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Turismo in punta di piedi

Nata nel 1990 a Salerno, Teresa Agovino è ingegnere ambientale, consulente di turismo sostenibile e anche green influencer.

Teresa non vuole “solo” salvare il pianeta, ma si impegna a divulgare la possibilità di viaggiare lasciando impronte positive e scoprendo realtà autentiche, affinché sempre più persone possano percorrere questa strada insieme a lei. 

Anche il territorio del Parmigiano Reggiano nasconde dei piccoli tesori di turismo sostenibile: leggere tutto per credere.

Raccontare quello che fai è complesso, perché non ti fermi mai. Da che cosa è iniziato tutto?

Come direbbe Steve Jobs, ho unito i puntini a ritroso. Quando ho concluso l’università ero sicura solo di una cosa: non volevo lavorare in un’azienda. Mi sono chiesta quale potesse essere esattamente il mio percorso, ma non ne avevo proprio idea. Ho fatto un Erasmus in Andalusia, in Spagna, dove mi sono occupata di approfondire le tecnologie che utilizzano la radiazione solare per rendere potabile l’acqua. Poi ho trovato un’esperienza di cooperazione internazionale con una ONG in Africa, nella Tanzania centrale, dove stavano lavorando proprio sulla potabilizzazione. Lì c’è stata una sorta di epifania. Mi trovavo in un villaggio che non riceveva acqua da più di tre mesi, gli abitanti bevevano da laghetti e pozzanghere, il che provocava vari problemi sanitari e infezioni, specie per i bambini. Una volta arrivata il capovillaggio è venuto a salutarmi, prendendomi le mani e pregandomi di far arrivare l’acqua. Era insolito, perché il capovillaggio non toccherebbe mai una donna, oltretutto bianca. È stato in quel momento che, molto emozionata, mi sono resa conto del “potere” che avevo, e che avrei potuto mettere le mie conoscenze e competenze a disposizione sia del pianeta che delle comunità locali. Ho fatto uno studio di fattibilità e ho cercato di usare una tecnologia che avessero sul territorio e che permettesse loro di continuare a gestire l’impianto senza la necessità di rifarsi sempre all’Europa.

Ho usato il solare e la Moringa Oleifera, una pianta che hanno lì, e questo è stato il mio primo vero lavoro sostenibile, ovvero avvalersi delle risorse che un territorio ha e fornirle alla popolazione.

© Giovanni Cocco /Scaglie / LUZ

Sostenibilità infatti significa sì ambiente, ma anche persone. E così ti occupi di turismo sostenibile, che cosa significa?

Esatto, dopo l’esperienza in Tanzania ho fatto un percorso con le Nazioni Unite per diventare consulente di turismo sostenibile, perché mi sono resa conto che il turismo, soprattutto nelle zone più remote, genera un impatto negativo consistente. Sono diventata auditor di terza parte di enti di certificazione, cioè sono quella persona che si reca in una struttura turistica e valuta se è veramente sostenibile, e se non lo è l’accompagna verso una maggiore sostenibilità e rilascia la certificazione a nome di questi enti (come Biosphere, Green Globe e Travelife).

Facciamo un passo indietro, qual è la definizione più semplice di “turismo sostenibile”?

Ci sono varie definizioni di sicuro più accademiche e complete, come quella delle Nazioni Unite, a me piace questa: un turismo in punta di piedi, ovvero che sia rispettoso dell’ambiente e delle comunità locali.

È un turismo che oggi ci fa fruire delle risorse, ma le lascia anche alle generazioni future.

“In punta di piedi” è un’immagine che significa ok, visitiamo la destinazione, ma non lasciamo un’impronta talmente pesante che rischi di danneggiarla in maniera irrimediabile. Per fare un esempio, sono stata in Perù, nei pressi di Machu Pichu, nella zona di Cuzco, dove mi sono occupata di un progetto legato al turismo sostenibile. Lì c’è Vinicunca, chiamata anche la “montagna arcobaleno”, che ha avuto un boom esponenziale di popolarità perché una influencer era capitata lì per caso e aveva messo delle foto su Instagram. La popolazione stava soffrendo molto la presenza dei turisti e quindi sull’altro versante della montagna abbiamo intrapreso insieme un percorso proprio per sviluppare un circuito turistico che fosse più rispettoso della comunità locale e dell’ambiente.

I social condizionano parecchio la scelta delle mete turistiche, da un lato è positivo perché permettono la scoperta di nuove realtà, dall’altro possono avere ripercussioni negative sul territorio, pensiamo al caso del lago di Braies in Alto Adige. Tu come la vedi?

Dipende molto dalla destinazione. Se il posto è già pronto a ricevere un turismo (sostenibile ovviamente) allora è certamente positivo, perché dà un boost a tutta la parte di marketing e promozione. Però deve aver progettato tutto per gestire i flussi, la parte di ingresso e di parcheggi, utilizzare navette green, oppure contingentare il numero di persone che visitano un certo luogo. Ma se succede come in Perù, dove quel posto era conosciuto praticamente solo dai locali e da un giorno all’altro è arrivato un numero spropositato di turisti, allora è negativo: non sono pronti, non hanno fatto un percorso di studio della destinazione né di coinvolgimento dei residenti. In generale è uno strumento utile, ma dipende dal momento e dalla destinazione.

E a proposito di destinazioni, quali altri viaggi e progetti hai portato avanti?

Ho fatto varie esperienze a metà tra l’ingegneria, la cooperazione e il turismo sostenibile.

Mi sono occupata di educazione ambientale in alcune scuole remote del Laos, mentre in Thailandia ho sostenuto uno zoo nella transizione a santuario, per aumentare il benessere degli elefanti. Poi ho lavorato nella zona periferica di Lima, in Perù, dove ho fatto un progetto di gestione dei rifiuti con dei ragazzi delle scuole, e mi sono spostata giù sul lago Titicaca. Lì al confine con la Bolivia mi sono occupata di efficientamento energetico di alcune strutture turistiche. In Ecuador ho fatto audit di sostenibilità, valutando vari centri di recupero degli animali della fauna selvatica. Ma sono stata in molti altri Paesi, finché non sono ritornata in Italia prima della pandemia.

© Giovanni Cocco /Scaglie /LUZ

Appena si arriva sul tuo sito c’è scritto non possiamo evitare di lasciare impronte, ma possiamo scegliere come farlo. Ecco, come possiamo fare? 

Io partirei dal porsi una domanda: quando viaggiamo in un Paese qual è l’impatto che generiamo con le nostre azioni? Se ci rendiamo conto di quello che può essere effettivamente l’impatto riusciamo già a ridurlo. Provo a fare un esempio banale; mettiamo che io vada in Madagascar e mi porti nel beauty lo shampoo, il balsamo, il sapone, o tutta una serie di prodotti in involucri di plastica. Quando li finisco, questa plastica devo buttarla, e sì ci sono dei cestini, ma il punto è proprio chiedersi: ma qui c’è una struttura tale da poter gestire i rifiuti? Se la risposta è vagamente “non lo so”, allora significa che quella plastica andrà ad appesantire tutto un sistema già delicato di gestione. Se invece mi pongo la domanda, mi informo, cerco delle risposte e agisco, magari parto da casa con lo shampoo solido. In base a ciò posso ripensare quello che porto per ridurre la mia impronta. Non vorrei banalizzare troppo, ma se presentassi una lista di “10 cose da fare” potrebbe valere per un posto e non per un altro.

Per me, invece, è importante spingere alla riflessione, costruire una consapevolezza personale che permetta di prendere decisioni in base alla destinazione.

Le impronte che lasciamo sono anche di tipo sociale. Il turismo occidentale è ossessionato dalla meraviglia esotica e porta a spettacolarizzare determinate culture. Come nel caso delle donne giraffa” birmane, che stanno ferme in strada per essere fotografate

Sì esatto, quello delle donne Padaung è un caso emblematico. Si tratta di un’etnia birmana che anni fa è scappata dal regime per una serie di persecuzioni militari, cercando asilo politico nel nord della Thailandia, al confine. Loro hanno sempre utilizzato queste collane e anelli d’ottone su collo, polsi e caviglie, e ci sono varie leggende che circondano questa tradizione. In ogni caso, una volta arrivate, il governo thailandese ha capito che gli ornamenti che indossavano sarebbero potuti essere un’attrazione turistica, e le ha relegate nel ‘villaggio delle donne della comunità tribale riunita’. In pratica il governo permette loro di restare in quel posto e ricevere i proventi turistici – ma parliamo di cifre irrisorie, pochissimi baht – a patto di non abbandonare questa tradizione e di rinunciare allo stato d’asilo, diventando residenti. È una sorta di ricatto, e il turista che si reca lì per fare solo un paio di foto non riesce a percepirlo. Con questo tipo di turismo stiamo sovvenzionando una pratica scorretta da un punto di vista sociale e culturale, perché in primis queste donne non hanno la possibilità di evolvere la propria tradizione e, in secondo luogo, non possono tornare a casa. Il turismo le ha rese schiave della loro stessa cultura e, con questa spettacolarizzazione, si sono creati dei veri e propri zoo umani. Andare per mezz’ora a fare il giro del villaggio per fare foto e comprare un paio di souvenir non permette di conoscere una popolazione né tantomeno un luogo.

