Ci sono tre cose che rappresentano a pieno il territorio Reggio Emiliano: l’accoglienza, la qualità e l’identità.
Quando sentiamo parlare di turismo e di come andrebbero accolte le persone che vengono da altre regioni d’Italia o dall’estero noi sorridiamo: perché nelle nostre terre l’ospite è sacro da sempre, e per sempre.
Ce lo ha raccontato Graziano, uno dei tre fratelli Rossi proprietari dell’omonima fattoria in provincia di Reggio Emilia: “Mio nonno ogni volta che vedeva qualcuno passare per strada lo invitava in azienda e gli offriva un bicchiere di vino”.
In questa testimonianza c’è l’essenza del nostro comprensorio. Un territorio che accoglie e che attraverso arte, cultura, motori e cibo si racconta.
È il Territorio – esplorato in questi quattro aspetti – il nuovo protagonista di Scaglie.
Vi faremo scoprire una compagnia teatrale unica nel suo genere, quella del Teatro delle Ariette che a Valsamoggia in provincia di Bologna ha restituito il teatro al popolo. Si tratta di un collettivo di attori-contadini che coniugano arte e agricoltura riportando in scena la convivialità, coinvolgendo il pubblico all’interno delle rappresentazioni e portando le persone in cucina. La compagnia è l’emblema di come lo sperimentalismo culturale possa sempre trarre spunto dalla tradizione per creare qualcosa di nuovo.
Viaggerete con noi sulla Via Emilia, un vero e proprio percorso on the road nei borghi che hanno dato voce e vita a personaggi come Francesco Guccini, Giovannino Guareschi, Giuseppe Verdi, Luciano Pavorotti e Bernardo Bertolucci.
La via Emilia è un luogo magico per noi emiliani: qui si intrecciano storie, canzoni, film e arte. Questa strada rappresenta la libertà che dalle montagne, attraverso la pianura arriva fino al mare: ve ne mostreremo un pezzettino.
Chissà quante volte Enzo Ferrari ci sarà passato per la via Emilia, e chissà quante intuizioni gli saranno venute proprio lì. Di questo, di Formula 1 e di Motor Valley parleremo con Gian Carlo Minardi, memoria storica dell’automobilismo italiano. Siamo stati accolti nella sua casa e con lui abbiamo ripercorso l’emozione di vedere la propria macchina, nel 1985, correre il suo primo Gran Premio in Formula 1. Ci ha raccontato la storia di una terra impregnata di amore e dedizione per i motori e ci ha rivelato di quando, i piloti della Minardi, prima di ogni gara mangiavano pasta con olio e Parmigiano Reggiano.
Questa volta chiudiamo proprio parlando di cibo e vi invitiamo all’ascolto di uno degli chef più innovativi al mondo: Terry Giacomello. Siamo andati a registrare i suoni del suo ristorante Inkiostro a Parma, dove non si mangia solo con la bocca, ma si vivono delle vere esperienze sensoriali che coinvolgono palato, occhi, orecchie e cervello.
In questo quarto capitolo di Scaglie vogliamo raccontarvi la passione e la dedizione che c’è dietro alle eccellenze del nostro territorio. Ve lo raccontiamo attraverso le parole di donne e uomini che con calma, pazienza e amore ogni giorno rendono le nostre terre luoghi sicuri e accoglienti.
Il secondo capitolo di Scaglie lo abbiamo intitolato “I Guardiani”, la nostra fonte d’ispirazione è come sempre il Parmigiano Reggiano e i motivi sono molto semplici: è il nostro formaggio il primo guardiano di questo territorio. La sua nascita e produzione è, infatti, disciplinata da regole molto ferree, che lo rendono un vero e proprio custode della tradizione.
Il nostro formaggio può essere prodotto solo in questa terra, perché solo nel nostro terreno si presentano le caratteristiche ambientali necessarie alla ricetta perfetta, che dal XII secolo rispettiamo e ripetiamo ogni giorno.
Foraggi, erbe e fieni del territorio costituiscono il principale alimento delle bovine dedicate alla produzione del Parmigiano Reggiano. In questo modo i nostri casari hanno la certezza che ogni goccia di latte che utilizzano per fare il Parmigiano Reggiano rispetta gli standard della Dop.
Vi ho parlato del nostro guardiano d’eccellenza, ma in questo nuovo capitolo di Scaglie ne conoscerete tanti altri: sono le migliaia di persone che ogni giorno si dedicano a custodire la tradizione della nostra produzione agroalimentare, la storicità di alcuni siti archeologici che resistono al tempo e i nostri musei.
Questo mese scopriremo insieme i Castelli Matildici, gioielli architettonici resi celebri grazie alla figura di Matilde di Canossa, una delle donne più importanti del medioevo. Esploreremo l’Abbazia di Valserena, in provincia di Parma, luogo che ha ispirato le ambientazioni dell’opera di Stendhal, La Certosa di Parma.
Entreremo in due dei caseifici del Consorzio del Formaggio Parmigiano Reggiano: L’Azienda Agricola Valserena – in provincia di Parma e risalente al 1879 – e la Fattoria Hombre – in provincia di Modena – storica intuizione di uno dei nostri guardiani più celebri, Umberto Panini.
Vi racconteremo le storie di queste colonne portanti del nostro Consorzio, video e foto vi mostreranno la bellezza di questi luoghi e andremo a scoprire un’altra delle eccellenze del nostro territorio, la Motor Valley. Apriranno, in esclusiva, per Scaglie le porte della Collezione Umberto Panini dove sono custodite diverse auto storiche, di una delle case automobilistiche più iconiche al mondo, la Maserati.
