale a una economia agraria circolare».

E oggi, come sono le stalle?
Sicuramente più grandi, per poter accogliere oltre un centinaio di bovine. Anche se architettonicamente meno belle, c’è più attenzione a lasciare spazi per muoversi a questi animali, e spesso gli ambienti sono arricchiti di elementi per il loro benessere, come grandi spazzole.

E in queste grandi stalle, oltre alle vacche, abitano anche altri animali.
Sì, possiamo riferirci alla tradizionale presenza di rondini e balestrucci, che possono trovare ambienti adatti per i loro nidi a coppa, fatti con fango e paglia. Sono utili perché mangiano i mosconi, per esempio. La loro presenza è fondamentale come nei campi e rappresenta una specie di congiunzione con la natura esterna. Suggerisco di favorire la loro presenza: purtroppo non tutti apprezzano, per via della caduta delle deiezioni: basta posizionare gli appositi nidi artificiali negli spazi più opportuni, oppure porre sotto al nido delle tavolette di legno che raccolgano gli scarti dell’allevamento dei piccoli. Sarebbe una specie di riconoscimento per il loro indefesso lavoro.

Nella forma del Parmigiano Reggiano, “una forma felice di biodiversità”

«L’ultima fantastica biodiversità che dobbiamo conoscere sta nel latte che viene prodotto da bovine trattate con attenzione in un agroecosistema così equilibrato.
Il Parmigiano Reggiano è fatto con il latte crudo. La sua carica microbica naturale deriva direttamente dal latte fresco.

La carica microbica è l’ultima parte dello “staff” che dovremmo immaginare nella “stanza dei bottoni” del Parmigiano Reggiano. Questa flora microbica evolve continuamente e questo è decisivo per il sapore del prodotto finale. 

Nelle diverse fasi, le varie popolazioni microbiologiche che vivono nel formaggio in maturazione cambiano, sfruttano certe sostanze, poi quello che residua da queste trasformazioni sarà utile per altri gruppi che vengono dopo e così via, fino alla parte finale della stagionatura».

«In questo modo si esaltano i profumi e certe caratteristiche che si avranno solo nelle ultime fasi di quello che definirei un passaggio evolutivo verso la maturazione finale. Se si produce il Parmigiano Reggiano oggi, infatti, lo si potrà assaggiare freschissimo tra 12 o 20 mesi, ma sarà meglio aspettare il 2025-2026. Questo è il risultato di un processo biologico ed ecologico in cui la parte più complicata sta proprio nell’assicurare a questo straordinario impasto fatto da latte scaldato, caglio e batteri, quel mix felice che porta ad avere un prodotto molto buono e quindi la biodiversità del latte che assomiglia un po’ al nostro microbiota intestinale e che ci fa anche tanto bene».

Torniamo al concetto di ecosistema: una forma in maturazione di Parmigiano Reggiano è come un piccolo ecosistema: «se noi guardassimo al microscopio il suo interno e la sua superficie, vedremmo le popolazioni cambiare spesso il loro ambiente, perché il substrato su cui loro vivono si trasforma, per rendere il formaggio come a noi piace, con quel gusto inconfondibile».

«Quella del Parmigiano Reggiano è una storia che unisce tante altre storie e tanti altri mondi», conclude David Bianco, «che dimostra come è possibile realizzare un prodotto di qualità in cui gli ingredienti possono essere tasselli di un mosaico e possono essere presi solo in un piccolo territorio, in un mondo che ha la necessità di andare più piano e amare di più quello che ha intorno».

Foto di © Stefano Marzoli

Un assaggio di storia della cucina

Il nome “Parmigiano Reggiano” è stato ufficializzato per la prima volta nel 1938, ma la storia di questa tipologia di formaggio risale già al medioevo. In questo editoriale di Agnese Portincasa ripercorriamo una delle storie che il formaggio “parmigiano” ha lasciato dietro di sé e seguiamo la sua evoluzione in cucina attraverso lo studio dei ricettari italiani tra Settecento e Ottocento.

In questi ultimi vent’anni ho letto una quantità inverosimile di ricette: raramente per cucinare qualcosa. E del resto questa è la grande ambiguità di chi mi sente raccontare che mi occupo di storia del cibo, della cucina, della gastronomia. “Sarai una cuoca bravissima”, affermano. E io rispondo che no, non è detto, e il solo pensarlo è un poco svilente. Certo ho alcuni cavalli di battaglia, ma non sono una che a Masterchef passerebbe le selezioni. Non ho un blog di cucina, né un profilo social dedicato, né siti tematici a mio nome. Non colleziono ricettari o menù, non raccolgo nulla che abbia a che fare con la cucina e la precettistica. Semplicemente: io la cucina la studio, e lo faccio confrontandomi con l’esigenza primaria data dalla mia formazione di storica che mi obbliga a utilizzare i documenti. 

Il problema è che la cucina è stata per secoli essenzialmente una pratica e ha lasciato dietro di sé rare tracce. 

Oggi, con l’avvento dei social, le cose sono decisamente cambiate: il cibo, il suo consumo e la sua preparazione sembrano essere diventate una delle nostre maggiori pre-occupazioni quotidiane e lasciano molte tracce; ci sarebbe da invidiare gli storici del futuro, e tuttavia andrebbe considerato come anche l’ipertrofia possa avere risultati simili alla scarsità. 

Ma prima della fase in cui siamo immersi la cucina era per lo più il campo di un nebbioso silenzio, difficile da penetrare: memore della lezione di Massimo Montanari, Alberto De Bernardi, Alberto Capatti, una ventina di anni fa mi sono messa a studiare le specifiche tracce lasciate nei ricettari italiani pubblicati fra la fine del Settecento e gli anni Ottanta del Novecento, con qualche incursione nella proliferazione editoriale del presente. 