Che cosa ne pensi dei documentari mainstream che trattano di sostenibilità? Penso ad esempio allo scalpore che hanno suscitato Seaspiracy o The True Cost su Netflix

The True Cost è un bel documentario, un’inchiesta giornalistica con intrecci umani, che racconta bene la realtà dell’industria tessile. Seaspiracy (come anche Cowspiracy) non lo definirei proprio documentario perché credo manchi un po’ l’oggettività e l’imparzialità giornalistica, sostiene solo una tesi. E sono d’accordo anche io eh, non mangio pesce né carne, quindi non sto sindacando sull’industria del pesce. Ma allo stesso tempo penso che non si debba fare di tutta l’erba un fascio, perché non si considera chi nel mondo vive di pesca locale e di economia di sussistenza, che non è invasiva, anzi, si prende cura del territorio e del mare, perché conosce i ritmi naturali. Quindi è riduttivo. Funziona per accendere il dibattito, ma dire “gli schemi di certificazione sono tutti corrotti, la pesca non ha senso in nessuna misura” è eccessivamente fazioso. Si tratta anche di un’esigenza mediatica che vuole creare per forza dei prodotti con “effetto wow,” che può essere efficace, ma non a scapito dell’informazione.

So che stai lavorando a una start-up, Faroo, ci racconti qualcosa?

Faroo è nata un mesetto fa, il nome è una crasi tra far e loop, quindi è un loop che ci porta lontano e ci permette di generare un impatto positivo; deriva dall’esigenza di moltiplicare quello che stavo già facendo e mettere a sistema tutte le esperienze.

In sostanza quello che facciamo [Teresa e il team, creato proprio sui social, ndR] è individuare sul territorio italiano gli operatori turistici sostenibili (accomodation, fornitori di esperienze, b&b, agriturismi, alberghi, aziende agricole e così via) e certificare la loro sostenibilità effettiva secondo uno standard che abbiamo definito internamente su una base di criteri internazionali: quelli stabiliti dalle Nazioni Unite, quelli della B Corporation e infine dell’economia del bene comune. La certificazione è gratuita, per evitare che diventasse una compravendita di carte e bollini. Da qui creiamo insieme delle esperienze di uno o più giorni, con varie attività, e proponiamo questi “pacchetti” alle aziende affinché le offrano ai propri dipendenti. I dipendenti fanno formazione sul campo sulla sostenibilità e l’azienda riceve un certificato di impatto dove si esplicitano i kg di CO2 risparmiati, i litri d’acqua non utilizzati, le persone e i prodotti locali supportati. Quindi noi uniamo tre aspetti importanti: welfare aziendale, CSR (Corporate Social Responsibility) e formazione, andando a sostenere il territorio e le realtà più sostenibili. Per ora siamo aperti solo alle aziende, ma pian piano allargheremo l’offerta a tutte le persone e magari più avanti riusciremo anche a organizzare viaggi a metà tra la cooperazione internazionale e il turismo.

Per concludere ci consiglieresti un itinerario, un luogo o una realtà sostenibile da visitare nel territorio del Parmigiano Reggiano?

Me ne vengono in mente due. La prima è un’attività di social eating che si svolge presso la cooperativa sociale Eta Beta. E l’altra invece è un’esperienza che consiste nel fare Forest bathing [un percorso empatico nella natura dove si applicano tecniche di respirazione e meditazione, ndR] con operatori olistici tra i colli bolognesi, nel Parco Regionale dell’Abbazia di Monteveglio.

Legambiente e l’ecologia umana

Le sfide sono ancora tante: “decarbonizzare tutti i settori e agire insieme a livello globale e locale, senza dimenticare le gravi ferite ambientali che ci portiamo dietro da anni: inquinamento dell’aria, che in Italia uccide più di 60.000 persone, depurazione delle acque e gestione dei rifiuti e dei veleni industriali”.

Chi abita in questo lembo di Italia ripete spesso che “il profumo del Parmigiano Reggiano si respira anche in mezzo ai campi”.

Perché questo territorio, 10.000 chilometri quadrati a sud del Po in un’area che abbraccia 5 province, è così legato al suo formaggio tipico, da viverlo in maniera totale, quasi simbiotica: uno influenza l’altro, e viceversa.

Un territorio ricco di tradizioni e cultura storica, ma che vive ora una fase di innovazione e nuovi esperimenti per scoprire soluzioni più sostenibili e così far fronte alla febbre del pianeta.

“Il cambiamento climatico è influenzato anche dalla produzione di cibo, in particolare dagli allevamenti intensivi – spiega Stefano Ciafani, presidente di Legambiente, che si trova in visita nello stabilimento dell’azienda agricola Bertinelli proprio per discutere di queste tematiche. 

“La filiera produttiva di carne e latticini genera metano e anidride carbonica: questi sono i gas che scatenano l’effetto serra e quindi il surriscaldamento globale. Un aspetto sempre più marcato a livello globale, ma che in questa zona si sta provando a contrastare con buone pratiche che trasformano un problema in opportunità per migliorare”.

Ciafani si presta alcuni minuti per degli scatti fotografici nella sala di stagionatura dei formaggi. E per scoprire una delle innovazioni di cui parla basta leggere i cartelli lungo gli scaffali. Troviamo il Parmigiano Reggiano halal e quello kosher, adatti a musulmani ed ebrei.

Ciafani, romano (“Romano di Trastevere”, ci tiene a precisare), classe 1971, è presidente di Legambiente dal 2018, ma la sua storia nella grande associazione ambientalista italiana è ben più lunga, e attraversa più di due decenni. Per Legambiente è stato anche direttore scientifico, vicepresidente e direttore generale.

© Francesca Tilio / Scaglie / LUZ

La sua prima tessera è del 1998, quando nella sede romana di Legambiente ha iniziato, da obiettore di coscienza, il servizio civile. Che mondo era 23 anni fa?

Un mondo molto diverso. In quegli anni arrivavano le prime grandi svolte a livello ambientale e climatico. Nel 1997, infatti, i Paesi industrializzati avevano raggiunto il primo accordo sul clima, con il protocollo di Kyoto, facendo entrare il tema del cambiamento nel patrimonio collettivo. Ma allo stesso tempo si stava costituendo un nuovo equilibrio geopolitico e industriale: non c’era più la divisione in blocchi della Guerra Fredda e si formavano nuove potenze internazionali: la Cina, l’India, il Sud Africa, i paesi arabi.

In questo contesto, poi c’era lei, giovanissimo. Come è arrivato a Legambiente?

Nel 1998 ero uno studente di ingegneria ambientale, e conoscevo già l’associazione: guardavo in tv Ermete Realacci, l’allora presidente, che era spesso ospite del Maurizio Costanzo Show, e leggevo le inchieste del giornalista Antonio Cianciullo. Quel tipo di ambientalismo scientifico mi appassionava e mi sembrava molto concreto: perché andava in cerca di soluzioni e proposte, pragmatiche e ragionate. Si parlava di ambiente, ma anche già di clima: nel 1990 l’associazione avviò una campagna dal nome “Fermiamo la febbre del pianeta” che raccolse 600.000 firme. Mi presentai nella sede di Via Salaria convintissimo e in grande anticipo, tanto che fui il primo volontario sulla lista del 1998. Iniziai il 10 gennaio.

Oggi è facile immaginare un giovane che sceglie di dedicare il suo tempo a una causa ambientale, ma all’epoca deve essere stato diverso, no?

Eravamo di meno, forse è vero, ma tutti pieni di passione. Io sentivo la voglia di contribuire, di servire la patria con le armi del buon senso. Da quel 10 gennaio da Legambiente non sono mai uscito, né ho mai voluto. All’epoca Legambiente, nata nell’estate 1980, non era ancora maggiorenne, e anch’io ero giovanissimo: ho iniziato facendo fotocopie e rispondendo al centralino. Si può dire che siamo cresciuti insieme.

Ora le brutte notizie, però. Vent’anni fa la concentrazione di anidride carbonica nell’aria, l’indicatore più immediato della gravità del cambiamento climatico, era a 369 parti per milione. Oggi è a 420, dato mai raggiunto nella storia dell’umanità, che potrebbe portare la temperatura media globale a crescere di 2, 3, 4 o addirittura 5 gradi centigradi. Viene da chiedersi: cosa è successo? Perché non è stato fatto nulla? 

In poche parole: la popolazione umana è cresciuta tantissimo, e quelle nuove potenze che si andavano ad affermare a fine anni ’90 ora sono l’enorme motore e fabbrica del mondo.

