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EDITORIALE

Un assaggio di storia della cucina

di Agnese Portincasa, 15 Novembre 2022
Tempo di lettura: 5 minuti
Un assaggio di storia della cucina

Il nome “Parmigiano Reggiano” è stato ufficializzato per la prima volta nel 1938, ma la storia di questa tipologia di formaggio risale già al medioevo. In questo editoriale di Agnese Portincasa ripercorriamo una delle storie che il formaggio “parmigiano” ha lasciato dietro di sé e seguiamo la sua evoluzione in cucina attraverso lo studio dei ricettari italiani tra Settecento e Ottocento.

In questi ultimi vent’anni ho letto una quantità inverosimile di ricette: raramente per cucinare qualcosa. E del resto questa è la grande ambiguità di chi mi sente raccontare che mi occupo di storia del cibo, della cucina, della gastronomia. “Sarai una cuoca bravissima”, affermano. E io rispondo che no, non è detto, e il solo pensarlo è un poco svilente. Certo ho alcuni cavalli di battaglia, ma non sono una che a Masterchef passerebbe le selezioni. Non ho un blog di cucina, né un profilo social dedicato, né siti tematici a mio nome. Non colleziono ricettari o menù, non raccolgo nulla che abbia a che fare con la cucina e la precettistica. Semplicemente: io la cucina la studio, e lo faccio confrontandomi con l’esigenza primaria data dalla mia formazione di storica che mi obbliga a utilizzare i documenti. 

Il problema è che la cucina è stata per secoli essenzialmente una pratica e ha lasciato dietro di sé rare tracce. 

Oggi, con l’avvento dei social, le cose sono decisamente cambiate: il cibo, il suo consumo e la sua preparazione sembrano essere diventate una delle nostre maggiori pre-occupazioni quotidiane e lasciano molte tracce; ci sarebbe da invidiare gli storici del futuro, e tuttavia andrebbe considerato come anche l’ipertrofia possa avere risultati simili alla scarsità. 

Ma prima della fase in cui siamo immersi la cucina era per lo più il campo di un nebbioso silenzio, difficile da penetrare: memore della lezione di Massimo Montanari, Alberto De Bernardi, Alberto Capatti, una ventina di anni fa mi sono messa a studiare le specifiche tracce lasciate nei ricettari italiani pubblicati fra la fine del Settecento e gli anni Ottanta del Novecento, con qualche incursione nella proliferazione editoriale del presente. 

Ho passato molto tempo ad analizzarli, sfogliarli, confrontarli per usarli come documenti per la storia. O meglio per rischiarare la nebbia e percorrere qualche sentiero utile a capire cos’è stata la cucina nel territorio italiano, quali ingredienti e strumenti l’hanno accompagnata, quali gusti, desideri, valori e mentalità sono passati attraverso i libri che qualche editore, nel tempo, ha deciso di pubblicare per lasciare un segno di valore collettivo, di significato sociale. Qualche anno fa il mio lavoro di dottorato è diventato un libro: Scrivere di gusto.1

Proprio studiando le ricette che mi sarebbero servite come fonte per la storia contemporanea ho incontrato il parmigiano tante volte, prima ancora che diventasse “il Parmigiano Reggiano”. 

Del resto era inevitabile: essendomi occupata di primi piatti, leggevo spesso, in conclusione dei testi che scorrevo, di come occorresse una spolverata di formaggio grattugiato per l’ottima riuscita della ricetta. E, nella precettistica da me analizzata, le notazioni sull’utilizzo di parmigiano si trovano già nei ricettari municipali di fine Settecento. 

E allora cominciamo da lì, con l’intento di proporre una lettura inedita che si fermerà appena prima di Pellegrino Artusi de La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene (1891). Insomma appena prima di quello che i più considerano l’esordio della cucina nazionale italiana. 