Ho passato molto tempo ad analizzarli, sfogliarli, confrontarli per usarli come documenti per la storia. O meglio per rischiarare la nebbia e percorrere qualche sentiero utile a capire cos’è stata la cucina nel territorio italiano, quali ingredienti e strumenti l’hanno accompagnata, quali gusti, desideri, valori e mentalità sono passati attraverso i libri che qualche editore, nel tempo, ha deciso di pubblicare per lasciare un segno di valore collettivo, di significato sociale. Qualche anno fa il mio lavoro di dottorato è diventato un libro: Scrivere di gusto.1

Proprio studiando le ricette che mi sarebbero servite come fonte per la storia contemporanea ho incontrato il parmigiano tante volte, prima ancora che diventasse “il Parmigiano Reggiano”. 

Del resto era inevitabile: essendomi occupata di primi piatti, leggevo spesso, in conclusione dei testi che scorrevo, di come occorresse una spolverata di formaggio grattugiato per l’ottima riuscita della ricetta. E, nella precettistica da me analizzata, le notazioni sull’utilizzo di parmigiano si trovano già nei ricettari municipali di fine Settecento. 

E allora cominciamo da lì, con l’intento di proporre una lettura inedita che si fermerà appena prima di Pellegrino Artusi de La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene (1891). Insomma appena prima di quello che i più considerano l’esordio della cucina nazionale italiana. 

Ne Il cuoco piemontese perfezionato a Parigi del 1766 (traduzione compilativa di un’opera francese di grande successo che si intitolava La cuisiniére bourgeoise), le ricette di primi piatti sono soltanto 22 a fronte di un complessivo di ben 862, ma il formaggio parmigiano compare in tutte le preparazioni, soprattutto quando la vivanda prevede un passaggio finale in forno, prima di essere servita. Più caratterizzata è la scelta di Antonio Nebbia, autore de Il Cuoco maceratese (la cui prima edizione è datata 1781), che non tralascia di specificare come ogniqualvolta si faccia menzione al parmigiano si debba intendere che sia grattugiato, e nel secondo volume aggiunge: 

Nel decorso di questa operetta, trattando io di far zuppe o altri piatti di magro, troverà chi legge che mi servo di butiro o formaggio parmigiano. Avverto però che, mancando quelli due generi, si può servire dell’olio dolce in vece del butiro e del formaggio nostrale dolce in luogo del parmigiano, e se saranno giorni di grasso, invece dell’olio e del burro si può servire dello strutto buono, e se è vigilia dell’olio, solo olio dolce.

Alla fine del Settecento, nell’Italia centrale dove questo ricettario circolava per lo più, si rimanda a una situazione che doveva essere consueta e nella quale sono contemplati cuochi che, non trovando disponibilità di una specifica materia prima, sono invitati a utilizzare un prodotto del territorio genericamente dolce – e chissà quanti formaggi di pecora saranno finiti a svolgere tale ruolo sostitutivo – capace di garantire risultati simili a un originale che ammette, già nel precetto, una possibile variabilità. 

Verrebbe quasi da affermare – se non risultasse profondamente antistorico – che la necessità/volontà di trovare un modo per sostituire i prodotti di eccellenza di alcune tipicità territoriali che oggi sono al centro del fenomeno dell’Italian sounding, fosse una questione dirimente assai prima che i flussi migratori degli Italiani all’estero e poi l’avvento del mercato globalizzato facessero circolare nel mondo i nostri prodotti-bandiera. Certo a quell’epoca le cose stavano diversamente da oggi e uno dei problemi per i cuochi professionali era la scarsa capillarità di un mercato nel quale prevalevano ancora il contado e la prossimità, e dove una cosa era avere sentito nominare o assaggiato il parmigiano, un’altra cosa era riuscire ad averne disponibilità, soprattutto fuori dai mercati urbani. 

Ricordo che questa questione era una delle più complesse da fare comprendere ai miei studenti alla Facoltà di Economia dell’Università di Parma, dove per quattro anni ho insegnato Storia del cibo e dell’alimentazione. Commetteremmo un errore storico grossolano se volessimo identificare l’eccellenza di un prodotto solo come il risultato di una lunga storia che si origina in un passato tanto remoto quanto le sue attestazioni d’uso o la rilevanza nei ricettari professionali sarebbero in grado di accertare. 

Non esiste, insomma, una storia unidirezionale e lineare che, identificato l’inizio di un processo, dà senso compiuto a ciò che mettiamo a valore nel tempo presente. 

La lettura dei ricettari rimarca semmai altre questioni cui avvicinarci con curiosità. Già alla lettura di poche battute ci si rende conto di come i libri di cucina alla fine del Settecento siano ancora opere complesse, in più volumi e/o con centinaia di ricette, pensate per gli addetti ai lavori. Certo la speranza delle case editrici si stava lentamente aprendo alla possibilità di attirare ed educare un pubblico borghese, più vasto di quello dei tecnici. Tuttavia in Italia, almeno fino ad Artusi, questa possibilità resterà solo sulla carta. Si tratta, inoltre, di opere che danno ancora grande spazio alla cucina di magro e di grasso: una distinzione che si era resa necessaria dai precetti del cristianesimo, già connotanti nelle scelte alimentari medievali, e che è ancora rilevante in questa fase storica, tanto da spingere autori e compilatori a conservare separate sezioni per la descrizione dell’una e dell’altra. 

Sempre alla fine del Settecento nelle opere enciclopediche Il cuoco galante (Vincenzo Corrado, 1778) e L’Apicio moderno (Francesco Leonardi, 1790) il parmigiano è un condimento versatile utilizzato per insaporire svariate vivande prima del passaggio in forno o per gli impasti (con la mollica, le carni, i formaggi morbidi). Con questi due autori aumentano i riferimenti alle preparazioni dette alla parmigiana, in parmigiano o al parmigiano: si tratta di un dettaglio significativo perché ci troviamo di fronte a due noti cuochi professionisti che firmano a loro nome svariati trattati gastronomici. 