La Cina è diventata il Paese che emette più gas serra del mondo, contribuendo al 27% circa del totale e superando persino gli Stati Uniti. Molti paesi occidentali hanno ridotto la loro impronta in questi anni, ma non abbastanza per contrastare il consumo di fonti fossili degli altri. Si sono sovrapposte così responsabilità storiche, perché ci sono Stati che inquinano da due secoli, e responsabilità attuali. Decarbonizzare industrie, trasporti, costruzioni è la missione che adesso tutti abbiamo per raffreddare il pianeta prima che sia troppo tardi.

C’è qualche speranza? O almeno qualche buona notizia?

Più di una. Quando ero giovane io si parlava molto del buco nell’ozono, un problema che abbiamo risolto grazie alla messa al bando globale dei gas che lo producevano, i CFC. Il protocollo di Montreal, ratificato nel 1987, è stato uno dei più importanti trattati internazionali e ha gettato le basi per altri accordi. Anche l’Accordo di Parigi del 2015 è il simbolo della volontà di mettere freno all’emergenza climatica. Questo accordo ha riacceso l’interesse e la passione in milioni di persone. Speriamo di vedere un impegno ancora maggiore quest’anno, quando si terrà la Cop26 (ovvero la riunione dell’organo decisionale delle Nazioni Unite sul tema del climate change) a Glasgow, che potrebbe essere ancora più importante della conferenza di Parigi di sei anni fa. 

In mezzo ci sono stati Greta Thunberg, la cui fama è esplosa tra 2017 e 2018, e con lei i movimenti dei Fridays for future: i giovani sono la chiave per vincere la sfida?

La mobilitazione globale che c’è stata per il clima è senza precedenti.

È pari ai movimenti del Sessantotto, pari alle grandi proteste contro le guerre o il perbenismo. La battaglia climatica ora è sulla bocca di tutti: ci sono voluti trent’anni, perché gli scienziati già ne parlavano negli anni ’80, e le associazioni ambientaliste negli anni ’90. Ora dobbiamo capire che la leva del cambiamento c’è, esiste, è già tra noi, dobbiamo solo azionarla. È una leva politico-sociale ma anche tecnologica. La protesta dei giovani ora deve raggiungere questa maturità: arrabbiarsi sì, ma anche dire che ce la possiamo fare. Li chiamiamo “nativi digitali”, ma potremmo chiamarli anche “nativi rinnovabili”: i giovani meritano un mondo dove l’energia rinnovabile, il solare, l’eolico, il biogas sono dati per scontati.

© Francesca Tilio /Scaglie / LUZ

Come fare però ad azionare quella leva del cambiamento di cui parla?

Servono politiche globali e comuni.

Globali perché la crisi climatica e quella concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera di cui parlavamo non ha confini. E comuni perché bisogna andare tutti nella stessa direzione, con coerenza e fiducia reciproca. Il Covid in questo ci ha indicato la via: solo impegnandoci e mettendo in comune forze e risorse si può veramente debellare il virus.

A volte però a guardare il globo si perdono di vista i problemi vicino a casa. Il cambiamento climatico è già arrivato anche da noi, in Italia? 

Fino a qualche anno fa si raccontava degli effetti del cambiamento climatico sugli atolli negli oceani, prime vittime dell’innalzamento dei mari. Poi sono arrivate le immagini degli orsi emaciati sospesi su iceberg di ghiaccio in scioglimento. Pensavamo che l’emergenza climatica riguardasse solo posti lontani, di frontiera. Ma l’Italia è al centro del Mediterraneo, che è uno dei punti più soggetti al surriscaldamento globale. Già ora vediamo come pochi gradi facciano la differenza: alluvioni più frequenti e violente, ondate di calore, i ghiacciai alpini e il ghiacciaio del Gran Sasso – il più a sud d’Europa – che scompaiono restituendo paesaggi ed ecosistemi completamente diversi. Bisogna monitorare tutte queste situazioni, e raccontarle, solo così possiamo trasmettere il senso di urgenza.

Non pensa che questo crescente interesse per il clima abbia fatto distogliere lo sguardo dalle questioni ambientali “classiche”?

È vero, la lotta alla crisi climatica è diventata “pop”, e questo a volte ha portato in secondo piano dei problemi cronici e gravi dei territori. In Italia ne abbiamo tanti: la gestione delle acque reflue, dei rifiuti e dei rifiuti speciali, dei materiali tossici e dei tanti veleni che il nostro territorio assorbe e a volte è costretto a restituirci. Sono ferite sanguinanti che non dobbiamo dimenticare. Il motto di Legambiente e dei suoi 115.000 soci e sostenitori su tutto il territorio è proprio “Pensa globalmente, agisci localmente”. Ma l’impegno deve essere collettivo: cittadini, aziende e politica. Purtroppo nel nuovo recovery plan del governo non c’è neanche una parola dedicata alle bonifiche industriali o al risanamento dei nostri problemi ambientali che si trascinano da decenni.   

E poi c’è il tema dell’inquinamento atmosferico: delle dieci città con più smog d’Europa, quattro sono italiane, e tutte in Pianura padana. Non stiamo facendo abbastanza?

Purtroppo un terzo della popolazione vive in zone dove l’aria è malsana, respira quella che noi abbiamo chiamato già negli anni Novanta “mal-aria”. Secondo l’Agenzia ambientale europea il particolato sottile e gli altri agenti chimici inquinanti hanno causato nel 2018 in Italia 65.000 morti, un dato minore dell’anno precedente, ma comunque enorme. Quello che bisogna capire è che agire il prima possibile significa salvare vite umane, già oggi, non in un remoto futuro. Per ciò c’è bisogno di una politica strabica.

Politica strabica? Sembra un’espressione con un’accezione negativa. Cosa intende?

Strabica in senso positivo: siamo abituati a politiche che non osservano, che non guardano nella giusta direzione. Quello che intendo io è uno sguardo capace di puntare sia in prossimità, al presente e a ciò che è vicino, sia in lontananza, verso un orizzonte lungimirante.

Non possiamo continuare a credere che niente si possa fare “nel nostro giardino di casa” o durante “il nostro mandato elettorale”, due modi di dire spesso usati e riassunti con l’acronimo Nimby (“not in my backyard”) e Nimto (“not in my terms of office”). Ci vuole più coraggio. 

La natura è capace di “aggiustarsi” da sola, o è troppo tardi? 

La natura può rigenerarsi, ma bisogna darle lo spazio e il tempo necessario. Ora come ora la stiamo mettendo troppo sotto pressione, ma è nostro compito riparare ai nostri errori. Ecco perché all’ecologia aggiungo un’altra parola: umana. Per ecologia umana intendo una missione condivisa da tutti che punti a uno sviluppo sostenibile. Per la natura e per l’umanità tutta. Senza chiedere il passaporto a nessuno, senza pregiudizi: un esercito pacifico che risolve i problemi seguendo scienza ma anche passione. 

Proviamo a chiudere il cerchio, allora. Oggi arriva, da questo esercito pacifico, una ragazza o un ragazzo che vuole entrare in Legambiente. Inizia facendo le fotocopie, magari, ma fra vent’anni diventa presidentessa o presidente. Che Italia augura alla sua o al suo erede?

L’Italia sarà un paese più bello. Si respirerà aria diversa, migliore, perché le città abbracceranno la mobilità sostenibile, con auto elettriche, bici, monopattini e mezzi pubblici. L’industria della chimica e dei metalli non avrà più bisogno del carbone e il nostro paesaggio e la nostra atmosfera non saranno più feriti. Sarà un paesaggio rinnovabile: con pale eoliche, pannelli solari, cupole a biometano. L’Italia non sarà solo più bella e pulita, ma anche più vivibile: non un museo chiuso in una teca, ma un territorio pieno di idee e genialità. Mi auguro per i futuri presidenti che non serva più un rapporto annuale sui veleni industriali, sulle eco-mafie, sull’abusivismo edilizio, né uno sui tanti e troppi sussidi dello Stato alle fonti fossili.

E guardando ancora un po’ più in là nel futuro, 50 anni magari, cosa vede?

Il mio sogno più grande è che non ci sia proprio più bisogno di battersi per il clima e per l’ambiente: si chiuderebbe un cerchio per Legambiente, e magari, lasciatemi scherzarci su, potrebbe addirittura non esserci bisogno di futuri presidenti e di un’associazione ambientalista.

Potremmo dire: missione compiuta.

L’uomo al centro della sostenibilità

Il Parmigiano Reggiano è un prodotto a Denominazione di Origine Protetta, ciò significa che le sue qualità e caratteristiche sono dovute essenzialmente al particolare ambiente geografico, ai suoi intrinseci fattori naturali e umani e le cui fasi di produzione si svolgono nella Zona di Origine.

Da quasi mille anni, infatti, il Parmigiano Reggiano è prodotto esclusivamente con latte, sale e caglio, senza alcun additivo o conservante, nelle province di Parma, Reggio Emilia, Modena, Bologna alla sinistra del fiume Reno e Mantova alla destra del Po.