Ne Il cuoco piemontese perfezionato a Parigi del 1766 (traduzione compilativa di un’opera francese di grande successo che si intitolava La cuisiniére bourgeoise), le ricette di primi piatti sono soltanto 22 a fronte di un complessivo di ben 862, ma il formaggio parmigiano compare in tutte le preparazioni, soprattutto quando la vivanda prevede un passaggio finale in forno, prima di essere servita. Più caratterizzata è la scelta di Antonio Nebbia, autore de Il Cuoco maceratese (la cui prima edizione è datata 1781), che non tralascia di specificare come ogniqualvolta si faccia menzione al parmigiano si debba intendere che sia grattugiato, e nel secondo volume aggiunge: 

Nel decorso di questa operetta, trattando io di far zuppe o altri piatti di magro, troverà chi legge che mi servo di butiro o formaggio parmigiano. Avverto però che, mancando quelli due generi, si può servire dell’olio dolce in vece del butiro e del formaggio nostrale dolce in luogo del parmigiano, e se saranno giorni di grasso, invece dell’olio e del burro si può servire dello strutto buono, e se è vigilia dell’olio, solo olio dolce.

Alla fine del Settecento, nell’Italia centrale dove questo ricettario circolava per lo più, si rimanda a una situazione che doveva essere consueta e nella quale sono contemplati cuochi che, non trovando disponibilità di una specifica materia prima, sono invitati a utilizzare un prodotto del territorio genericamente dolce – e chissà quanti formaggi di pecora saranno finiti a svolgere tale ruolo sostitutivo – capace di garantire risultati simili a un originale che ammette, già nel precetto, una possibile variabilità. 

Verrebbe quasi da affermare – se non risultasse profondamente antistorico – che la necessità/volontà di trovare un modo per sostituire i prodotti di eccellenza di alcune tipicità territoriali che oggi sono al centro del fenomeno dell’Italian sounding, fosse una questione dirimente assai prima che i flussi migratori degli Italiani all’estero e poi l’avvento del mercato globalizzato facessero circolare nel mondo i nostri prodotti-bandiera. Certo a quell’epoca le cose stavano diversamente da oggi e uno dei problemi per i cuochi professionali era la scarsa capillarità di un mercato nel quale prevalevano ancora il contado e la prossimità, e dove una cosa era avere sentito nominare o assaggiato il parmigiano, un’altra cosa era riuscire ad averne disponibilità, soprattutto fuori dai mercati urbani. 

Ricordo che questa questione era una delle più complesse da fare comprendere ai miei studenti alla Facoltà di Economia dell’Università di Parma, dove per quattro anni ho insegnato Storia del cibo e dell’alimentazione. Commetteremmo un errore storico grossolano se volessimo identificare l’eccellenza di un prodotto solo come il risultato di una lunga storia che si origina in un passato tanto remoto quanto le sue attestazioni d’uso o la rilevanza nei ricettari professionali sarebbero in grado di accertare. 

Non esiste, insomma, una storia unidirezionale e lineare che, identificato l’inizio di un processo, dà senso compiuto a ciò che mettiamo a valore nel tempo presente. 

La lettura dei ricettari rimarca semmai altre questioni cui avvicinarci con curiosità. Già alla lettura di poche battute ci si rende conto di come i libri di cucina alla fine del Settecento siano ancora opere complesse, in più volumi e/o con centinaia di ricette, pensate per gli addetti ai lavori. Certo la speranza delle case editrici si stava lentamente aprendo alla possibilità di attirare ed educare un pubblico borghese, più vasto di quello dei tecnici. Tuttavia in Italia, almeno fino ad Artusi, questa possibilità resterà solo sulla carta. Si tratta, inoltre, di opere che danno ancora grande spazio alla cucina di magro e di grasso: una distinzione che si era resa necessaria dai precetti del cristianesimo, già connotanti nelle scelte alimentari medievali, e che è ancora rilevante in questa fase storica, tanto da spingere autori e compilatori a conservare separate sezioni per la descrizione dell’una e dell’altra. 

Sempre alla fine del Settecento nelle opere enciclopediche Il cuoco galante (Vincenzo Corrado, 1778) e L’Apicio moderno (Francesco Leonardi, 1790) il parmigiano è un condimento versatile utilizzato per insaporire svariate vivande prima del passaggio in forno o per gli impasti (con la mollica, le carni, i formaggi morbidi). Con questi due autori aumentano i riferimenti alle preparazioni dette alla parmigiana, in parmigiano o al parmigiano: si tratta di un dettaglio significativo perché ci troviamo di fronte a due noti cuochi professionisti che firmano a loro nome svariati trattati gastronomici. 