Proseguiremo con la scoperta di una delle altre Dop del territorio, quella dell’Aceto Balsamico Tradizionale. Vi guideremo all’interno della tenuta Venturini Baldini, dove – dal XVI – secolo si producono vini biologici e dove è ancora in funzione l’Antica Acetaia di Canossa.
Concluderemo il nostro viaggio tra i guardiani con un contenuto nuovo, un podcast. Grazie alla voce dello chef stellano Luca Marchini attiveremo l’udito per guidarvi tra i suoni della cucina del ristorante l’Erba del Re a Modena e tra le voci e i rumori dello storico Mercato di Via Albinelli che – da quasi un secolo – anima il centro della città.
Siamo pronti, quindi, per presentarvi i nostri Guardiani: benvenuti nel secondo capitolo di Scaglie.
La storia di una famiglia si intreccia con quella di un caseificio storico, portando nuova linfa a un pezzo di tradizione modenese. L’intreccio è anche tra auto e Parmigiano Reggiano: perché da Hombre c’è, oltre alla produzione del formaggio più famoso del mondo, anche un museo dedicato ad un’altra eccellenza locale, la Maserati.
E in un gioco di intrecci, si perpetua il desiderio di preservare un territorio, un modo di vivere, un’artigianalità unica, che dà vita a un prodotto ogni giorno nuovo ma da sempre uguale a se stesso. Ce lo raccontano Filippo e Gian Luca Raguzzoni, nuovi proprietari insieme a Maria Teresa.
Iniziamo raccontando la storia del caseificio Il nostro è un caso particolare, perché siamo subentrati nel gennaio 2020 in un caseificio che ha una struttura che data metà degli anni ’80. Filippo, dopo aver studiato agraria ed essersi laureato, ha condotto fondi agricoli per un paio di anni ed è entrato in caseificio da gennaio 2020. Io invece ho diverse esperienze: per 25 anni ho gestito un’azienda metalmeccanica di famiglia e nel 2008 ho costituito una banca che ho gestito per 10 anni. Entrambe le esperienze sono utili per la gestione di una piccola azienda agricola come quella che abbiamo rilevato.
La decisione di buttarci in questa attività è legata alla passione di Filippo e di Teresa – mia figlia – per l’agricoltura.
Ho voluto assecondare la passione dei figli diversificando gli investimenti della famiglia, tornando – dopo tanta finanza – a valorizzare asset più reali.
Qual è il vostro ruolo? Noi ci occupiamo della gestione di questa azienda: dai campi, alle stalle, alla produzione, alla stagionatura e alla commercializzazione. È un mestiere molto ampio. Il casaro invece era già all’interno dell’azienda e lavora qui con la sua famiglia da molto.
È un mestiere di tradizione: iniziano a nascere un po’ di scuole ma la vera formazione avviene affiancando un casaro che è l’unico in grado di trasmettere certe sensazioni ed esperienze.
Il latte è vivo e diverso tutti i giorni, quindi serve esperienza per gestirlo e va lavorato diversamente a seconda di com’è la materia prima. Una competenza molto complessa. Oltre al casaro, che è la prima linea di comando dell’azienda, c’è il capostalla che gestisce e coordina le attività zootecniche e ha a cuore la cura degli animali, il loro nutrimento e le visite veterinarie.
Come nasce l’idea del caseificio come lo vediamo oggi? Siamo arrivati qui da pochissimo, e subito c’è stata l’emergenza del coronavirus. Quindi, in prima battuta, per noi è stato fondamentale sopravvivere allo shock di entrare in una nuova azienda in un momento così complesso. Questo periodo ci serve per capire le dinamiche dell’azienda, che sono a volte anche molto complesse. Una serie di attività agricole, fino alla commercializzazione del prodotto, danno vita a una filiera chiusa, completamente interna all’azienda. Occorre quindi sviluppare molte competenze, pur non essendo agricoltori. Il nostro desiderio è sviluppare Hombre per renderlo una realtà un po’ più caratterizzata: vogliamo sviluppare investimenti che vadano nel senso di un maggior benessere di tutti i protagonisti coinvolti.
Che cosa succede qui durante una giornata tipo? È tutto abbastanza semplice: il primo ad arrivare sono io alle 5.30 e con il casaro prendiamo il caffè. Una sorta di rito. Dopo le due fasi di mungitura della sera e della mattina inizia la lavorazione del Parmigiano Reggiano. Il casaro inserisce il latte nelle caldaie alla temperatura che favorisce il funzionamento del caglio. Da qui inizia il suo mestiere più caratteristico che è il taglio della cagliata e della cottura della cagliata a 53/54 gradi per 40/50 minuti. Poi avviene l’estrazione delle forme dal siero, con la tradizionale pala di legno. Da ogni caldaia vengono estratte due forme. Intorno alle 11 finisce e nel pomeriggio avviene la seconda fase della produzione, quando il formaggio viene posto nelle fascere per dare la forma e nella salamoia.
Da quando il caseificio è“Bio”?
Hombre è forse l’azienda che ha l’anzianità biologica più lunga: in provincia di Modena è stata una delle prime.
Nel 1992 è iniziata la conversione al bio, e nel 1996 è stata venduta la prima forma di Parmigiano Reggiano bio.
Qual è la cosa che più di tutte lascia a bocca aperta i visitatori del vostro caseificio? Quella del Parmigiano Reggiano è una lavorazione molto tradizionale e la storia e la tradizione sono quelle che affascinano di più. È un mondo a sé rispetto al resto del mondo caseario.