Per tutti questi motivi, dobbiamo tutelare l’ambiente della Zona di Origine – autentica ‘culla’ del nostro prodotto e delle sue caratteristiche  – per garantire il futuro della nostra filiera.

Nessun altro ingrediente è contemplato per la sua realizzazione. 

Ma questo cosa significa? Significa che i prati stabili nei quali pascolano le nostre mucche producono foraggi, erbe e fieni con precise caratteristiche microbiologiche strettamente controllate e regolamentate dai nostri disciplinari. Solo così possiamo ottenere il prodotto italiano più famoso al mondo. Tutto ciò non sarebbe possibile senza le nostre persone, più di 50.000, coinvolte quotidianamente nella filiera produttiva per un totale di 321 caseifici sparsi nel nostro territorio. 

Parlare di sostenibilità per il Consorzio del Parmigiano Reggiano non è semplice, proprio perché dobbiamo lavorare costantemente sulle nostre tradizioni, sul rispetto dei nostri processi produttivi e sulla qualità che dobbiamo garantire ai consumatori, ma è un impegno che ci assumiamo volentieri tutti i giorni.

Lo stesso impegno se lo assicurano gli ospiti di questo dodicesimo capitolo di Scaglie dedicato alla sostenibilità e all’ambiente. 

Nicolas Lozito ha incontrato Stefano Ciafani, presidente di Legambiente dal 2018: con lui ha parlato di ecologia umana e di come affrontare l’emergenza climatica.

«Per ecologia umana intendo una missione condivisa da tutti che punti a uno sviluppo sostenibile. Per la natura e per l’umanità tutta. Senza chiedere il passaporto a nessuno, senza pregiudizi: un esercito pacifico che risolve i problemi seguendo scienza ma anche passione». 

Abbiano esplorato il mondo del turismo sostenibile con Mariavittoria Salucci che ha intervistato Teresa Agovino, ingegnere ambientale e consulente di turismo sostenibile che ci ha raccontato come anche i viaggi possano essere fatti nel rispetto dell’ambiente e delle comunità locali perché, sostiene Teresa: 

«Non possiamo evitare di lasciare impronte, ma possiamo scegliere come farlo».

Siamo poi tornati nel nostro territorio, in uno dei caseifici più storici ed emblematici situato nella provincia di Parma: l’Azienda agricola casearia Montecoppe. La struttura sorge all’interno del Parco Naturale dei Boschi di Carrega, qui l’architettura neogotica e quella contemporanea si intersecano e si incontrano nel più totale rispetto della natura che li circonda.

«Prendersi cura dell’ambiente significa garantire che i corsi d’acqua, l’aria e il suolo siano di qualità ambientale buona e che quindi le attività umane e antropiche avvengano nel rispetto delle esigenze dell’ambiente». 

Queste sono state le parole del Direttore regionale di Arpae, ente che si occupa di monitorare lo stato di salute del nostro territorio.

Con Giuseppe Bortone abbiamo visitato la splendida sede di Arpae a Ferrara. Una struttura concepita nel pieno rispetto della missione ambientale dell’ente, costituita da 106 camini attivi che consentono il raffrescamento e il riscaldamento dell’edificio senza dover ricorrere all’utilizzo di tecnologie che adoperano risorse inquinanti.

Parlare di sostenibilità per un prodotto è una questione seria, presuppone un patto con il consumatore che non sia solo di facciata, perché il consumatore non si accontenta più di sentire una storia, vuole conoscere, sapere, s’informa e non perdona bugie e mistificazioni. 

Per questo con Scaglie abbiamo deciso di dar voce a chi tutti i giorni si occupa di raccontare la verità su questo tema, senza filtri. 

Il Consorzio del Formaggio Parmigiano Reggiano continua a impegnarsi affinché tutta la sua filiera produttiva possa essere sostenibile, è un viaggio che non terminerà a breve ma non per questo smetteremo di affrontarlo.

Copertina © Giovanni Cocco / Scaglie / LUZ 
Galleria © Giovanni Cocco e Francesca Tilio / Scaglie / LUZ

Gas a martello

Per diventare una leggenda, nello sport, bisogna sfruttare a pieno il potenziale del proprio talento, sfidare i limiti, e superarli. Si devono compiere imprese straordinarie e gesti eroici, quelli che poi i nonni raccontano con voce enfatica ai nipoti, o di cui si ha nostalgia parlandone con gli amici la sera al bar. 

Loris Capirossi ha dedicato la propria vita alla sua più grande passione: la moto.

Dai weekend trascorsi in sella, con la famiglia e il cestino del picnic dietro, a una carriera costellata di trofei e traguardi, fino al ritiro dalle gare per dedicarsi a se stesso e alla sicurezza degli altri piloti.

I sorpassi, le vittorie, ma anche gli errori e le sconfitte, sono diventati storie e miti. E così, Loris Capirossi è diventato una leggenda.

Farei un bel salto nel passato, per cominciare dall’inizio. Come ti sei appassionato alle moto?

È un amore che senza dubbio mi ha trasmesso il mio babbo: lui era un grande appassionato, e quando avevo solo 4 anni mi ha costruito la prima moto. Non sono più sceso, poi sono arrivati la motocross e i tornei importanti.

Ricordo che i miei dopo aver lavorato instancabilmente tutta la settimana prendevano il furgone, caricavano le moto, e guidavano il venerdì notte per portarci a fare le prove in circuito di sabato. 

Hai cominciato a 4 anni? Assurdo!

Sisi, a manetta!

Qual è uno dei tuoi primi ricordi in sella?

Avevo circa 7 anni e ogni settimana non vedevo l’ora che arrivasse il weekend. I miei tornavano dal lavoro, avevamo una moto ciascuno e andavamo a fare lunghi giri in campagna, con il cestino del picnic dietro.  

© Alessandro Digaetano / LUZ

Anche la mamma?

Assolutamente. Mia mamma ha 68 anni e va ancora in giro in moto.

Farei un altro salto nel tempo. Cosa ti è passato per la testa quando a 17 anni sei diventato campione del mondo? (record d’età che ancora oggi ti appartiene)

In realtà per me in quel momento era tutto abbastanza normale. Il mio obiettivo era quello di essere sempre veloce e di vincere, e forse non mi rendevo realmente conto di quello che stava succedendo: ero un ragazzino che si è trovato in cima al mondo.

Penso di aver realizzato quanto fosse grande la mia impresa solamente arrivato in paese: mi avevano organizzato una festa incredibile, c’erano tutti. È stato tutto molto strano e surreale, davvero una favola a lieto fine.

Quindi quando sei rientrato a Riolo Terme eri già diventato una vera e propria celebrità!

Per festeggiare, in 65 avevano acceso una sorta di montagna di lampadine, da film. Erano tutti lì per me: tutti mi cercavano e volevano farmi un’intervista dopo l’altra. Stavo vivendo una vita che non mi apparteneva. 

E la tua vita da lì com’è cambiata?

Direi che non è cambiata molto, ero tranquillo e felice. Che poi non avevo neanche la patente, giravo ancora con la mia Ape 50, dove andavo? (ride, ndr)

Ero contento di tornare dalla mia famiglia e dai miei amici, ero un campione del mondo ma vivevo la vita di prima.

Mi fa molto ridere pensare che uno guidi mezzi potentissimi, sfrecciando a 300 all’ora, ma che poi non possa ancora prendere la patente.

Sì, è incredibile. Davvero.

Da ragazzo la moto ti ha dato molto, cosa ti ha tolto invece?

Beh, alla fine ho sacrificato una parte importante della mia infanzia e della mia adolescenza. I miei coetanei andavano in discoteca, io avevo la testa solo per la moto. Ti confesso di essermi ubriacato forse 2 volte in tutta la mia vita.

La tua passione ti ha portato in giro per il mondo. Cosa ti mancava quando eri lontano da casa?

La cucina romagnola di mia mamma, sicuramente: cappelletti, tagliatelle, pasta tirata a mano e sempre tanto Parmigiano Reggiano.

Qual è il tuo cavallo di battaglia?

Questa è difficile. Direi tortelli ripieni di carne e ragù, una cosa spaziale.

E tu cucini? Il tuo piatto forte?

Io amo la cucina e credo di poter dire di essere un buon cuoco. Da buon romagnolo so fare anche la pasta a mano, ma me la cavo meglio con la carne e, soprattutto, con i dolci: sono molto goloso e faccio un tiramisù che è uno spettacolo.

Tornando alla tua carriera, hai ottenuto grandissimi risultati e tante vittorie, ma è anche stata segnata da parecchi incidenti e infortuni. Cosa ti ha spinto a continuare, nonostante i grandi traguardi già raggiunti?

L’adrenalina che la moto ti dà, la voglia di portarla sempre al limite, non finisce mai. Io mi sono ritirato 10 anni fa, e ancora oggi non mi do pace: quando riesco vado in pista.

Quando mi facevo male la mia mentalità era quella di salire in sella anche il giorno dopo, di correre ad ogni costo. Una volta ho gareggiato con la mano rotta e due fratture scomposte, riuscendo ad arrivare terzo. 