47 ricette (28 in Corrado, 19 in Leonardi) sono identificate grazie a un gastrotoponimo (per intenderci, quando nel nome della ricetta c’è un chiaro riferimento a un luogo, a un territorio) ancora oggi molto diffuso nelle cucine regionali che sono base e sostanza dell’idea stessa di cucina italiana. Entrando nel dettaglio dei singoli precetti ci si rende conto di come il parmigiano avesse spesso la funzione di insaporire carni non pregiate per stemperarne il sapore forte. Già nel corso dell’Ottocento, e poi con maggior forza nel corso del Novecento, il sempre minor uso di frattaglie nelle consuetudini di una cucina di area italiana farà lentamente diradare questo binomio carne/parmigiano che resisterà connotante nelle preparazioni con verdure. 

Addentrandosi nell’Ottocento due ricettari meritano di essere citati per la valorizzazione di cucine locali urbane destinate a diventare veri e propri riferimenti della tradizione regionale italiana: la cucina napoletana di Ippolito Cavalcanti nella Cucina teorico-pratica (1837) e quella genovese di Giovanni Battista Ratto ne La cuciniera genovese (qui con qualche difficoltà a isolare l’anno della prima edizione, ma siamo fra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta dell’Ottocento). 

In una ricetta di maccheroni, Cavalcanti specifica che la pasta deve essere cotta vierd vierd (leggi al dente) e condita con cacio vecchio o provola. Qui non è dato sapere che tipo di formaggio sia quel cacio, probabilmente perché nell’Italia meridionale – ancora borbonica – il termine ha una genericità riferita a usi gergali e dialettali molto diffusi anche in Italia centrale e negli usi linguistici toscani (in svariati ricettari ottocenteschi si fa riferimento a pasta incaciata o incasciata). 

Ma che Cavalcanti usasse il parmigiano è evidente nelle prescrizioni in cui il cacio è identificato il solito formaggio parmigiano, con un riferimento a una consuetudine invalsa nell’uso. 

Anche più a nord, negli usi liguri di Ratto, il formaggio grattugiato è spesso la finitura dei primi piatti. Difficilmente ne è indicata la qualità o la provenienza, ma nel dizionario genovese-italiano che correda l’opera è presente la voce Piaxentin, tradotta con «cacio parmigiano o lodigiano». Però nella ricetta del Pesto l’abbinamento di formaggio sardo e formaggio parmigiano è già ratificata. 

Accade diversamente nella ricetta delle Lasagne alle genovese dove è previsto l’utilizzo di un cacio che può essere romano, o di Olanda, o di Cagliari, secondo il gusto. In questo caso il parmigiano pare essere l’unico formaggio non contemplato: i riferimenti a Roma e alla Sardegna sembrano identificare con chiarezza formaggi di pecora, più sapidi e pungenti, mentre la citazione dell’unico formaggio vaccino della lista – probabilmente il Leida invecchiato come spesso ricorrente – conferma che il risultato finale si deve contraddistinguere per una nota piccante. 

Ma forse la cosa più interessante in questo precetto si trova nel passaggio in cui si suggerisce una scelta “secondo il gusto” che elegge la preferenza personale/famigliare/territoriale come una scelta di valore. In un libro che insegna come fare qualcosa sembra una contraddizione, eppure non lo è, o almeno non lo era. Alcuni ricettari ottocenteschi – non è un caso che si tratti di pubblicazioni che codificano usi regionali, più liberi di spaziare nella variabilità propria del territorio – accolgono con leggerezza il fatto che si possa cucinare con quello che si preferisce o con quello che c’è. 

È una considerazione che potrebbe aiutare a interpretare non solo gli usi del passato, ma anche quelli della cucina di un mondo iperconnesso e culinariamente contaminato come quella contemporanea. 

Verrebbe da pensare che forse il nostro sguardo si stia orientando verso un gusto che fatica sempre di più a stare dentro precetti normativi costruiti su schemi professionali e/o delle cucine nazionali/territoriali. 

Fare quello che si preferisce con quello che c’è in fondo non è altro che la resistenza che la pratica di cucina oppone, almeno da quando si può parlare di cucina borghese, ai trattati che tentano di codificarla entro uno schema costrittivo. Trattati che restano, tuttavia, strumenti preziosi, perché è fra le loro pagine che continua ad avvenire l’incontro/scontro fra usi della consuetudine e spinte all’innovazione.

Illustrazione © Camilla Pintonato

Nota [1] Opera riletta per scrivere questo pezzo e che considero come un bilancio delle mie ricerche, al quale rimando anche per il ricco corredo di note e per la bibliografia.

Lipu e la salvaguardia degli uccelli e della biodiversità

La storia di LIPU e le sfide del prossimo decennio per la salvaguardia del capitale naturale, con l’esempio pionieristico della cooperazione con il Consorzio del Parmigiano Reggiano.

«Perché tacciono le voci della primavera in innumerevoli contrade d’America?».

Con una domanda inquietante, la biologa e zoologa statunitense Rachel Carson cominciava il suo trattato più famoso, “Primavera silenziosa”, nel 1962.
In un solo colpo, la scienziata lasciava la sua impronta nella coscienza profonda degli Usa che andavano verso il ’68 (quello che tra tante cose ha impresso nell’immaginario collettivo l’idea un po’ hippy e naïf di una nuova connessione tra uomo e natura); ne rendeva più concreta l’essenza, però, cambiando per sempre l’approccio all’agricoltura che metteva finalmente al bando fitofarmaci tossici come il Ddt. E avviava una seria riflessione sul senso dell’ecologia e delle azioni concrete che si potevano realizzare perché le attività umane non nuocessero mortalmente all’uomo stesso.

La Lipu e i suoi pilastri
Tre anni dopo l’uscita del saggio di Carson, nella primavera del 1965, il naturalista, etologo e filosofo Giorgio Punzo si appresta a leggere il giornale sul terrazzo di casa, nella sua Napoli. Indignato per la notizia della ripresa della stagione venatoria, osserva commosso un passero solitario posarsi accanto a lui. È la sua epifania: il suo modo per opporsi al declino culturale rappresentato dalla caccia in un mondo fragile è aprire l’associazione di volontariato Lenacdu, Lega nazionale contro la distruzione degli uccelli. Le prime tre sedi sono nel capoluogo partenopeo, a Roma e a Firenze.