È affascinante perché mantiene molto salde le radici nel territorio dell’Emilia, si ritrova nell’esperienza delle persone che lo fanno, delle persone che devono seguire norme del disciplinare che sono la storia di questo prodotto e tutta questa cultura che c’è dietro il Parmigiano Reggiano è quella che difficilmente si trova in altri formaggi.
Il magazzino è sicuramente la parte che più colpisce: la vista di questa distesa di forme è quella più emozionante. Sono così tante e così concentrate che hanno sempre un impatto molto bello e sono pochi quelli che resistono al desiderio di fotografarlo.
Qual è invece la cosa che più di ogni altra ha sorpreso voi di questo lavoro? La cosa che più impressiona di questo mestiere è la costanza che richiede. Giorno dopo giorno c’è sempre da fare e richiede una presenza e una costanza che sono solo di questo settore. Insegna la pazienza e la costanza del lavoro quotidiano.
Che cosa vi rende unici, secondo voi? Questo caseificio ha una storia peculiare. Questa azienda nasce con Umberto Panini a fine anni ’70: il fondatore ha sempre cercato in questa azienda di creare una sorta di caseificio aperto, molto legato alla città di Modena e a questo territorio. Qui tutti i giorni le persone possono venire, visitare, muoversi. Sono liberi di guardare gli animali e di vedere come si produce il Parmigiano Reggiano davanti ai loro occhi. Quindi l’unicità è il suo legame con Modena e la sua grande apertura verso l’esterno.
In cosa vi sentite ‘guardiani’ di questo territorio e di questa tradizione? Ci auguriamo di esserlo! L’intenzione è proprio quella.
Vogliamo raccogliere il testimone di una grande tradizione che si tramanda e, nonostante sia cambiata la proprietà, questa rimane un’azienda modenese guidata da modenesi.
Credo che tutte le aziende di produzione di Parmigiano Reggiano siano guardiani di questo prodotto: non si può fare Parmigiano ‘tanto per fare’. Storia, esperienza, tradizione e cultura sono punti imprescindibili per fare questo alimento.
Qual è la storia della Collezione Umberto Panini?
Il Museo Maserati è un’altra parte del legame di Hombre con il territorio.
All’interno dell’azienda è presente una collezione di auto storiche collezionate da Umberto Panini dalla fine degli anni ’90. Il museo è tuttora visitabile e venendo qui si può fare esperienza sia della produzione sia di questa collezione unica.
Anche le auto, per un modenese, sono un patrimonio di tradizione, insieme al Parmigiano Reggiano sono entrambe due caratterizzazioni molto importanti del territorio.
Qual è l’auto più iconica conservata nel museo? Tra tutte, ci sono cinque o sei auto da competizione del periodo eroico dell’automobilismo modenese, dagli anni ’30 agli anni ’60. Ma la mia preferita è un’automobile da corsa del 1934, costruita appositamente da Maserati per un cliente molto particolare: Tazio Nuvolari. In quel momento il pilota aveva rotto i ponti con Enzo Ferrari per motivi economici e quindi era approdato da Maserati, che aveva proposto e realizzato per lui questa auto. Vinse la gara sul circuito di Modena, ma alla fine dell’anno ritrovò un’accordo con Ferrari e si infranse il sogno per la città.
Chi sono i visitatori del museo? Prevalentemente vengono qui turisti stranieri che visitano i musei del circuito della Motor Valley, da Maranello a Modena. Invece i visitatori del venerdì e del sabato sono fondamentalmente i modenesi, che considerano questa l’azienda agricola di casa.
Tra Reggio Emilia e Parma, in mezzo alle colline, sorge un’azienda che ha fatto di vino e Aceto Balsamico Tradizionale i suoi capisaldi: una tenuta intatta dal XVI secolo. Preservare questo territorio e farne un veicolo di comunicazione e di conoscenza universale è parte della missione di Venturini Baldini fin dalla sua nascita nel 1976 e questo testimone è stato raccolto negli ultimi anni dalla famiglia Prestia, dal 2015 custode dello storico marchio reggiano con l’aiuto dell’enologo Carlo Ferrini.
Veri custodi dei 32 ettari di vigneti di proprietà, interamente coltivati in regime biologico, i Prestia hanno impresso nella tenuta una visione personale e distintiva, regalando a questo angolo di Emilia una rilevanza internazionale e una imprenditorialità nuova, basata su una riscoperta della tradizione che vada al di là del consueto. Senza mai dimenticare le origini nobiliare di una realtà fortemente identificata con il territorio di appartenenza e con le sue splendide vigne.
Come custodite il territorio e le tradizioni? A volte devi venire da fuori, come me che sono siciliano, per apprezzare quello che hai. Abbiamo portato Il nostro Sorbara da Modena a Reggio lo cresciamo in collina, dimostrando un attaccamento al territorio che va oltre la provincia.
La nostra acetaia è una piccola chiesa, e la proponiamo come contenitore di territorialità. Mettiamo il meglio dell’Emilia in bottiglia.
Vogliamo portare nel mondo il meglio che l’Emilia può rappresentare. Inoltre, cerchiamo di fare rete e sostenere la filiera: lavoriamo tantissimo con Fattorie Rossi, e facciamo sempre sinergia con altri artigiani di queste zone.