Vai in pista con la Ducati del 2003 che hai in casa?

No no, uso quelle degli altri che si rovinano. Le mie le tengo parcheggiate così rimangono perfette (ride, ndr)

Qual è la vittoria più bella della tua carriera?

Direi proprio quella del mio primo Mondiale nel ’90, o altrimenti Assen nel ’99, quando io e Valentino ci siamo dati battaglia sorpassandoci almeno 10 volte nell’ultimo giro, e all’ultima curva sono riuscito a superarlo e vincere. Ma anche la prima vittoria con Ducati nel 2003, a Barcellona.

Ciascuna vittoria ha la propria storia, i propri ricordi.

E la sconfitta che ti ha insegnato di più?

Tutte. Ho imparato da ogni sconfitta, da ogni singolo errore. Per questo ho sempre accettato con onore le sconfitte: è quando impari a perdere che diventi un uomo.

Foto copertina e gallery © Alessandro Digaetano / LUZ, Foto gallery courtesy of Loris Capirossi

Gioco di squadra

Il volto di Elisa Di Francisca lo avete tutti ben in mente, dalla storica impresa del 2012 con ben due medaglie d’oro alle Olimpiadi di Londra, all’argento di Rio De Janeiro nel 2016, è una delle schermitrici italiane più importanti di sempre.

L’abbiamo incontrata per farci raccontare la scelta di ritirarsi dalla pedana per dedicarsi alla seconda gravidanza e come lavora ai progetti per il futuro una leggenda dello sport mondiale.

Quando hai iniziato il percorso sportivo? 

Ho iniziato a sette anni a fare scherma a Jesi, dove questo sport era già molto praticato.

Venivo dalla danza classica, perché da bambina mia madre mi voleva ballerina – ride, ndr. Però a un certo punto mi sono stancata della danza classica, perché avevo bisogno di rapporto con gli altri, di sfide e di risate e sono passata alla scherma. Ho trovato subito un ambiente giocoso, perché la scherma fondamentalmente è un’arte più che uno sport. È una disciplina. E piano piano si fa amicizia con gli altri bambini, ci si integra, si condividono le cose, si gioca, si fa tutto fuorché prendere in mano il fioretto. Il fioretto si prende in mano dopo un annetto più o meno.

Era uno sport già molto praticato a Jesi, quanto hanno influito il territorio e la tradizione da questo punto di vista?

Sicuramente se non fosse stato così conosciuto magari non ci sarei andata, fu mio padre a propormelo, lo conosceva perché da noi c’erano già grandi campioni come Stefano Cerioni, Giovanna Tellini o Valentina Vezzali, poi perché si tratta di uno sport nobile e in grado di trasmettere grandi valori. 

Immagino che non avrai avuto un’adolescenza classica. Ti è pesato? Ci sono stati dei momenti in cui avresti preferito fare altro?

Beh, assolutamente sì. Poi, quando la scherma è diventato un impegno, mi ricordo che la mattina andavo a scuola e il pomeriggio i miei compagni di classe si riunivano per fare i compiti insieme, per uscire, andare a fare una passeggiata, prendere un gelato e io non potevo. Mi sentivo un po’ esclusa, uscita da scuola andavo a casa, pranzavo, facevo i compiti e mi chiudevo in palestra dalle 4 alle 7 di sera. A 18 anni ho anche smesso, trainata anche da un fidanzato molto geloso che non accettava questo impegno. Ho sommato tutto e ho detto: “ma chi me lo fa fare!”, mi stavo perdendo la mia vita, le amicizie, il fidanzato, le giornate fuori. Mi sono fermata per un anno più o meno, poi mi sono accorta che quel fidanzato, che era così geloso, non mi amava e quindi l’ho lasciato. Le amicizie erano importanti, però facevano sempre le stesse cose, tutti i pomeriggi erano uguali.

A me mancavano l’adrenalina, lo sport e il superare i miei limiti: da lì ho capito che era una mia scelta, un bisogno, una mia voglia e non ho più smesso.

Senti, io mi ricordo le Olimpiadi del 2012 a Londra e mi ricordo che voi tre sembravate invincibili, tu, Valentina Vezzali e Arianna Errigo. Tre donne, un podio interamente italiano, cosa mai vista prima. Tu che cosa ti ricordi di quei giorni? 

Io mi ricordo il grande tifo, il palazzetto che era pieno di italiani che intonavano delle canzoni, con gli striscioni, con la bandiera dell’Italia. Mi ricordo la forte vicinanza e l’emozione che queste persone provavano nel vedere le nostre gesta. E poi, certo, a livello individuale, ricordo la grande spensieratezza mista a paura, perché stavo affrontando la mia prima Olimpiade. Per quanto avessi 29 anni, per me era tutto nuovo. Io sono arrivata tardi alle competizioni importanti, perché appunto ho smesso di fare scherma per più di un anno.

Ricordo una gara emozionante, bellissima, stupenda, resa ancora più bella dal podio tutto italiano e dalla mia vittoria. 

Che cosa ha significato all’epoca per te e cosa significa nella scherma il lavoro di squadra?

La scherma è uno sport particolare, perché ci vede l’una contro l’altra in una giornata, e poi il giorno dopo c’è la gara a squadre. Quindi tu puoi aver perso da una tua compagna o puoi aver battuto una tua compagna di squadra, e il giorno dopo te la ritrovi lì alleata per la conquista di una medaglia importante. È un meccanismo al quale ti devi abituare, sicuramente molto duro, ma io lo paragono alla vita di tutti i giorni: sei sola con le tue paure, con le tue emozioni, con la tua voglia di superare chiunque, ma allo stesso tempo sei in squadra e quindi cooperi con gli altri. 

Quindi c’è una competizione ma alla fine l’obiettivo è comune

È una sana competizione perché nel momento in cui abbassi la maschera vuoi vincere, vuoi che tutto il tuo lavoro e il tuo sudore vengano ripagati, senza nulla togliere all’altra.

Io poi sono una che adora la correttezza, la giustizia e non infierisco mai negli assalti, è sempre importante vincere, far valere le proprie forze, i propri sacrifici, ma senza mai offendere o infierire.

Forse questo nella scherma si vede ancora di più perché, come dicevi tu, è uno sport nobile che trasmette un certo tipo di valori

Beh sì, dovrebbe farlo – ride, ndr – ma non per tutti è così. Però, come in tutti gli ambienti, ci sono persone che ce l’hanno dentro e altre no. Poi magari quelle che non ce l’hanno vincono anche di più.

Però sicuramente il valore atletico e umano si percepisce

Sì, per me va oltre! Prima siamo persone.

Il 2020 per voi atleti, ma per tutto il mondo è stato un anno di rinunce. Tu, nello specifico, hai dovuto rinunciare ai prossimi Giochi Olimpici

Di fronte a queste Olimpiadi rimandate ci sono inizialmente rimasta male, mi è dispiaciuto, ma non perché non si dovesse fare, andavano rimandate, ma perché, a livello egoistico, avevo fatto mille sacrifici, sono rientrata con Ettore – suo figlio, ndr -, l’ho portato a tutte le gare e a tutti i ritiri.
Volevo finire e chiudere un cerchio, coronare un sogno, far vedere a Ettore che la mamma era riuscita a fare le Olimpiadi insieme a lui. Poi però mi sono detta, va bene, questa è una causa di forza maggiore, reinventiamoci. Che cosa faccio? Aspetto? Perché poi io e mio marito avevamo voglia di allargare la famiglia. Alla fine ha prevalso la scelta familiare, che comunque è sempre stata più importante rispetto alla voglia di raggiungere e voler fare a tutti i costi. Va bene il lavoro, va bene la propria passione, ma se metti al mondo dei figli, se scegli di costruire una famiglia, bisogna portare avanti in egual modo anche quella.

Ma al di là del fatto che ovviamente non potevi fare la preparazione atletica, pensi che le due cose siano inconciliabili? 

Assolutamente no, si può fare tutto, ci vuole organizzazione. Io l’ho fatto e lo farò quando nascerà questo secondo figlio, Brando. Però in quello specifico momento, mentre gli altri miei compagni stavano facendo ritiri, senza gare, io avrei dovuto lasciare mio figlio per un futuro che fondamentalmente ancora oggi (l’intervista è stata realizzata a gennaio 2021, ndr) è incerto. 

Elisa Di Francisca sul set per lo spot di Parmigiano Reggiano

Quindi è tutto ancora possibile

Le Olimpiadi sono un momento di riscatto, ci vuole un po’ di speranza, di benessere per i tifosi, per chi le fa, ma anche per chi le guarda. Però è tutto molto incerto. Io avevo voglia di dedicare un po’ di tempo alla famiglia. 

Quali progetti hai per il futuro? Proseguirai nella carriera atletica o…

Guarda, credimi, io sono aperta a tutto, soprattutto sono aperta alla gavetta, all’imparare, al cimentarmi in nuove sfide. Quindi quello che sarà, che mi verrà e mi capiterà, o che io stessa farò capitare, sarà il benvenuto, purché si tratti di lavoro e non di cose che mi vengono offerte perché ho una bella faccia e ho vinto le Olimpiadi.