L’associazione entra a far parte di una prestigiosa rete internazionale: The International Council for Bird Preservation (Icpb), fondata nel 1922, dunque fresca centenaria, oggi denominata BirdLife International.

Nel 1971 arriva l’iconico logo dell’upupa, disegnato dal Fulco Pratesi, fondatore del WWF Italia. Nel 1975 si passa alla sigla attuale, LIPU, più semplicemente Lega italiana protezione uccelli. Oggi Casa Lipu ha sede legale a Parma e conta circa 30 mila sostenitori, 1500 volontari e gestisce una trentina di riserve naturali in tutto il territorio nazionale. Il presidente è Aldo Verner, il direttore generale Danilo Selvaggi.

Con Claudio Celada, direttore dell’area Conservazione natura per l’associazione, abbiamo dialogato sulla mission e sulle azioni che Lipu mette in campo per la conservazione degli uccelli, in un contesto sempre più complesso e critico, in cui molto spesso la Lega italiana per la protezione degli uccelli ha trovato la sponda di enti pubblici e di aziende. Primi fra tutti, il Consorzio del formaggio Parmigiano Reggiano, pionieri in un campo di studio fondamentale per lo sviluppo sostenibile in Italia.

Claudio Celada è nella Lipu dal 2000. Prima di allora, per cinque anni, ha conseguito un PhD in Conservation ecology alla University of Alberta, in Canada.

«I pilastri dell’azione della Lipu sono la conservazione degli uccelli e della biodiversità e l’aspetto della sensibilizzazione e dell’educazione ambientale. Da questi temi fondamentali derivano tutte le nostre strategie d’azione».

L’impegno della Lipu contro il bracconaggio e la caccia
«Un paradigma del funzionamento della Lipu nel contesto internazionale di BirdLife è quello della conservazione degli uccelli migratori», spiega Celada, «perché i volatili attraversano confini di tutto il mondo, quindi un’azione cooperativistica è fondamentale. Noi cerchiamo di mitigare tutte le minacce cui sono sottoposti nel loro duplice viaggio annuale».

Seguire la rotta di un uccello migratore può servire proprio per fare affiorare tutte le criticità ambientali che il mondo deve affrontare di questi tempi.

Ma qual è il primo problema da affrontare nella tutela degli uccelli migratori?
«Anzitutto la loro uccisione mirata e illegale: il fenomeno del bracconaggio. Secondo gli studi scientifici di BirdLife, solo in Italia questo fenomeno miete da 5 a 7 milioni di vittime. Ed è ancora molto diffuso in Italia. Nei siti maggiormente impattati da questo fenomeno portiamo avanti severe attività di contrasto all’illegalità, in stretta collaborazione con le istituzioni e con le forze dell’ordine, ma ci adoperiamo anche per sensibilizzare la popolazione, perché è anche un tema culturale e se non si agisce su quel campo; l’azione di repressione da sola non basta. Per esempio, in uno dei cosiddetti black spot (le aree più critiche per il bracconaggio), nel sud della Sardegna, con un liceo artistico di Cagliari abbiamo portato avanti una bella iniziativa di coinvolgimento degli studenti che hanno realizzato un murales sul tema con l’aiuto dell’artista Manu Invisible».

Sul bracconaggio, che è un’attività illegale, potremmo essere d’accordo tutti, ma che senso può avere perseguire l’attività venatoria, dunque legale, quando la scarsità e i cambiamenti climatici mettono a rischio la vita di tutti, uccelli compresi?
«Chi è socio della Lipu non può essere a favore della caccia, una pratica arcaica da abbandonare. Ma la direttiva europea ‘Uccelli’, così come la legge nazionale in materia, la prevedono e consentono, ma noi sappiamo che la situazione è drammaticamente cambiata negli ultimi decenni. In particolar modo per i migratori a lungo raggio, che spesso sono oggetto di caccia, ma anche per le specie alpine come la pernice bianca, la coturnice o altre che sappiamo essere davvero in grave difficoltà.

E, soprattutto, sappiamo che gli scenari climatici per il futuro sono pessimi, quindi ci saranno degli ulteriori cali nella popolazione aviaria. Dunque, al di là delle considerazioni di ordine etico e di sensibilità personale che uno può fare, un ragionamento meramente ecologico e di sostenibilità demografica rende evidente che la maggior parte delle specie cacciabili, non lo sono in modo sostenibile».

E come è possibile contrastare questo andamento?
«Ogni anno dobbiamo investire tempo e risorse nostre per fare ricorsi contro i calendari venatori delle Regioni, che continuano a prendere delle decisioni palesemente squilibrate da un punto di vista pro-caccia, cioè sembrano ignorare il fatto che c’è un progressivo deterioramento dello stato di conservazione di molte specie».

Non mi sembra comprensibile, e dunque spiegabile, questo sbilanciamento delle Regioni. A chi conviene?
«Questa è la domanda sulla quale vogliamo lavorare nei prossimi dieci anni, perché ci rendiamo conto che sarà molto difficile sradicare una cultura molto presente a livello regionale, anche se non mancano eccezioni positive. In questo senso, noi parliamo di zona grigia, qualcosa che formalmente è legale, ma ecologicamente non ha nessun senso. E il lavoro dei prossimi anni è fare uscire dal grigio queste dinamiche e portarle in un ambito di solidità scientifica».

I danni dell’agricoltura intensiva per gli uccelli e la proposta sostenibile della Lipu
Un’altra grande minaccia è l’agricoltura intensiva: «ha di fatto ridotto molte specie che di solito abitano gli ecosistemi agricoli, perché ne ha distrutto il cibo. C’è stato un vero tracollo della disponibilità di insetti, poi sono venuti meno anche i siti idonei alla nidificazione».

Per questo motivo la Lipu ha una linea di lavoro sulla Pac, la politica agricola europea, perché l’obiettivo è duplice: «da un lato far sì che la Pac possa ridare spazio alla natura, e dall’altro non abbandonare gli agricoltori, dal punto di vista della salute, della sostenibilità sociale ed economica del loro lavoro».