Come nasce questa azienda e come è composta? La Venturini Baldini è qualcosa di unico nel contesto emiliano. Un’azienda di collina e una tenuta storica voluta dai Marchesi Manodori, governatori di Reggio Emilia. Una tenuta di collina che non fu smembrata: abbiamo ancora 130 ettari, di cui 32 vitati, in posizione unica, tra i 150 e i 400 metri di altezza immersa in un parco con una riserva naturale. Acquisita nel 1996 dai coniugi Venturini Baldini ha seguito un percorso unico, prima azienda certificata bio in Emilia Romagna. Negli anni ’90 con un enologo i coniugi produssero il primo spumante di Lambrusco reggiano, in una bottiglia da champagne. Veniva così da Reggio il Lambrusco delle grandi occasioni, che trovò presto i suoi affezionati anche a Modena e a Parma. Più di 30 anni fa ebbero la visione di piantare 20 ettari di Lambrusco anche a Reggio, e con i 12 ettari di vitigni internazionali nella parte più alta della tenuta, con esposizione est ed ovest su terreni argillosi: riuscirono quindi a realizzare il primo metodo classico 100% emiliano prodotto con uve proprie. Inoltre, qui abbiamo la più antica acetaia – risalente al diciassettesimo secolo – di balsamico tradizionale di Reggio Emilia da mosto, e non da vino.
Quali cambiamenti sono avvenuti negli ultimi anni? E come conciliate la vostra tradizione, questa lunga storia, con la contemporaneità? Stiamo cercando di recuperare l’energia, che si era persa visto che i due fondatori erano invecchiati.
Cerchiamo di avere una visione di lungo periodo. Cerchiamo anche di renderci riconoscibili con un taglio stilistico nei vini e nell’approccio.
Vogliamo che i nostri vini si riconoscano per essere eleganti, con un taglio distintivo.
Sei arrivato a Reggio dalla Sicilia: che cosa ti ha dato l’incontro con questo territorio?
Gli emiliani sono persone molto aperte ed è facilissimo fare amicizia, sono aperte e trasparenti, davvero molto accoglienti.
Apprezzo tantissimo la loro forma mentis molto orientata sull’export: hanno un grande amore per far conoscere i propri prodotti in giro per il mondo. Questo amore per la propria terra e per farlo conoscere in altre regioni è proprio di questo luogo, non lo trovi dappertutto. Io sono siciliano e il fatto di guardare le cose con occhi diversi e mettere in discussione certi processi che si fanno da sempre, credo abbia aggiunto valore alla tradizione. Per esempio con il nostro bianco fermo da uve Spergola, un vitigno ancestrale abbandonato perché poco commerciale. L’abbiamo recuperato e lo lavoriamo con un procedimento di vinificazione che usiamo sull’Etna. È venuto fuori un vino straordinario.
Questo dimostra che anche in un mondo secolare come quello del vino, abbastanza statico e con tempi lunghissimi si può continuare a fare innovazione creando un prodotto unico.
È molto affascinante proprio per questo.
Quali sono i valori aziendali che si tramandano nel tempo? Direi innanzitutto la sostenibilità: questa è stata la prima azienda certificata biologica della zona.
Dobbiamo far fronte alle sfide climatiche, con stagioni sempre più estreme. Per questo puntiamo ad avere carbon emission zero, e produrre tutto con biomassa con pannelli elettrici fotovoltaici.
Produciamo già solo in biologico, e per questo non produciamo anidride carbonica. Il secondo valore su cui puntiamo è l’eccellenza: sia per i vini, che per gli aceti, che per l’ospitalità puntiamo alla massima eccellenza possibile di questa zona.
Vogliamo riuscire a rendere gli emiliani orgogliosi della loro terra.
Come si produce l’Aceto Balsamico Tradizionale? L’Aceto Balsamico si può fare solo a Reggio Emilia e a Modena, e si fa dal mosto di uve della zona. Per noi tutto parte dalla stessa uva: facciamo la vendemmia manuale e l’80% di ciò che raccogliamo va per vino, mentre il 20% va a essere cotto in tini d’acciaio nei quali si fa il mosto. Il mosto poi passa a fermentare per 6 mesi nelle botticelle, di legno sempre diverso, per un processo che dura svariati anni. L’aceto più giovane che si può produrre secondo la Dop ha 12 anni ed è il tradizionale aragosta, quello invecchiato 20 anni è l’argento, e poi arriva l’oro invecchiato 25 anni. Oltre a questa linea Dop, con la stessa materia prima invecchiata 4/5 anni, creiamo i condimenti balsamici.
Il maestro acetaio è un consulente fondamentale che nel periodo dei travasi, da quella più grande a quella più piccola, di solito a marzo, definisce i passaggi per rimpinguare la botte più ampia con l’aceto nuovo: è un’ operazione molto delicata.
Qual è il valore aggiunto che L’Aceto Balsamico ha offerto per lo sviluppo e per la conoscenza del suo territorio?
L’Aceto Balsamico e questo territorio coincidono, sono la stessa cosa.
Questa è una tradizione più che millenaria del luogo. L’Aceto Balsamico arriva con Matilde di Canossa: suo padre regalò a Enrico VIII questo liquido che faceva passare la tosse.
Era L’Aceto Balsamico, con una tradizione millenaria in questo territorio. Quando un bambino nasce, molte famiglie fanno partire la propria acetaia, così che i giovani la possano portare in dote alla propria metà.
Se il Parmigiano Reggiano per essere prodotto ha bisogno di una struttura, l’aceto invece si può davvero fare in casa, sotto i tetti. Fa parte della tradizione popolare.
Un professionista equilibrato, un uomo di poche parole e di molta sostanza, schivo come le pianure del Po e concreto come i prodotti che caratterizzano questo territorio pieno di ricchezze nascoste, velate dalla nebbia e trasportate dal fiume Po. Massimo Spigaroli è un concentrato di storia e tradizione, di pragmatismo contadino e visione imprenditoriale. Con i sapori delle sue terre tatuati nel cuore, e nella memoria del palato.