Vorrei sempre impegnarmi nelle cose, perché la conquista ha un altro sapore. 

Se dovessi dare un consiglio alla Elisa del passato quale sarebbe?

Un consiglio che le darei è “fai le cose per te stessa”, non devi dimostrare niente a nessuno, solo a te stessa.

Ci sono arrivata un po’ tardi, ho dovuto passare anche per i meandri dell’auto-distruzione, del farmi del male. E certe cose forse me le sarei risparmiate, ecco, non è tutto vero quando si dice “io non potrei essere quella che sono se non avessi fatto questo e quest’altro”. Insomma il consiglio che le potrei dare è pensa più a te stessa, un po’ di sano egoismo! 

E invece, se dovessi dare un consiglio a una ragazza o un ragazzo che decide adesso di dedicarsi alla carriera sportiva, anche visto il momento storico, che consiglio daresti? 

Beh sicuramente tutti i tipi di sport fanno bene, soprattutto in questo periodo. Mai come ora c’è bisogno di fare sport, non per arrivare ad essere chissà chi. Fate sport per divertimento, per la mente, per il corpo, perché fa bene, e per puro piacere. L’importante è farlo non pensando oddio devo guadagnare, devo fare, devo arrivare, sempre con questo “devo, devo”, no. Le cose arriveranno piano piano. Ma più che ai ragazzi questo consiglio lo do ai genitori. 

© Foto courtesy of Consorzio del Parmigiano Reggiano e Elisa di Francisca

Leggende dello sport

Da sempre il Consorzio del Formaggio Parmigiano Reggiano sostiene lo sport e gli atleti italiani. Lo facciamo come sponsor delle leggende dello sport, ma lo facciamo, soprattutto, producendo un alimento fondamentale per la dieta degli sportivi. Un piccolo ma grande aiuto per raggiungere insieme traguardi importanti.

In questi ultimi due anni gli atleti di tutto il mondo hanno messo in pausa le proprie attività, si sono – come tutti – dovuti fermare. Scaglie, nell’attesa delle Olimpiadi di Tokyo 2021 ha incontrato alcuni degli sportivi italiani più importanti del nostro secolo. 

La prima leggenda di questo capitolo è Elisa Di Francisca, schermitrice e campionessa olimpica, considerata una delle più forti italiane di sempre. Elisa ci ha raccontato del suo percorso e dei sacrifici che l’hanno portata a raggiungere traguardi immensi fino a conquistare l’oro olimpico a Londra, nel 2012. Con lei abbiamo parlato anche della sua scelta difficile e coraggiosa di non partecipare ai prossimi Giochi Olimpici (Tokyo, 2021) per dedicarsi alla famiglia e ai figli. Ora, Elisa ha lo sguardo volto al futuro – ricco di progetti e ambizioni – pronta più che mai ad affrontare nuove sfide.

Dal fioretto siamo passati alle due ruote, andando a scoprire la grande passione di Loris Capirossi – ex pilota motociclistico e Campione Mondiale. Siamo partiti con lui sulla moto dei ricordi, ripercorrendo i passi che l’hanno portato dai primi giri in sella con la famiglia fino al primo Mondiale vinto, stabilendo il record d’età a soli 17 anni. Una carriera costellata da podi e traguardi ma anche da cadute e infortuni, dai quali lui, però, si è sempre rialzato a testa alta senza mai mollare.

Siamo poi sfrecciati via dai circuiti per arrivare sui campi di pallavolo, dove un tempo giganteggiava Luca Cantagalli con le sue potenti schiacciate, valse il soprannome di “Bazooka”. Nel suggestivo Palazzo dello Sport di Modena, casa del Modena Volley, Luca ci ha parlato delle emozioni vissute, dei tortelli della mamma, e della sua “Generazione dei Fenomeni” – ovvero il team della Nazionale Italiana che negli anni ’90 dominò le vette della pallavolo mondiale.

Abbiamo incontrato questi eroi popolari per scoprire cosa li ha resi delle leggende dello sport. Quello che abbiamo capito è che non sono stati i successi e le vittorie a temprarli ma le sconfitte, le delusioni e i sacrifici. 

Sul fronte del gusto

Compasso d’oro, menzione d’onore alla medaglia d’oro dell’architettura italiana, Premio Inarch, tra i “cento Studi meglio al mondo” secondo Domus International 2019: sono innumerevoli i riconoscimenti che Guido Canali ha ottenuto nella sua lunga carriera di architetto. Eppure, con i suoi modi pacati e la sua grande serenità conquista con grazia, eleganza e pacatezza gli interlocutori, con cui ha una naturale capacità di apertura, dialogo, relazione. Le stesso doti che dimostra in tutti i suoi lavori, intrisi di accuratezza e di leggerezza, di rigore e di ossessione viscerale per l’efficacia condivisa.

Un dialogo costante con la natura e una grande capacità analitica gli hanno permesso negli anni di diventare un vero e proprio punto di riferimento nel settore, che guida con lieve maestria.

Non solo in Emilia, ma un po’ in tutt’Italia ed anche in Europa, ha svolto la sua carriera. Sul territorio emiliano, però, hanno avuto origine due progetti memorabili dedicati al Parmigiano Reggiano. Ce li siamo fatti raccontare.

A che cosa serve l’architettura?

L’architettura ben fatta è un investimento: se spendi male i soldi, sono sciupati. Vorrei che tutti capissero che l’architettura è un pregio irrinunciabile. Perché puoi comprare un quadro brutto e quando ti stufi lo metti in solaio, ma se costruisci una casa brutta o sbagliata non la puoi distruggere, perché ti costerebbe troppo, e hai fatto un danno.

Bisogna investire in qualità architettonica.

Ma non c’entra anche il gusto?

Il gusto c’entra: tra gli architetti ci sono quelli bravini e i negati, bisogna anche saper scegliere. Solo quello bravo ti aiuta veramente. Il gusto è educazione, impegno, un atteggiamento etico. Il gusto è non accontentarsi come principio. Essere esigenti con se stessi è davvero fondamentale e quando hai finito un progetto e pensi che potresti fare di più, ti viene voglia di buttare via tutto e rifarlo. L’energia per ricominciare ogni volta la si trova nella passione per quello che facciamo: quando sei convinto che quello che fai può essere utile agli altri, magari anche per le loro vite future, allora non ti accontenti.

Quanto di sé deve a questo territorio?

A parte il periodo di quando ero bambino, a cui devo la mia affezione verso la natura, abitare le nostre città emiliane è sicuramente stato determinante ed un reale privilegio. Puoi vivere nella città murata medievale, estremamente affascinante, che nei microambienti, in taluni casi in modo inaspettato ed affascinante, si apre in giardini segreti. Ma al di fuori della città murata c’è subito la campagna, e questo è un rapporto importantissimo che avresti con difficoltà se vivessi nelle grandi città.

Vivere in Emilia è un privilegio: abbiamo città d’arte bellissime, qualunque paese offre spazi e situazioni fantastiche.

Modena, Parma, Ferrara sono luoghi rilassanti, di grande equilibrio. Si vive bene. Vivendo qui uno ha già un po’ imparato come deve progettare.

E sul fronte del gusto?

Beh… sono un grande goloso di Parmigiano Reggiano: devo stare molto attento perché per me è una droga. Per fortuna non ho mai provato le droghe vere ma ne conosco altre, gastronomiche: il Parmigiano Reggiano e i funghi trifolati sono tra queste.

La sede del Consorzio del Parmigiano Reggiano, © courtesy of Guido Canali

Come è nata la sua collaborazione con il Consorzio del Formaggio Parmigiano Reggiano?

Il progetto del Consorzio è nato dalla mia amicizia con il presidente, che all’epoca era l’avvocato Mora, un parmigiano, un intellettuale che come hobby collezionava disegni del Parmigianino. Ci conoscevamo e dopo aver visto un po’ di cose che avevamo fatto ci ha incaricato di questo progetto, andato avanti per alcuni anni. Negli anni successivi abbiamo fatto cose abbastanza importanti in campo industriale, per esempio per Prada vicino ad Arezzo HQ abbiamo realizzato la sede principale del settore produttivo dell’azienda.

E tutte derivano dallo spunto di allora, la nostra linea guida filosofico-concettuale è di essere molto attenti alle condizioni di chi lavorerà nel luogo. Questo risultato non è così facile da ottenere e occorre anche l’intelligenza dei committenti. Ma per noi è fondamentale preoccuparci di creare delle condizioni ambientali, psicologiche, fisiche e utilizzare dei materiali che aiutino la serenità. Quando un operaio sta una giornata chino sui vari pezzi che gli passano davanti sulla catena di trasmissione poter alzare gli occhi e vedere il verde che entra nella fabbrica, avere moltissima luce e spazio è un aiuto alla fatica.