La collaborazione tra Lipu e Parmigiano Reggiano
Proprio per verificare la sostenibilità delle produzioni agricole a servizio del Parmigiano Reggiano si è sviluppata un’innovativa collaborazione della Lipu con il Consorzio.

Parmigiano Reggiano ha acconsentito a uno studio degli ecosistemi sui terreni del territorio del Consorzio. Racconta Claudio Celada: «Abbiamo incontrato la sensibilità dell’azienda già nel 2009, quando realizzammo lo studio regionale che cominciava a sancire una riduzione dell’avifauna agricola locale già significativa, e che oggi si attesta intorno al -37% del Farmland Bird Index – cioè le condizioni di abbondanza dell’avifauna in ambito rurale. Significa che in questi ultimi venti anni ci sono il 37% di uccelli in meno che abitano le zone agricole. Un dato molto pesante che riguarda soprattutto le specie che nidificano o si alimentano a terra e che rappresenta un vero e proprio collasso ecologico. Si tratta di specie peculiari come l’allodola, il saltimpalo, la pavoncella. Sono diminuite drasticamente, così come altre specie che hanno bisogno di siepi o di un mosaico di boschi e zone aperte, come anche la tortora, l’upupa, il torcicollo».

E dallo studio con il Consorzio del Parmigiano Reggiano che cosa ne è risultato?
«Quello che abbiamo visto in quello studio è che nell’area del Consorzio del Parmigiano Reggiano i prati stabili e medicali sono più abbondanti rispetto ad altre aree di controllo esterne, e quindi c’erano più uccelli in termini di diversità di specie, come il già citato saltimpalo e il cuculo. Poi c’era un focus sulla specie dello strillozzo, uno zigolo delle zone aperte; un focus sulla rondine, per la cui prosperità entrano in gioco anche le caratteristiche delle stalle dove sono tenuti gli animali, che devono essere aperte per poterle accogliere».

«All’interno dell’area del Consorzio le cose andavano meglio che altrove nei termini della diversità di specie, abbondanza e specie target. Le aree del Parmigiano Reggiano presentano, dunque, un maggiore spazio per la nidificazione a terra, che può sempre essere ampliato, una gestione sempre più virtuosa dello sfalcio, più attenta a non distruggere gli habitat dei nidificanti. Inoltre, un sempre minore uso di pesticidi ed erbicidi permette maggiore prosperità. Date queste ottime premesse, negli anni ci aspettiamo un sempre maggiore progresso nelle aree del Consorzio, in un quadro ecologico migliore di altri, soprattutto in pianura».

La Lipu e il contrasto al cambiamento climatico
Trattare della conservazione degli uccelli e delle loro migrazioni senza parlare del cambiamento climatico è come ammirare la bellezza di un’upupa e poi piantarle un colpo di doppietta: non ha senso.

«Le modalità con le quali il cambiamento climatico incide sulle migrazioni e sulla vita degli uccelli ha spinto BirdLife a sollecitare interventi urgenti per limitare i danni prima della catastrofe, come sottolinea l’ultimo rapporto State of the World’s Birds 2022».

«Per via del cambiamento climatico, per molte specie la migrazione viene posticipata e questa variazione temporale può comportare la drastica diminuzione della disponibilità di cibo, sia per chi viaggia sia per chi si riproduce. Viene meno anche la sincronia tra il ciclo di vita degli insetti e quello degli uccelli».

«Poi ci sono le specie non migratrici. Il cambiamento climatico si avverte in modo più drastico sulle catene montuose, e sulle Alpi il surriscaldamento è il doppio della media globale. Questo implica che le specie tipiche degli ambienti aperti, come i pascoli, siano a rischio, perché il limite arboreo aumenta di quota, cioè i cambiamenti climatici fanno sì che gli alberi crescano dove prima non arrivavano, invadendo gli spazi aperti al pascolo».

«Allo stesso tempo, i pascoli non possono salire di quota, perché incontrano un substrato roccioso che non è idoneo ad accogliere nuovi habitat pascolivi. Ne risulta un problema mortale per specie come la pernice bianca, il fringuello alpino, lo spioncello e il sordone».

«Per queste specie abbiamo elaborato uno studio internazionale in ambito panalpino e siamo stati in grado di individuare quelli che saranno i cosiddetti rifugi climatici nei prossimi decenni, cioè quelle aree che manterranno la loro idoneità a ospitare le specie a rischio. In questo senso, quello che si cerca di fare è di mappare come questi habitat nel futuro saranno distribuiti, e come le specie che dipendono da questi ambienti aperti potranno continuare a sopravvivere».

Avete ottenuto dei buoni risultati?
«Nel report di BirdLife si evidenzia la drammaticità della situazione, che ha portato il mondo a perdere in 20 anni specie che erano sul pianeta da 30 milioni di anni, ma anche la possibilità di invertire ancora la rotta con le buone pratiche di habitat restoration, che almeno in Europa dovrebbero riportare la situazione a livelli soddisfacenti entro il 2030».

«Per molti aspetti della sostenibilità ambientale stiamo superando la soglia di non ritorno e le soluzioni non possono essere del vecchio modello business as usual. Bisogna ristorare il nostro capitale naturale il più velocemente possibile».

Foto di copertina e galleria © Antonio Mantovani 
Foto naturalistiche © Davide Brozzi e Luigi Sebastiani

Unterthiner: un approccio lento alla natura

Scaglie presenta il nuovo editoriale di Stefano Unterthiner, fotografo naturalista e divulgatore scientifico. Proprio come la produzione del Parmigiano Reggiano richiede un approccio lento che va dalla produzione al controllo della qualità, al rispetto e all’attenzione per la natura e per il mondo animale; questo progetto, ispirandosi ai valori del Consorzio del Formaggio Parmigiano Reggiano, racconta l’importanza dell’esperienza dell’attesa e del rispetto dei tempi della natura.