Come ha scelto il suo lavoro? I miei erano ristoratori, contadini e norcini. Avevamo un ristorante di famiglia, Il cavallino bianco. Fin da bambino sono stato allevato in questi tre lavori e con i saldi principi del territorio, dei saperi, delle famiglie all’antica. Ho imparato a giocare vicino al tagliere con i salumi, a impastare in cucina. Da buon figlio di agricoltori ho avuto fin da bambino un pezzettino di orto personale tutto mio, tre galline con un piccolo pollaio, per abituarmi a questa realtà.
Ho sempre voluto rimanere nel territorio e portare avanti queste attività, anche se chiedevo spesso al papà perché dovevamofare tre lavori, e non potevamo accontentarci di uno. La sua risposta era sempre la stessa: “Perché abbiamo deciso di rimanere a Polesine Parmense, e qui con un lavoro solo non si vive. E in ogni caso, un giorno potrai anche comandare, ma potrai solo far fare quello che sai fare tu.”
Un bell’insegnamento. E dove l’ha portata? Da adolescente ho deciso di frequentare la scuola alberghiera per mettere a valore il mio territorio con nuova sapienza. Volevo cominciare fin da subito a trasformare, e non a vendere semplicemente i prodotti. In quel periodo erano gli anni zero, i ragionamenti erano molto diversi. Erano gli anni in cui il culatello veniva venduto a Milano e non si mangiava sul territorio, si vendevano forme di Parmigiano Reggiano da 40 kg, tutti ne compravano 1,5 kg/2. Sui cartelli qui c’era scritto ‘zona depressa’, non arrivava nessuno: questo territorio era il serbatoio dei portinai o dei guidatori del tram di Milano. Io vedevo che c’erano tanti saperi nel mio territorio allargato, ma avevo bisogno di vedere che cosa succedeva nel mondo per capirne le possibili contaminazioni.
E qui è intervenuta la mamma: “Abbiamo bisogno di vedere che cosa succede nel mondo e portare a casa le novità per lavorare meglio. Per avere un futuro bisogna essere padroni del passato, delle tradizioni e della storia che sono le fondamenta su cui costruire tutto il sistema”.
A quel punto partii, e il Paese che più mi ha colpito è stata la Francia: qui avevamo forme di formaggio da 40 kg, là vendevano formaggette da 100 g a 10 volte il costo nostro. Ed erano bellissimi. Gli artigiani credevano molto nel loro prodotto, in quello che avevano fatto. Vedevo il pollo di Bresse e mi ricordavo delle mie galline dalle zampe blu. I prodotti erano molto simili, ma loro li trattavano diversamente, li esaltavano e questi diventavano preziosi volani del territorio. Ho pensato di fare la stessa cosa qui da noi, e ha funzionato.
Che cos’ha creato? Sono partito da prodotti eccezionali, come il Culatello di Zibello: abbiamo creato un Consorzio, ottenuto la DOP e abbiamo iniziato a comunicare le peculiarità e l’eccezionalità di questi capolavori di artigianato.
Alla fine, questo territorio da zona depressa è diventato una zona che fa la differenza sul territorio italiano e internazionale per il turismo enogastronomico.
Qui abbiamo eccellenze importanti: abbiamo il re dei formaggi, il Parmigiano Reggiano, l’aceto balsamico, prodotti davvero unici. Questo territorio è fatto dai suoi prodotti, che derivano da un microclima unico, la nebbia e l’umidità che arrivano e invadono le cantine e regalano a tutto un profumo indimenticabile. Perché il culatello si trasforma e non perdiamo l’alone di artigianalità legati a questi gesti e a questi ambienti.
Io sono un cuoco e ho studiato il mio territorio: è importante conoscere la sua storia e i suoi prodotti, ma occorre anche avere una mentalità aperta, per codificare la storia ma anche crearne una nuova.
Mi sono fatto tante domande sulla cucina gastrofluviale, la cucina del Po, per capire meglio che cos’ha di diverso. Dal fiume ci passava il mondo: l’evoluzione è arrivata dalla contaminazione delle persone che passavano, raccontavano e lasciavano qualcosa.
E da questa consapevolezza si è concretizzato un sogno… Il mio sogno è quello dell’Antica corte Pallavicina. Nel 1990, appena saputo che il castello del paese era stato messo in vendita, e ho visto in quel luogo diroccato il futuro mio e della mia famiglia. Ci abbiamo messo vent’anni ma nel 2010 abbiamo inaugurato lì dentro la nostra realtà, insignita fin dal primo anno dalla stella Michelin, che ha fatto la differenza. Io continuo a fare lo chef, l’agricoltore e la norcineria: alla fine aveva ragione mio padre. Questo triplo ruolo ti dà forza nei ragionamenti e una concretezza che ti fa ottenere risultati.
Ho sempre dato molto per la mia terra perché penso che ciascuno debba restituire alla terra che ti ha dato notorietà.
Fino a questa nuova avventura politica, come Sindaco: c’erano diversi problemi e mi sono reso disponibile con un gruppo di amici, la politica non c’entra. Cerchiamo di dare una visione diversa in questo territorio: vogliamo dare un’impronta e donare i nostri saperi. Quello che sto cercando di fare è curare e mantenere questo luogo intatto.
Quali sono i suoi ricordi legati al Parmigiano Reggiano? Io sono stato allevato a Parmigiano Reggiano e Culatello. A casa si chiamava ‘al furmai’: il formaggio era quello, non servivano altri riferimenti.