È l’esatto opposto di lavorare in un ambiente chiuso, cupo, senza vista sull’esterno: come quegli scatoloni industriali, quelle situazioni introverse, ancor oggi di moda dovuta a criteri di super economicità nella realizzazione degli involucri, con massimizzazione della funzionalità per ottenere solo il massimo profitto.

A Reggio c’erano già in luce queste attenzioni e abbiamo cercato anche di trasmettere, pur nella severità e semplicità geometrica del blocco, un racconto fantastico, un giardino che entra lungo una passerella con pendenza minima, utile anche ai disabili, perché l’accesso al complesso diventi passeggiata gioiosa, e nel progetto affiorino anche elementi quasi ludici.

La sede del Consorzio ha funzioni multiple: una zona che assomiglia a un caseificio, la sala prova del Parmigiano Reggiano, l’auditorium e poi gli uffici e gli ambienti per gli incontri. Il montaggio in sequenza di parti con funzioni diverse è tutto inserito in un volume che fuori è omogeneo, salvo la variazione delle finestre, per evocare la sobrietà dell’architettura casearia del passato. È vero che nella tradizione più antica si annoverano anche dei piccoli caseifici pensati come gazebi ottagonali col doppio fondo sul fuoco nel baricentro, ma spesso i caseifici nella composizione del nucleo rurale erano elementi molto sobri, asciutti e senza orpelli, e a quelli ci siamo ispirati.

Ho un rimpianto per la funzione della passerella, che nell’idea iniziale avrebbe dovuto valicare la via Emilia collegando il complesso a un parco, quasi un invito a full immersion nella natura. Ma anche questa idea, pensata per quel luogo, e rimasta purtroppo nella penna, l’abbiamo sviluppata dopo. Doveva essere un luogo aperto alla città: la passerella è un telaio che al piano terra avrebbe dovuto offrire spazi per una comunicazione visiva, una specie di mostra sul territorio di produzione del prestigioso formaggio. Queste erano le buone intenzioni, poi come in ogni progetto alcuni elementi devono essere sacrificati, però noi continuiamo a sognare.

Per me l’architettura deve partire dall’idea di fare qualcosa che gratifica la gente che ci vive e che quindi non solo ha un pensiero di riconoscenza verso chi ha creato quel luogo, ma l’entusiasmo a ritornarci: è questo il compenso più grande del nostro mestiere. Se rimane questa soddisfazione di aver fatto qualcosa che interessa, che suscita qualche emozione, che intriga chi poi deve usare l’edificio.

In tempi più recenti ha immaginato un nuovo caseificio.

Il caseificio di Montecoppe, certo: in quell’area c’era già un edificio degli anni ’50, obsoleto, in attesa di un intervento importante. E c’è ancora un piccolo caseificio della metà dell’800, una delle primissime realizzazioni neogotica in Emilia, quando il neoclassicismo va scemando come novità modaiola.

Questo era una delle prime realizzazioni a Parma: mattoni, finestre con ogiva appuntita, decorazioni in mattoni che formano cornici echeggianti quelle quattrocentesche. L’abbiamo restaurato ed è diventato lo spaccio dove oggi si vendono i prodotti del nuovo caseificio.

Questo l’ho progettato per un’importante e colta famiglia di industriali per cui avevo già fornito i disegni della Smeg a Guastalla.

D’accordo con i committenti, volevo fare un edificio non troppo alto, anche se il blocco magazzino di stagionatura, dovendosi all’interno modulare sull’automazione del trasporto delle forme, prevedeva un’altezza significativa, fino a 8 metri. Per annullare quest’altezza eccessiva in rapporto all’edificazione tradizionale del contesto agricolo, davanti al caseificio abbiamo rialzato un terrapieno, una specie di pianoro verde.

Visto in pianta è una elle: un braccio è dove si produce, l’altro è il magazzino. E per ridurre al minimo l’impatto tutto l’edificio è stato completamente coperto di verde, e si ambienta molto bene con i dintorni.

Anche questo piccolo complesso è un luogo d’incontro dove è piacevole andare: abbiamo posto le premesse perché si potesse realizzare anche un punto di ristoro che fosse occasione conviviale per la gente. È quasi una mia fissa: che l’architettura si apra e diventi un luogo frequentato e allegro, che costituisca il collante di una socialità partecipe.

Il caseificio di Montecoppe © courtesy of Guido Canali

E oggi, in un momento così chiuso, come si concretizza un’architettura di condivisione?

Adesso si progetta per quando si apriranno ancora i cancelli: per essere di nuovo pronti a realizzare, specie l’edilizia sociale e pubblica, che deve essere fatta bene, con amore e con cura.

In questo senso abbiamo una grandissima responsabilità: quanti quattrini sono stati buttati nelle periferie squallide con condomini brutti, pieni di famiglie? Questo è proprio un danno, soprattutto per i bambini, perché l’influenza dell’ambiente in età giovanile è fondamentale. Una persona viene plasmata da come vive, dall’ambiente in cui cresce, dalle sollecitazioni che percepisce.

Penso che il mio instancabile amore per la natura ed i reiterati tentativi di porla al centro, fisico e simbolico, di quel che costruiamo dipenda dal fatto che negli anni della guerra, da piccolo, ero in campagna con la famiglia sfollata, e lì abbiamo vissuto qualche anno. Ricordo ancora in technicolor le scorribande nei campi, e lungo le golene dei torrenti, le ghiaie che d’estate biancheggiano tra i pioppeti: un’esperienza che mi ha segnato.

Ritratti © Stefano Marzoli / Scaglie / LUZ

Il trucco c’è

“Toni al matt” (Antonio il matto, in dialetto reggiano) così era chiamato a Gualtieri Antonio Ligabue, pittore e scultore del Novecento. Dell’artista si contano centinaia di autoritratti, così noi per capire meglio la sua figura abbiamo parlato con chi ha dovuto studiare ogni sua ruga.

Lorenzo Tamburini è un truccatore italiano specializzato in prosthetic make-up, che ha permesso la metamorfosi di Elio Germano nel film Volevo Nascondermi (2020) di Giorgio Diritti. Da una professione poco riconosciuta alla funzionalità narrativa delle protesi, il trucco c’è e ci permette di vedere ed entrare nel personaggio di Ligabue.

Hai lavorato e lavori con registi, sceneggiatori e produttori di fama internazionale. Quand’è che ti sei interessato al trucco e come hai iniziato?

Credo di aver avuto, fin da bambino, una grandissima attrazione per l’estetica e l’armonia delle cose. Mi piacevano la tv e i movimenti dei piedi dei pugili, ma principalmente ero affascinato dai mostri come Frankenstein e Dracula. Ho sempre visto il cinema come qualcosa di guardare e non da fare, pensavo non potesse essere un lavoro. Vivevo in Trentino, frequentavo un liceo scientifico e guardavo film neorealisti, non avevo idea di che cosa fosse il trucco, non c’era neanche Internet all’epoca, nessun sito o tutorial che potesse illuminarmi. Poi sono andato negli Stati Uniti, a Seattle e a Los Angeles, dove ho scoperto l’esistenza delle scuole di trucco.

Verso la fine degli anni Novanta ho iniziato a lavorare sui set pubblicitari, poi in tv – dal programma di Celentano a Mai dire Gol, fino ad arrivare al grande cinema con Il labirinto del fauno (2006) di Guillermo del Toro. È stata la prima volta in cui ho potuto lavorare con “gli effetti veri”, quelli che fino ad allora potevo solo guardare nei making of dei DVD.

Domanda per i non-cultori dell’argomento: tu come ti definisci, “truccatore”? Qual è la differenza tra un make-up artist e un prosthetic make-up designer?

La differenza fondamentalmente sta nella specializzazione in un ramo o in un altro del trucco. Quando ho iniziato ho fatto anche dei trucchi beauty, per shooting e sfilate o film italiani, quelli che chiameremmo trucchi “normali”.

Il prosthetic subentra quando con il trucco non riesci a ottenere determinati risultati e ad accontentare le richieste e le esigenze del regista. È a questo punto che si usano le protesi in gel di silicone, il che richiede un’altra preparazione: c’è dietro un lavoro di laboratorio di scultura, di stampi e creazione delle protesi da applicare. Di sicuro sono contento di aver avuto modo di approfondire un po’ tutto, perché mi ha permesso di avere una visione d’insieme di tutte le possibilità del trucco, anche quello pittorico e teatrale. Ma ora tendo a lavorare principalmente su trucchi speciali, specie con l’uso delle protesi. 

Con il lavoro che hai svolto per Dogman (2018, Garrone) hai vinto premi per il miglior trucco e come miglior truccatore (EFA, David di Donatello). Credi che in Italia ci sia il giusto riconoscimento di questa professione?