Mi viene chiesto spesso cosa c’è dietro le mie fotografie, come ho realizzato alcune immagini o come sono riuscito  ad avvicinare quell’animale, con quale obiettivo ho scattato o quale “trucco” ho utilizzato. E poi, immancabilmente: “Chissà quanta pazienza c’è voluta per riuscire a immortalare quel momento!”. Di fronte a quest’ultima affermazione, rimango sempre un po’ sorpreso.

L’attesa accanto a un animale è il lato più gratificante del mio lavoro, anche più del risultato finale: è fondamentale per ottenere lo scatto “perfetto” che inseguo in ogni mio progetto. 

L’aspetto forse meno noto del mio lavoro, però, si nasconde dietro un’altra domanda: perché faccio fotografia naturalistica. 
Per rispondere devo fare qualche passo indietro, tornare ai giorni in cui, per la prima volta, presi in mano la fotocamera e mi avventurai in montagna alla ricerca di un animale selvatico. Avevo poco più di sedici anni quando mio zio Paolo mi prestò una delle sue Canon e mi portò a fotografare qualche stambecco nel Parco Nazionale del Gran Paradiso. Tra i sentieri della Valsavarenche e della Valnontey, nacque la mia grande passione per la fotografia. 

In quegli anni, compresi quanto sia gratificante avvicinare un animale selvatico, quanto possa essere emozionante trascorrere una notte all’addiaccio, quanto è appagante passare una giornata girovagando tra boschi e praterie alpine.

Furono esperienze molto importanti perché mi avvicinarono alla natura. La fotocamera diventò la scusa per tornare in montagna a vivere una nuova avventura, il taccuino su cui annotare ciò che osservavo e imparavo. Oggi, trent’anni dopo quei giorni spensierati tra le amate montagne valdostane, il mio rapporto con la fotografia è cambiato, è maturato e non poteva essere altrimenti; ciò che è ancora intatto, però, sono l’amore per la natura e una grande attrazione per la fauna selvatica. Ed è qui la risposta a quella domanda taciuta: faccio fotografia naturalistica perché nella natura sono felice, perché sono ancora convinto, nonostante tutto, che la fotografia e la divulgazione possano contribuire a diffondere una maggiore attenzione verso l’ambiente e le altre specie.

Sui sentieri di montagna della mia giovinezza, ho imparato una regola che ho continuato ad applicare anche quando la fotografia è diventata una vera professione: il rispetto per i miei soggetti.

È sempre necessario prestare attenzione quando si ha una fotocamera in mano e si ambisce a fare una buona immagine. Imparare ad avvicinare un animale, senza interferire col suo comportamento e tutelando il suo benessere, è un aspetto essenziale in una fotografia naturalistica contemporanea ed etica. Prima di iniziare a lavorare a un nuovo progetto mi preparo con attenzione: leggo tutto ciò che è stato pubblicato sulla specie, prendo contatto con i ricercatori, pianifico lo sviluppo della storia, inizio anche a immaginare alcune fotografie (una sorta di “scatto mentale”) che poi cercherò di  realizzare.

Una preparazione meticolosa che affino successivamente sul terreno, col tempo e le osservazioni; per me è indispensabile per cercare di limitare il disturbo che posso eventualmente arrecare a un animale, e mi aiuta nel processo di  creazione della storia. 

Se c’è un “trucco”, dietro le mie immagini, è proprio questo mio approccio lento e non improvvisato alla fotografia, lo studio preliminare  della specie, la pazienza necessaria a farsi accettare da un animale selvatico, l’abilità a diventare una presenza discreta, abituale, un elemento dell’ambiente, fino a raggiungere una sorta “d’invisibilità”. I miei migliori scatti li ho realizzati ogniqualvolta sono riuscito a trovare questo magico equilibrio con i soggetti.  

Nel 2004, per esempio, sono riuscito ad instaurare  un rapporto molto speciale con una famiglia di volpi mentre lavoravo al capitolo conclusivo del libro dedicato proprio a questa specie e volevo fotografare l’attività intorno alla tana. La femmina, però, era piuttosto diffidente, e se avesse percepito la mia presenza come un pericolo avrebbe anche potuto spostare i cuccioli da un’altra parte. Ho trascorso diversi giorni nei paraggi per darle tempo di abituarsi, ogni giorno avvicinandomi un po’ di più, inizialmente nascondendomi sotto un telo mimetico, poi semplicemente accovacciandomi tra la vegetazione. Iniziai a fare le prime fotografie soltanto dopo una decina di giorni. A poco a poco, la mia presenza venne accettata dalla famigliola, tanto che i cuccioli, sempre curiosi di tutto ciò che accadeva loro intorno, arrivarono addirittura ad annusarmi gli scarponi. Con il passare delle settimane, l’attività attorno alla tana riprese come se io non fossi lì: ero visibile eppure “nascosto”, presente eppure “dimenticato”. Ricordo un episodio, in particolare: era l’ultima settimana che avrei passato in loro compagnia, e i tre cuccioli, esausti dopo essersi rincorsi attorno al grande masso che sovrastava la tana, si rannicchiarono accanto a dove mi ero appostato e si addormentarono. Ogni volta che rivedo quell’immagine percepisco ancora la magia del momento, l’emozione che provai.

Quando ho iniziato a riflettere sul contenuto di questo editoriale mi sono chiesto cosa avessi imparato negli anni trascorsi a documentare la fauna, cosa mi hanno insegnato le tante esperienze sul campo in giro per il mondo. Nel Sulawesi settentrionale ho conosciuto e fotografato Troublemaker, che non è il soprannome di una persona ma di un cinopiteco (Macaca nigra il nome scientifico): una rarissima specie di macaco presente soltanto nelle foreste nel Nord-Est della grande isola indonesiana. Il nomignolo, che in inglese significa letteralmente “combina-guai”, era stato dato dai ricercatori a un giovane maschio che faceva parte del gruppo da loro seguito nella riserva naturale di Tangkoko. Come suggerisce l’appellativo, quel maschio aveva un comportamento particolarmente vivace e curioso, aveva la tendenza a combinare sempre qualche dispetto ai ricercatori, ma anche al sottoscritto: lo trovavo irresistibilmente simpatico (per altri era insopportabile!). Riconoscere Troublemaker è semplice; basta incontrarlo una volta per non dimenticarlo, e dopo aver trascorso sei settimane con quel gruppo di primati mi divennero familiari numerosi altri macachi: ognuno riconoscibile per qualche chiara caratteristica morfologica e, soprattutto, con un diverso temperamento, un proprio distinto carattere. Ciò che la primatologa Jane Goodall aveva documentato per i suoi amati scimpanzé, l’ho osservato chiaramente nel cinopiteco:

ogni animale possiede non soltanto caratteristiche funzionali uniche, ma anche una personalità assolutamente definita.