Tutti gli altri avevano il nome, ma per il Parmigiano Reggiano non serviva, non c’era bisogno di specificare.
Ho vissuto gli anni in cui si faceva solo nei mesi estivi, mi ricordo benissimo che si copriva con la pece ed era molto giallo. Quello d’inverno non era marchiato. Per fortuna oggi le alimentazioni si sono stabilizzate e lo possiamo avere sempre. Sono stato portavoce spesso in giro per il mondo di questa nostra eccellenza: l’ho raccontato, cucinato, presentato, tagliato. Sono uno che investe in quel che crede e ho sempre messo la mia faccia perché è un prodotto unico e ha un suo sapore inimitabile. Ti dà la morbidezza, la fragranza, il profumo, la fondibilità: ha la capacità unica di essere grasso e di fondere nel modo giusto.
E poi ci sono i ricordi: il profumo di quando grattugi il Parmigiano Reggiano al momento è proprio uno dei miei ricordi d’infanzia, il valore aggiunto del piatto.
A casa non esisteva una pasta senza la grattugiata finale: senza, non era cibo. Metterlo insieme ad altri ingredienti nei ripieni eccellenti che hanno fatto la storia del territorio emiliano è parte della nostra tradizione: la storia è piena di ripieni diversi ma con un unico comune denominatore, il Parmigiano Reggiano.
Giulio Ghiaroni è uno dei soci del caseificio Sant’Anna Bio in provincia di Bologna. Il loro lavoro di ricerca è il connubio perfetto fra tradizione e innovazione. Dal lontano 1959 a oggi il caseificio ha lavorato per crescere non solo economicamente ma anche da un punto di vista etico e sostenibile. Abbiamo ascoltato Giulio Ghiaroni e con lui abbiamo parlato del vero significato del termine “biologico”, di quanto il benessere degli animali e il rispetto dell’ambiente siano alla base del loro lavoro e di quanto, oggi più che mai, siano le persone, la loro salute e la loro serenità il centro di un’azienda che si evolve.
Cosa significa Biologico? “Biologico” vuol dire fare una conversione nella propria mente. È un modo diverso di vivere, di coltivare il terreno, di lavorare. Ci sono tante regole da rispettare, ma la conversione devi farla nella tua testa, dopo arriva la produzione di un prodotto che è sano, leale, senza l’uso di pesticidi e di antiparassitari. Ma secondo me è proprio il modo di vivere che cambia.
Come nasce il caseificio Sant’Anna Bio? Il caseificio nasce nel lontano 1959, da un gruppo di allevatori e coltivatori nel paesino di Sant’Anna, una frazione del modenese, che volevano intraprendere questa attività. Una volta erano 27 soci, tra cui i mei due nonni. Avevamo sei doppi fondi, questo è il modo in cui si misurano i caseifici, si tratta delle vasche dove mettiamo il latte per cuocere il formaggio. Ne avevamo sei e addirittura all’inizio non si lavorava tutto l’anno, nel periodo invernale il caseificio veniva chiuso. Poi quando siamo entrati noi giovani, abbiamo fatto le prime modifiche: abbellire il caseificio, rispettare le normative igieniche e siamo passati da sei a otto doppifondi.
La nostra storia parte da lontano.
Cos’è il disciplinare “OltreBio” e in come vi è venuta l’idea di lavorare su questo progetto? Noi siamo allevatori, per cui il benessere degli animali ce l’abbiamo nel sangue, vogliamo e cerchiamo di far star bene gli animali anche perché se gli animali stanno bene, producono bene.
Il progetto OltreBio si prefigge l’idea di coniugare il benessere animale con la sostenibilità ambientale, le due cose vanno di pari passo.
Abbiamo chiesto in giro come potevamo fare per portare avanti questo progetto e l’Università di Parma e il Centro Ricerche Produzioni Animali di Reggio Emilia hanno sposato in pieno la nostra idea mettendosi alla ricerca con noi. In questo momento stiamo lavorando sul packaging e sull’uso della plastica e stiamo cercando un nuovo modo per confezionare il formaggio ed essere, anche da quel punto di vista, ecosostenibili. Abbiamo consultato anche le associazioni animaliste per capire che tipo di equilibrio dovevamo raggiungere. Alla fine, abbiamo redatto un protocollo che spiegava il tipo di lavoro che facciamo nel nostro caseificio per tutelare gli animali e per proteggere il terreno.
Qual è la routine di lavoro del caseificio Sant’Anna Bio? Noi rispettiamo le regole di produzione del Parmigiano Reggiano, la DOP. Quindi seguiamo tutti i crismi e le regole che ci vengono dettate dal Consorzio Parmigiano Reggiano. Lo facciamo da sempre e abbiamo sempre e solo fatto questo formaggio. Siamo anche allevatori, quindi partiamo dalla mungitura al mattino presto e alla sera (il latte munto la sera viene messo nelle vasche di affioramento. Il riposo notturno del latte permette che si dividano la parte grassa da quella magra, con quella grassa facciamo il burro, la parte magra invece la uniamo alla mungitura della mattina e si usa per preparare il Parmigiano Reggiano). Il lavoro inizia all’alba nelle stalle, il latte arriva al caseificio, viene scaricato e i ragazzi si occupano della cottura del formaggio, poi abbiamo il magazzino di stagionatura dove le forme riposano. Il casaro e la moglie seguono tutte le operazioni dall’inizio alla fine, lui è con noi da tanti anni.
Noi diciamo sempre che il nostro Parmigiano Reggiano ha 4 ingredienti (anche se ne dobbiamo scrivere solo 3): latte, caglio, sale e la passione. Per fare questo mestiere ce ne vuole tanta.