No, assolutamente, è come se non esistesse. In realtà non c’è ancora nessun riconoscimento della professione, ma un po’ in tutto il mondo, forse l’unica eccezione sono i BAFTA, British Academy Film Award. In Italia non si parla spesso del truccatore speciale, neanche a livello sindacale, risultiamo come “truccatori”, senza nessun’altra differenza. Con Dogman, però, devo dire che qualcosa è cambiato, perché agli European Film Awards hanno candidato sia la truccatrice, Dalia Colli, che me. Non molti conoscevano l’attore Edoardo Pesce, e non tutti quindi avevano capito il mio tipo di intervento – ma lui ha avuto sia la fronte che il naso finti per tutto il film. Fino a qualche anno fa probabilmente avrebbe vinto solo Dalia, che non si era occupata dell’intervento su Pesce. Ma oggi qualcosa sta – lentamente – cambiando, a partire dai David di Donatello, in cui è stata inserita la voce “trucco speciale” nelle schede di valutazione. Se l’intervento prostetico è presente sul protagonista dalla prima scena fino alla fine del film, è giusto che venga riconosciuto alla mia categoria.

E parlando di protesi applicate dalla prima all’ultima scena, che tipologia di trucco preferisci realizzare? Meglio i mostri che amavi da bambino, come alieni e zombie, o personaggi storici?

Ancora adesso i mostri mi piacciono molto, ma quando li fanno gli altri. I film che faccio fatica a rifiutare sono quelli che richiedono un intervento prostetico, per un invecchiamento o per un trucco naturale. La reputo un’altra tipologia di sfida, perché è complesso rendere reale un viso e le sue espressioni. Siamo abituati a vedere ogni tipologia di volto, e se il trucco speciale non è fatto bene l’occhio non lo inganni, lo spettatore se ne accorge e risulta tutto finto.

Uno zombie, ad esempio, puoi sporcarlo un po’ con il sangue o con la sabbia, oppure se pensiamo a un alieno, nessuno l’ha mai visto, quindi se anche ci fosse qualcosa nella struttura anatomica che non è perfetta comunque ci passi sopra con più leggerezza.

Mettiamo che io debba lavorare per un film in cui un’attrice deve interpretare la biografia di un’altra attrice, magari devo applicarle un mento e sopra un trucco beauty, sarei decisamente teso, soprattutto per mantenerlo tutto il giorno tra i tempi morti, le luci, il sudore e così via.

L’anno scorso è uscito Volevo Nascondermi di Giorgio Diritti, un film che racconta la storia di Antonio Ligabue, pittore e scultore dalla vita piuttosto travagliata. Immagino che tu abbia dovuto studiare approfonditamente la sua figura per trasformare Elio Germano. Che ricerca hai svolto? 

Di solito quando mi capitano questo tipo di lavori la mia domanda è sempre la stessa: quanto dev’essere somigliante?

Aspetto la risposta del regista e da lì iniziamo un po’ a discuterne. Nel caso di Volevo Nascondermi, abbiamo concordato di lasciare qualcosa dell’attore, di Elio, senza cercare la somiglianza precisa e maniacale – se no infatti avrei dovuto allargare la fronte, la forma della testa, le proporzioni. Ho iniziato studiando i materiali della sua vecchiaia, non c’era tantissimo. Le poche foto erano in bianco e nero, non troppo definite, spesso in espressione, poi ho trovato qualche filmato di quando sono andati a intervistarlo a casa sua per girare un documentario. E da lì ho usato principalmente quelli per tirar fuori le sue caratteristiche fisiche principali.

Quali sono gli step che hai seguito per effettuare questa metamorfosi?

Dopo essere entrato in sintonia con i lineamenti di Antonio Ligabue ho studiato e modellato il viso di Elio, secondo quello che in base ai cedimenti della pelle potrebbe essere proprio il suo invecchiamento. Questo per rendere il trucco più naturale e far sì che seguisse anche meglio la sua mimica facciale, poi su questa base ho aggiunto alcuni volumi che richiamavano di più i tratti di Antonio Ligabue: il mento, il labbro inferiore, anche aiutato dai denti storti, le orecchie più grandi e a sventola, i bargigli ai lati della bocca più spessi e, ovviamente, il naso. 

Antonio Ligabue si dava un sacco di botte sul naso, perché riteneva che le persone più intelligenti avessero il naso più grosso, aquilino come quello di Dante, e allora voleva deformarlo per farlo diventare così.

Di solito come reagiscono gli attori alle protesi?

La maggior parte ne è terrorizzata. Immaginate di aver studiato per anni ogni singola micro-espressione, poi ti viene incollato tutto il viso e hai paura di non riuscire a muovere la faccia, e che le protesi nascondano l’espressività. Una volta visto che non è così l’approccio in linea di massima diventa abbastanza positivo. Certo, dev’essere anche pesante, perché per queste operazioni bisogna arrivare molto presto sul set, tenere il trucco tutto il giorno e impiegare almeno un’ora per rimuoverlo.

Elio, in particolare, è stato molto collaborativo, tranquillo e preciso, per niente drama queen

Le protesi hanno un colore tipo manichino, più traslucido, ma ovviamente senza macchie né colore, quindi mentre le applicavo Elio vedeva questi pezzi di gomma chiari che non gli permettevano di capire bene il risultato finale. Poi, dopo aver colorato tutto e avergli appoggiato la parrucca, è arrivato il momento in cui ho provato più soddisfazione: ho visto Elio guardarsi allo specchio ed entrare nel suo personaggio. Dalla perplessità iniziale gli occhi si sono trasformati in espressione, e credo che il trucco sia d’aiuto in questo processo.

Per l’interpretazione Elio Germano ha ricevuto l’Orso d’argento come miglior attore al Festival di Berlino. Che ruolo gioca il trucco prostetico nella resa di un personaggio storico?

Dipende, sia dal film che dallo scopo del trucco. Per esempio in Tutti per 1 – 1 per tutti (2020, Veronesi) ho messo un naso da Cyrano de Bergerac a Guido Caprino, ma non era determinante per il racconto del personaggio, era più un vezzo estetico. Invece ne Il traditore (2019, Bellocchio), abbiamo scelto di raccontare gli interventi di chirurgia estetica a cui si era sottoposto Tommaso Buscetta negli anni e, in questo caso, l’adozione delle protesi su Pierfrancesco Favino era funzionale al racconto della psicologia del personaggio. Il trucco delle volte può avere una certa importanza narrativa, permette di documentare determinate fasi, o aiutare gli attori a entrare meglio nel personaggio.

Elio Germano ha detto che ha potuto dimenticarsi di controllare molte cose, perché già solo il trucco faceva molto, ma credo sia importante considerarlo sempre un lavoro corale.

Se si vuole raccontare un invecchiamento o una malattia, il trucco prostetico è l’unica via percorribile, ma sta tanto anche all’attore che lo indossa, lo interpreta, e che gli dà vita.

E così ha preso vita anche Antonio Ligabue. Tu che idea ti sei fatto dell’artista?

Sono innamorato di Ligabue. Mi ricordo di aver visto da bambino lo sceneggiato Rai su Antonio Ligabue (1977, Nocita), mi aveva abbastanza scioccato. Mi era rimasto piuttosto impresso come personaggio, poi crescendo onestamente me lo sono dimenticato. Una volta arrivata la proposta del film ho approfondito la sua storia e sul set ho incontrato diversi anziani che conoscevano Antonio Ligabue. Essendo morto nel 1965, non troppi anni fa insomma, ho sentito tantissimi aneddoti su di lui, era straordinario. Del suo lavoro d’artista amo molto le sculture e, in quanto personaggio ammiro la sua rivincita professionale, se così la possiamo definire, su chi lo trattava come un reietto. Mi sembra ci fosse un barbiere che lo mandava sempre via e, dopo aver guadagnato riconoscimento, fama e ricchezza, chiedeva al suo autista di passare con la macchina davanti a quel negozio, avanti e indietro ripetutamente, per mostrargli il suo successo. Era una rivalsa. E mi piace in particolare il fatto che abbia sempre fatto arte per sé, secondo i suoi interessi.

È sempre rimasto fedele ai suoi interessi. Mi viene in mente una scena del film in cui mostra un quadro in cui i cavalli sono imbizzarriti a causa di un fulmine, durante un temporale. Gli viene chiesto perché non piovesse sui cavalli, e lui risponde che piove dietro i cavalli, perché lui rispetta i cavalli!

Sì, era fantastico, una volta arrivato in Emilia, dalla Svizzera, ha passato molto tempo nel bosco con loro, una sorta di Tarzan; amava gli animali e ci teneva a rispettarli anche nell’arte. E lui ha sempre fatto quello che si sentiva, poi certo sperava anche di vendere qualche quadro o barattarlo per qualcosa da mangiare o da vestire, però non si preoccupava né si è mai piegato a ciò che richiedesse il mercato di Guastalla in quel periodo. Fa ridere detta così, ma tante volte avrebbe potuto adattarsi alle richieste, anche per evitare gli scherni, ma lui è andato dritto per la sua strada a fare ciò che gli piaceva e, di tanto in tanto, distruggeva anche quello che creava. Mi è rimasto dentro.

Foto © Chico De Luigi