Una prerogativa che non è esclusiva solo dei primati – l’ordine di mammiferi di cui facciamo parte anche noi – ma probabilmente, come suggerito da alcuni studi, è comune a moltissimi vertebrati. Questa è una  consapevolezza che ho sempre avuto, soprattutto dopo aver  trascorso lunghi periodi accanto ai miei amati soggetti selvatici, ed è alla base del rispetto, dell’etica del mio lavoro a cui accennavo precedentemente. La volpe, l’orso, la lontra, il cigno selvatico (l’elenco potrebbe essere lungo…) non sono “semplici” animali, automi guidati soltanto dall’istinto, ma degli individui, esseri viventi con tratti non solo fisici, ma anche comportamentali ben distinti. Chiunque possieda un animale domestico sarà dello stesso avviso: un gatto o un cane ha certamente, agli occhi dei loro proprietari, una propria e chiara personalità. 

Tra il 2006 e il 2007 ho trascorso, assieme a mia moglie Stéphanie, cinque mesi sull’isola della Possession, nell’arcipelago di Crozet, che fa parte delle Terre Australi e Antartiche Francesi (TAAF). Un luogo remoto, raggiungibile soltanto con diversi giorni di navigazione, dove la natura è ancora integra e l’uomo solo una presenza marginale, circoscritta all’interno della base scientifica che ospita una trentina di persone. A Possession ho trovato un mondo selvaggio, primordiale.

Ho percorso quelle terre spazzate dal vento, cercando e creando immagini, imparando a conoscere e a farmi conoscere dagli altri animali: ho nuotato con i pinguini, ascoltato i canti degli albatri, camminato sulle scogliere accompagnato dall’incedere lento di un’orca sotto costa. In quelle terre lontane ho sentito, com’ero riuscito a fare, forse, soltanto da ragazzo tra le montagne valdostane, quanto profondamente io sia legato alla natura.

Ho capito, ancora una volta, che la natura è tutto ciò di cui ho bisogno. Quella spedizione nell’isola di Possession, mi ha dato la possibilità di riflettere  su quale sia una condizione fondamentale per il benessere di tutti gli animali, Homo sapiens incluso: un ambiente quanto più integro possibile. L’arcipelago di Crozet è una delle poche wilderness che ancora rimangono nel nostro sofferente pianeta. La semplice definizione riportata in un dizionario è sufficiente per capire l’importanza di queste aree: “La natura nel suo stato originario, non ancora contaminata da interventi umani che abbiano compromesso l’habitat favorevole alla conservazione delle varie diversità biologiche”. Questi luoghi, veri e propri bacini di biodiversità, stanno però scomparendo a un ritmo sconcertante: negli ultimi vent’anni ne abbiamo perso il 10% e, attualmente, soltanto il 23% circa della superficie terrestre è ancora integro. 

Nelle città e nelle periferie abbiamo imparato – o forse dimenticato?- come trovare il nostro benessere anche senza natura, circondati dalla tecnologia, invece che da alberi, con in mano l’amato smartphone a rubarci troppo spesso l’attenzione e così anche tante specie si sono adattate a vivere in ambienti fortemente antropizzati. Ma è vero benessere? Mi è sufficiente fare ciò che ho imparato da ragazzo, incamminarmi su un sentiero di montagna, per trovare la mia risposta.

Illustrazione © Elisa Talentino, Foto © Stefano Unterthiner

Aurora Cavallo: il cibo ci unisce

Aurora Cavallo, nella vita digitale, è Cooker girl. Classe 2001, a soli 15 anni, questa brillante e determinata ragazza decide di aprire un blog culinario con uno pseudonimo per mettere alla prova le sue abilità. Era un gioco, ma come spesso accade quando a guidare la storia sono le logiche dei social, il suo profilo in poco tempo diventa una reale opportunità e guadagna moltissimi follower, prima su TikTok, e poi anche su Instagram.

Tradizione e famiglia, ricette di cuore e di casa sono il centro della narrazione di questa giovane che ha saputo cogliere le possibilità del digitale per creare qualcosa che non esisteva e che oggi è parte determinante della sua carriera, della sua vita e del suo successo. Il segreto è uno solo: una spontaneità unica, che si fonde con la capacità naturale di coinvolgere i follower rendendoli partecipi della sua positività, del suo dinamismo e della sua allegria ai fornelli. 

I nonni sono il punto di riferimento, una costante fonte di ispirazione a cui dedica ricette mescolate a ricordi. Da gioco a realtà, questa esperienza ha segnato anche la scelta dei suoi studi: oggi Aurora è una studentessa all’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo e, da questa esperienza formativa, sta acquisendo gli strumenti per aiutare i ragazzi della sua età ad avere un rapporto più corretto e consapevole con il cibo.

I social network diventano un mezzo per comunicare alle giovani generazioni l’uso sano e consapevole del cibo, spesso scegliendo prodotti locali e biologici. 

La collaborazione con il sito GialloZafferano e l’uscita del suo libro La cucina scaldacuore. Storie, ricette e segreti hanno contribuito ad accrescere la sua popolarità soprattutto tra la Gen Z, che vede in lei un modello da cui imparare sempre nuove ricette e avere nuovi spunti sull’alimentazione.