Quali sono state le difficoltà e come le avete affrontate nel rimanere attivi durante il lockdown dell’Italia? È durissima, noi non possiamo chiudere l’azienda. Abbiamo dovuto e voluto lavorare perché il latte e le mucche non si possono fermare. Abbiamo stretto i denti, con i ragazzi abbiamo avuto una collaborazione estrema e cerchiamo di stare tutti attenti e di rispettare le norme di sicurezza e di anticontagio. Eravamo tutti preoccupati, non solo per chi lavorava ma per le famiglie che ogni giorno accoglievano i nostri dipendenti in casa. Adesso forse lo siamo un po’ meno, sembra che i contagi calino e siamo un pelo più tranquilli. Però è stata veramente dura. Fortunatamente non abbiamo avuto casi di contagio.
Lavoriamo 365 giorni l’anno, per noi il calendario è sempre nero, non ci sono ferie.
Il vostro lavoro è quello di far interagire la tecnologia con l’ambiente e la terra in maniera che questa ne tragga vantaggio. In che modo fate sì che esista questo equilibrio e come vi impegnate per tutelare l’ambiente? Abbiamo puntato molto sull’energia solare, tra tutte le nostre aziende collegate abbiamo dei pannelli fotovoltaici che ci rendono possibile la riduzione della CO2. Abbiamo due impianti biogas e produciamo la corrente che utilizziamo, anzi quella che consumiamo è minore di quella che produciamo. Siamo quindi in grado di ridurre e di produrre con il biogas l’energia elettrica. In più ci sosteniamo grazie a un’economia circolare: con le deiezioni degli animali produciamo energia e acqua calda e fertilizzanti per i campi, non utilizziamo un solo litro di acqua per irrigarli, bensì raccogliamo l’acqua piovana e la riutilizziamo. È da qui che nasce il protocollo OltreBio.
Quali sono i suoi sogni per il futuro? Che sogni ho… ne abbiamo realizzati tanti, adesso abbiamo completato la filiera. Abbiamo tutto dal terreno, le stalle, il caseificio, la stagionatura, il porzionamento.
Adesso il sogno più grande è quello di star bene e di rimanere in salute per me, per i ragazzi che lavorano con noi e per le nostre famiglie.
Gianni Degli Angeli è il presidente dell’Associazione La San Nicola (Castelfranco Emilia – provincia di Modena), emiliano doc e memoria storica di un mondo che, grazie alla sua associazione, non scompare. Con lui abbiamo parlato della mitica figura della rezdora, di come queste donne fossero fondamentali nelle antiche comunità rurali e di come, ancora oggi, rappresentino un punto saldo per la tradizione emiliana.
Cos’è una rezdora e cosa significa questo termine? La rezdora è la “reggitrice”: una volta si veniva tutti dalla campagna dove esistevano famiglie estremamente numerose, c’era il capo famiglia e c’era la rezdora, che di solito era la moglie. Reggeva l’andamento della casa, sotto di lei c’erano tutte le altre donne: le famiglie, all’epoca erano composte anche da 20 – 30 persone. Essendo la moglie del capo, lei conservava le chiavi della “spartura” cioè il posto dove si teneva il pane. La rezdora si occupava degli animali, andava al mercato a vendere i prodotti della propria terra e si occupava della spesa quotidiana per permettere alla famiglia di mangiare. Era una persona estremamente importante.
Lei che ricordi ha delle rezdore del passato? Io ricordo ancora un episodio accaduto negli anni ’60, quando andai a visitare una mia zia che si era sposata, sorella di mio papà, in questa casa di campagna. Ricordo che c’erano 28 persone, facevano parte tutti della stessa famiglia. Erano una vera e propria comunità, per questo era davvero necessario che ci fosse una persona che gestisse tutte le altre.
Dalla rezdora dipendeva l’armonia della comunità.
Quanto è ancora presente e forte la figura della rezdora nel territorio emiliano? Adesso questa figura non esiste quasi più, molte famiglie si sono allontanate dalle campagne, si sono divise per venire fuori da gruppi così numerosi. Man mano questa figura è andata, se non a sparire, ad avere un significato diverso.
Si è trasformata nella donna che ha “i saperi e i sapori” della tradizione. Colei che porta avanti la cultura dei nostri nonni e delle nostre nonne. Adesso simboleggiano la tradizione della nostra terra.
Quali sono le ricette più antiche che raccontano questo territorio? Queste signore portano avanti le ricette della cucina povera che c’era un tempo, per esempio la pasta e fagioli, le crescentine, una volta in campagna tutte le mattine la rezdora le friggeva e le portava con dei cipollotti a quelli che lavoravano nei campi. Poi tutti i piatti a base di sfoglia, perché era poco costosa. Si facevano molto i maltagliati, meno le tagliatelle col ragù perché la carne non si mangiava spesso. Si facevano i quadretti in brodo con la cunza (delle piccole palline di carne). La minestra che chiamavano “vedova”, perché non c’era dentro praticamente niente, poi la polenta… tanta polenta.
Una cosa straordinaria che si faceva uno o due volte l’anno era la preparazione dei tortellini: si facevano la sera, quando c’era tutta la famiglia riunita, la rezdora tirava la sfoglia, e tutti insieme, donne e uomini, aiutavano a chiuderli.
Poi si mettevano a riposare in una stanza fredda, coperti da un canovaccio e di solito il giorno dopo si mangiavano. Qui a Castelfranco Emilia è ancora un rito la preparazione dei tortellini.