47 ricette (28 in Corrado, 19 in Leonardi) sono identificate grazie a un gastrotoponimo (per intenderci, quando nel nome della ricetta c’è un chiaro riferimento a un luogo, a un territorio) ancora oggi molto diffuso nelle cucine regionali che sono base e sostanza dell’idea stessa di cucina italiana. Entrando nel dettaglio dei singoli precetti ci si rende conto di come il parmigiano avesse spesso la funzione di insaporire carni non pregiate per stemperarne il sapore forte. Già nel corso dell’Ottocento, e poi con maggior forza nel corso del Novecento, il sempre minor uso di frattaglie nelle consuetudini di una cucina di area italiana farà lentamente diradare questo binomio carne/parmigiano che resisterà connotante nelle preparazioni con verdure. 

Addentrandosi nell’Ottocento due ricettari meritano di essere citati per la valorizzazione di cucine locali urbane destinate a diventare veri e propri riferimenti della tradizione regionale italiana: la cucina napoletana di Ippolito Cavalcanti nella Cucina teorico-pratica (1837) e quella genovese di Giovanni Battista Ratto ne La cuciniera genovese (qui con qualche difficoltà a isolare l’anno della prima edizione, ma siamo fra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta dell’Ottocento). 

In una ricetta di maccheroni, Cavalcanti specifica che la pasta deve essere cotta vierd vierd (leggi al dente) e condita con cacio vecchio o provola. Qui non è dato sapere che tipo di formaggio sia quel cacio, probabilmente perché nell’Italia meridionale – ancora borbonica – il termine ha una genericità riferita a usi gergali e dialettali molto diffusi anche in Italia centrale e negli usi linguistici toscani (in svariati ricettari ottocenteschi si fa riferimento a pasta incaciata o incasciata). 

Ma che Cavalcanti usasse il parmigiano è evidente nelle prescrizioni in cui il cacio è identificato il solito formaggio parmigiano, con un riferimento a una consuetudine invalsa nell’uso. 

Anche più a nord, negli usi liguri di Ratto, il formaggio grattugiato è spesso la finitura dei primi piatti. Difficilmente ne è indicata la qualità o la provenienza, ma nel dizionario genovese-italiano che correda l’opera è presente la voce Piaxentin, tradotta con «cacio parmigiano o lodigiano». Però nella ricetta del Pesto l’abbinamento di formaggio sardo e formaggio parmigiano è già ratificata. 

Accade diversamente nella ricetta delle Lasagne alle genovese dove è previsto l’utilizzo di un cacio che può essere romano, o di Olanda, o di Cagliari, secondo il gusto. In questo caso il parmigiano pare essere l’unico formaggio non contemplato: i riferimenti a Roma e alla Sardegna sembrano identificare con chiarezza formaggi di pecora, più sapidi e pungenti, mentre la citazione dell’unico formaggio vaccino della lista – probabilmente il Leida invecchiato come spesso ricorrente – conferma che il risultato finale si deve contraddistinguere per una nota piccante. 

Ma forse la cosa più interessante in questo precetto si trova nel passaggio in cui si suggerisce una scelta “secondo il gusto” che elegge la preferenza personale/famigliare/territoriale come una scelta di valore. In un libro che insegna come fare qualcosa sembra una contraddizione, eppure non lo è, o almeno non lo era. Alcuni ricettari ottocenteschi – non è un caso che si tratti di pubblicazioni che codificano usi regionali, più liberi di spaziare nella variabilità propria del territorio – accolgono con leggerezza il fatto che si possa cucinare con quello che si preferisce o con quello che c’è. 

È una considerazione che potrebbe aiutare a interpretare non solo gli usi del passato, ma anche quelli della cucina di un mondo iperconnesso e culinariamente contaminato come quella contemporanea. 

Verrebbe da pensare che forse il nostro sguardo si stia orientando verso un gusto che fatica sempre di più a stare dentro precetti normativi costruiti su schemi professionali e/o delle cucine nazionali/territoriali. 

Fare quello che si preferisce con quello che c’è in fondo non è altro che la resistenza che la pratica di cucina oppone, almeno da quando si può parlare di cucina borghese, ai trattati che tentano di codificarla entro uno schema costrittivo. Trattati che restano, tuttavia, strumenti preziosi, perché è fra le loro pagine che continua ad avvenire l’incontro/scontro fra usi della consuetudine e spinte all’innovazione.

Illustrazione © Camilla Pintonato

Nota [1] Opera riletta per scrivere questo pezzo e che considero come un bilancio delle mie ricerche, al quale rimando anche per il ricco corredo di note e per la bibliografia.

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