Come scegli le ricette da condividere?
Le ricette che condivido rispecchiano totalmente la mia quotidianità e i miei gusti, a volte condivido cosa ho preparato per cena o per pranzo, in altro momento invece ho voglia di una focaccia, un dolce pazzesco che ho visto su Instagram e voglio provare a farlo: le mie ricette rispecchiano sempre il mio percorso in cucina. Sono sicuramente al 100% ricette che, in primis, mi diverte fare, ma soprattutto mangiare. Il mio rapporto col cibo è legato a un aspetto che va ben oltre il semplice nutrirsi, quello c’è ed è importante, ma ha un valore più ampio, come la condivisione, la dimostrazione d’affetto. Se voglio dire “ti voglio bene” lo faccio con una torta, che per me vale più di mille parole! 

Ma come ti nutri normalmente? Mangi tutto ciò che posti? 
La mia alimentazione non è ciò che posto, magari posto spesso ricette sfiziose, ma non le mangio ogni giorno. Ho un’alimentazione abbastanza standard, a me piace molto la cucina asiatica, cucino spesso quella tipologia di piatti. Mangio le stesse cose, magari fatte in modo diverso, non seguo una dieta particolare. Mi regolo da sola, a volte è un momento un po’ più detox, altre mi lascio trasportare da una cena più particolare: la parola chiave è equilibrio. Non sto dicendo nulla di nuovo, sia chiaro, è solo ciò che cerco di mettere in atto nella mia quotidianità. Ognuno vive l’alimentazione in modo molto personale.

Com’è il tuo rapporto con il cibo nella vita privata? Che cosa ti piace di più scegliere?
La mia cucina preferita è quella italiana, non potrei vivere senza pasta e pizza. Apprezzo quella asiatica, infatti mi piacciono molto le spezie e i sapori decisi. Che sia un formaggio stagionato, un pad thai con tantissime spezie, un curry io impazzisco! Il mio piatto preferito è la più semplice pasta al pomodoro. Vivo in un piccolo paese, dove non c’è l’approvvigionamento di ingredienti che può esserci a Milano o in altre grandi città. Sono molto curiosa e quando viaggio provo sempre piatti particolari, anche nell’università che frequento siamo spinti a conoscere nuove tradizioni e culture culinarie.

Come valorizzi la sostenibilità nelle tue ricette e nel tuo lavoro?
Sostenibilità è un termine che si presta a molte interpretazioni, non vi è una definizione universale e questo è un problema, forse uno dei primi: infatti si può usare questa parola anche in modo sbagliato. La mia interpretazione è cercare, nel mio piccolo, di supportare una sostenibilità di tipo sociale: pagare il giusto per un prodotto, perché dare il giusto valore economico al cibo è importante, e questa cosa noi la stiamo un po’ perdendo. La sostenibilità è anche ambientale: non sono vegetariana o vegana, ma conosco l’impatto dell’industria della carne sul cibo. Cerco di ridurre i consumi di prodotti animali, però per il background che ho – nata in Piemonte dove agricoltura e allevamento sono comunque alla base dell’economia – per il momento non mi sento di eliminare del tutto questi alimenti dalla dieta. Conosco tante famiglie che vanno avanti grazie alla loro azienda di allevamento di bovini. Bisogna conoscere, diventare curiosi, chiedere, capire ciò che compriamo e rispettare dei limiti.

Qual è la tua cucina preferita? Come scegli la tua materia prima e i prodotti da usare nelle ricette ma anche nella tua alimentazione quotidiana? 
Se devo scegliere, mi piace sperimentare ricette vegetariane e vegane, non sono una grande fan della carne, ne mangio poca. Ho la fortuna di vivere in un paesino, e sottolineo “fortuna”! Il Piemonte ti dà la possibilità di conoscere più facilmente le fonti di materie prime, qui è diverso rispetto a Milano. Il mercato è il posto che preferisco, ho il mio banco preferito. Conoscere le persone è importante, conoscere il produttore vuol dire conoscere il prodotto.

Qual è il valore aggiunto e il contributo che vuoi dare con il tuo lavoro al mondo del cibo? Che cosa pensi ti differenzi dagli altri?
Per me il cibo non è solo nutrizione, ma ha un forte valore sociale e comunitario, e questo aspetto è ciò che sento più vicino a me. Credo sia questa la mia causa: l’aspetto comunitario. Cerco di condividere un profilo gioioso, che sorride: in un certo senso, il cibo è condivisione, gioia, fermarsi, sedersi a tavola e raccontarsi.

Questo mi differenzia dagli altri: non c’è niente di più vero della frase “food brings people together”. La sposo totalmente. La tua crescita, in termini di followers e popolarità, si è tradotta anche in una crescita dal punto di vista professionale, con una maggiore consapevolezza e attenzione a certe tematiche?

A livello professionale, il mio modo di comunicare è cambiato moltissimo con la crescita della fanbase. Imparare a conoscersi a vicenda aiuta a capire cosa puoi dire e cosa non puoi, perché alla fine, anche se attraverso i social, sono sempre io, Aurora. Capisci quanto alcune tematiche siano tanto vicine sia a te che alla community a cui ti rivolgi. L’altro giorno, ad esempio, parlavo del mercato, e spiegavo che c’erano due tipi di zucchine diverse: io, seppur a un prezzo più alto, ho deciso di scegliere quella del Roero e ho spiegato che dietro a prezzi molto bassi potrebbe nascondersi situazioni di caporalato e altri problemi. Il riscontro che ho avuto è stato molto positivo: non hanno solo espresso solidarietà con la mia scelta, ma hanno condiviso con me il loro punto di vista. Questo è il dibattito che preferisco, perché così ho possibilità di interfacciarmi con altre persone con background culturali, economici e sociali diversi dai miei.

Che cosa ti evoca nella memoria il Parmigiano Reggiano e qual è il tuo primo ricordo legato a una “scaglia” di formaggio? 
Il primo ricordo che mi viene in mente è legato ai pasti dai genitori di mio papà dove c’è sempre il formaggio e viene grattugiato esclusivamente sul momento da nonno Beppe: loro non conoscono il formaggio già grattugiato. Lui lo ama, e ama in particolare il Parmigiano Reggiano con la pasta al burro. È un ricordo magnifico.

Foto © Gabriele Stabile