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Radikon, vini senza scorciatoie

di Mariavittoria Salucci, 1 Giugno 2022
Tempo di lettura: 10 minuti
Radikon, vini senza scorciatoie

Come la produzione del Parmigiano Reggiano inizia dai prati, anche nel mondo vitivinicolo esiste una parola, terroir, che fa riferimento a tutte quelle condizioni, geografiche, chimiche e naturali, che permettono di realizzare un vino unico e inimitabile, frutto delle singolarità del territorio d’origine.

Dal terreno al clima, dalle viti ai viticoltori, ogni luogo racchiude storie e caratteristiche ineguagliabili. Oslavia è uno di questi, un angolo di cultura e di alta artigianalità, a pochi chilometri da Gorizia, e ancora meno dal confine sloveno. Lì, tra i vigneti del Collio, si trovano i Magnifici Sette della Ribolla, che non sono nuovi supereroi della Marvel, bensì sette cantine, tra le più importanti in Italia e nel mondo, specializzate in vini macerati sulle bucce.

In questa enclave di vini naturali e sinergie diffuse, Saša Radikon è cresciuto tra gli esperimenti del padre, Stanko, per poi maturare le proprie esperienze e arrivare, oggi, a guidare l’azienda. I vini di Radikon sono una questione di terra, di sensibilità e di tempo, in grado di trasmettere l’identità del territorio e di rispettare le attese della natura.

Come ha raccontato Saša, non importa chi tra i sette abbia adottato per primo questa tecnica del passato, ma è significativo che si sia creata una comunità che ha saputo dargli seguito e che è diventata un simbolo dell’intero territorio.

Iniziamo con un po’ di nostalgia, qual è il tuo più bel ricordo legato al vino?
Uno dei ricordi più belli legati al vino è una giornata in cantina con mio padre, Stanko. Stavamo assaggiando i vini direttamente dalle botti e chiacchieravamo di quello che avevamo in cantina. In quel periodo c’erano i 2006 e i 2007; e diciamo che si potevano distinguere due “fazioni”: io preferivo il 2007, mentre lui il 2006.

E, a distanza di anni, chi aveva “ragione”?
Alla fine possiamo dire che sono risultate entrambe due grandi annate.

Tuo padre ha lasciato una grande eredità, ma anche un’enorme sfida. Tu stai portando avanti il lavoro inaugurato da Stanko, rendendolo tuo, nel rispetto della terra e del futuro. Come riassumeresti il tuo pensiero e la sua filosofia?
Il mio pensiero è sempre rivolto al rispetto della natura, al rispetto di tutto l’ambiente che ci circonda, dall’uva al terreno.

Quello che voglio fare, e che provo a fare, è trasmettere i sapori e i profumi della nostra terra e dei suoi frutti a chi consuma il nostro vino.

La filosofia di Stanko, non troppo diversa, consisteva nel trasmettere la sua conoscenza e il suo modo di fare al vino stesso: produceva il vino che gli piaceva e poi lo faceva bere agli altri.

Ed è riuscito a farlo andando controcorrente; partendo dall’acciaio e arrivando alla macerazione in grandi tini a tronco conico. Ci racconteresti il senso di queste sue scelte?
Negli anni Ottanta i primi vini di Stanko erano fatti in acciaio, ma la loro neutralità non lo ha mai convinto. Ha quindi prima cercato il legno in stile francese, con le barriques, che lo hanno accompagnato fino ai primi anni Novanta. E poi ha scelto di andare più in profondità: voleva estrarre di più con le macerazioni e recuperare sia la tradizione del contatto con le bucce, che quella delle botti grandi. Alla base di tutto c’è sempre stata la ricerca e la volontà di portare in bottiglia i sapori dell’uva e della terra.

Azienda Radikon

Si dice che la tradizione sia un’innovazione ben riuscita. Come vedi il futuro del vino? Sarà qualcosa legato alle nuove tecnologie o ulteriori riscoperte della tradizione?
Credo che il futuro del vino sia in realtà un mix delle due: la tradizione ha bisogno di innovazione per migliorarsi e per adattarsi al momento. Però l’innovazione non deve influenzare i risultati finali in modo eclatante. Alla base di tutto ci dev’essere sempre un’uva sana e genuina, è importante ricordare che le scorciatoie non esistono.

Soprattutto se hai a che fare con la natura! Da che cosa nascono le tue selezioni?
Le selezioni nascono dai vigneti stessi, e vengono prodotte con le uve migliori dell’annata, sempre se questa lo concede.