In che modo state tramandando la tradizione della rezdora alle generazioni future? Noi, come Associazione La San Nicola, abbiamo fatto una raccolta di ricette castelfranchesi proprio per evidenziare e portare avanti le preparazioni tradizionali dei nostri piatti tipici.
Abbiamo raccolto più di 300 ricette e il prodotto che non manca mai è il Parmigiano Reggiano, anche in quelle in cui ci sono delle variazioni questo prodotto è sempre presente.
Organizziamo tutti gli anni i corsi dell’arte gastronomica, uno dei più seguiti è quello in cui insegniamo come il tirare la sfoglia, che è l’elemento base della nostra tradizione culinaria.
Il saper tirare la sfoglia con il mattarello è proprio l’elemento che identifica la figura della rezdora.
A causa del Covid-19 molte sagre e momenti di aggregazione sono saltati. Come l’Associazione La San Nicola mantiene viva la propria missione anche in questo momento? La nostra associazione è presente sul territorio da 38 anni, partecipiamo e organizziamo eventi, quello più importante è la sagra del tortellino che ogni anno attira migliaia di persone. L’anno scorso siamo riusciti a produrre più di duemila chili di tortellini, tutti cotti e serviti in brodo di cappone. Realizzati secondo il metodo antico con la sfoglia tirata dalle nostre “sfogline” con il mattarello e tutti i tortellini confezionati a mano. L’anno scorso abbiamo “sfamato” più di diciottomila persone. Quest’anno sarà diverso ma proveremo in tutti i modi ad esserci, magari organizzando delle semplici degustazioni.
Andrea Campani è un medico veterinario, da anni lavora all’interno di alcuni degli allevamenti che forniscono il latte ai caseifici del Parmigiano Reggiano. Con gli allevatori porta avanti la missione di salvaguardare le bovine da latte. Con lui abbiamo parlato della collaborazione tra veterinari e allevatori, di cosa significhi benessere animale e dell’impegno che c’è voluto per riadattare questo mestiere, impossibile da interrompere, durante il lockdown.
Il lavoro del veterinario all’interno degli allevamenti è uno dei pochi lavori che non si è fermato. Come ha vissuto questo momento d’emergenza? No, non si è fermato. Gli animali d’altronde hanno continuato la loro vita normale, a differenza nostra, l’esigenza di prestare servizio c’era.
In che maniera ha dovuto riadattare il suo lavoro e quali sono state le difficoltà affrontate? Ci siamo riorganizzati. Io collaboro con altri colleghi, di solito facciamo delle visite periodiche sistematiche settimanali, questa volta siamo andati a chiamata. Abbiamo avvisato tutti gli allevatori, quindi chi aveva bisogno di noi non doveva aspettarci ma chiamarci. Erano anche le indicazioni pervenute dal governo, ma è stata una scelta che abbiamo fatto anche nel rispetto degli altri.
Cosa è accaduto e cosa sta accadendo al mondo degli allevatori in questo momento? Noi fortunatamente ci troviamo in una zona che non ha visto coinvolti molti operatori, per cui l’abbiamo vissuta abbastanza discretamente. Da un punto di vista lavorativo per loro è cambiato poco. Per esempio, tra i nostri clienti, abbiamo avuto un operatore di stalla che si è ammalato, quindi lì abbiamo dovuto prestare molta più attenzione. Se ci saranno delle ripercussioni economiche per gli allevatori, speriamo di no, le vedremo fra qualche anno.
Mi racconta la sua giornata tipo all’interno di un allevamento? Noi facciamo delle visite programmate, quindi sappiamo giornalmente quali aziende visitare e organizziamo i nostri giri dividendoci il lavoro. Tutto dipende anche dalla dimensione della stalla, si entra in azienda e si fanno le visite (soprattutto quelle ginecologiche). Per noi è un po’ una “scusa” per parlare con l’allevatore, capire che problemi ci sono, valutare le problematiche aziendali e ci si aggiorna sull’andamento della stalla.
Facciamo proprio i consulenti aziendali e ci confrontiamo con gli allevatori rispetto a tutto ciò che può interferire con il benessere dell’animale.
Quello del veterinario è uno dei mestieri più difficili che esistono, perché “i pazienti” non parlano e non è sempre facile capire se c’è qualcosa che non va. Che responsabilità ci sono quando ci si prende cura degli animali? Noi cerchiamo di supportare gli allevatori, è il nostro mestiere e bisogna lavorare insieme. La difficoltà è sempre quella di raccogliere e capire i sintomi. Negli anni ti abitui all’osservazione dell’animale, di come si sposta, di come si muove, se mangia, se non lo fa, se ha le orecchie basse.
Molte volte è il comportamento che attira l’attenzione degli allevatori e di noi veterinari. Io ho fatto qualche visita con dei medici, per curiosità, e faccio più fatica a seguire quello che mi dice un essere umano – ride, ndr.
Perché sono abituato a guardare il sintomo, quello che mi viene detto tende a distrarmi.
Qual è stata, e qual è ancora, la situazione all’interno degli allevamenti del Consorzio Parmigiano Reggiano. Quali sono le preoccupazioni e le difficoltà nella gestione delle bovine durante il lockdown? Le problematiche sono state quelle di non poter fare le visite quotidiane e gestire i contrattempi che possono avvenire nelle stalle. Per quello che è stata la routine quotidiana come la mungitura e il resto, in questa zona non abbiamo avuto problemi. Una bovina va munta diverse volte al giorno, se non lo fai l’animale ne soffre. Inoltre, sono animali abitudinari, se cambi la routine di lavoro e di vita loro ne risentono sempre. Da noi fortunatamente non è successo.
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