Fai uvaggi [raccolta simultanea di varietà diverse, NdA], blend [miscelazione di vini di varietà diverse, NdA] o entrambi?
Entrambi. O…… e Slatnik sono degli uvaggi: le uve vengono raccolte lo stesso giorno, o al massimo con un giorno di distanza, e messe a macerare negli stessi tini.
RS invece è un blend in quanto i vini vengono uniti dopo la fermentazione alcolica, perché le uve sono mature con alcuni giorni di distanza e sarebbe quindi impossibile fare un uvaggio.

I primi esperimenti di macerazione sulle bucce sono stati fatti con la Ribolla; un vitigno della tradizione del Collio, che ruolo assume il territorio nei tuoi processi di vinificazione?
Il concetto di territorio dev’essere inteso nel senso più ampio, comprendendo il terreno, il vitigno, e anche il clima. E tutti questi aspetti hanno un ruolo estremamente importante nella nostra vinificazione, in quanto la mineralità ci permette di avere un’uva matura senza perdere l’acidità, il che costituisce la base per i lunghi invecchiamenti.

Come si sente dire, “il buon vino nasce in vigna” ma anche in cantina! C’è un vitigno che preferisci?
È difficile individuare il figlio preferito, ci sono momenti diversi per vini diversi. Se proprio dovessi fare una scelta, il vitigno che mi dà più soddisfazioni in campagna è la Ribolla, mentre ciò che mi entusiasma di più in questo momento in cantina è lo Jakot.

Stanko definiva il suo approccio “naturale”, “senza compromessi”, anche tu segui un modello che tende a preservare l’ecosistema, evitando ogni prodotto chimico. In questo periodo di crisi climatica credi che questo metodo possa essere scalabile e d’aiuto?
La produzione del vino è strettamente legata alla natura e ovviamente meno interazioni siamo capaci di compiere, meglio è.

Il mio approccio, come quello di mio padre, è cercare di utilizzare soltanto il minimo indispensabile, al fine di preservare l’originalità dell’uva.

È ovvio che una produzione di questo tipo non può essere a impatto zero. Sta nella nostra coscienza cercare di ripristinare un equilibrio che per tanti anni abbiamo sbilanciato: prendersi cura dei prati, dei boschi e dei corsi d’acqua, fa parte del nostro impegno per aiutare la flora e la fauna a riprendersi parte di quello che è loro.

Oggi siamo abituati a sentir parlare di Orange Wine e di vini biodinamici. Come ti relazioni con le definizioni e che cosa ne pensi di queste etichettature?
La definizione di Orange Wine negli anni è stata molto utile, perché ha permesso alle persone che si stavano approcciando a questo mondo di capire che non sono vini bianchi. È una tecnica riscoperta e oggi è una nuova categoria di vino, riconosciuta dai consumatori a livello mondiale. La biodinamica, invece, è un insieme di pratiche agricole basate su sani principi, a volte di difficile applicazione. Sotto l’espressione vino biodinamico, però, ricadono spesso troppi vini; è quindi un termine forse abusato.

Il Collio friulano e il Brda sloveno sono due facce della stessa collina, composte dalla stessa ponca. In un certo senso il vino valica i confini nazionali; saresti favorevole alla creazione di una denominazione interstatale?
Fino a circa un secolo fa, per 400 anni, il Collio e il Brda sono stati uniti sotto l’Impero austro-ungarico. Il confine politico emerso dopo la Prima guerra mondiale ha effettivamente diviso delle colline omogenee, e le differenza di pensiero e quelle che hanno a che vedere con legislazione (sia nell’ultimo secolo, coi due “blocchi” contrapposti, sia ora, come Stati membri dell’Unione Europea) continuano a tenere separati questi territori. Per una denominazione interstatale purtroppo sono gli Stati che dovrebbero mettersi d’accordo, e non credo sia possibile nel breve periodo.

E ritieni che Oslavia sia una comunità? Nel senso, c’è scambio e condivisione tra i produttori della zona?
Oslavia è un’isola felice, fra di noi andiamo abbastanza d’accordo e da più di 10 anni ci stiamo impegnando, attraverso l’Associazione Produttori Ribolla di Oslavia, per promuovere il nostro territorio all’unisono. Ovviamente con alcuni produttori c’è maggiore scambio di opinioni, ma sicuramente ci sentiamo parte di una comunità.

La vendemmia è storicamente associata a un momento di festa e di condivisione, oggi si vive ancora così?

La vendemmia è in effetti il momento più felice dell’anno, è la nascita di un vino e quindi sì, è ancora un momento di festa, che mi piace condividere con la famiglia e con tutti quelli che vi partecipano.

Che cosa significa per te «fare comunità»?
Fare comunità per me significa impegnarmi nel mantenere i rapporti con le persone intorno a me, condividere le mie esperienze, cercare di carpire un insegnamento dalle esperienze altrui, essere presente in caso di bisogno o, semplicemente, esserci per fare due chiacchiere.

Foto © Vittoria Lorenzetti presso l’Azienda Radikon

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