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CIBO

Massimo Bottura non ha bisogno di presentazioni, è lo chef italiano più amato al mondo e da poche settimane Goodwill Ambassador delle Nazioni Unite contro lo spreco alimentare. La sua è una cucina ricca d’innovazione che non perde mai di vista il passato; lo studio delle materie prime e la memoria alimentare sono alla base del suo lavoro. Lo abbiamo raggiunto telefonicamente per parlare di riuso e lotta allo spreco alimentare.

Dal 2015, infatti, Massimo Bottura e sua moglie Lara Gilmore portano avanti il progetto Food for Soul. Una serie di refettori, in giro per il mondo, dove si accolgono persone in stato di difficoltà. In questi luoghi il cibo è uno strumento sociale e di aggregazione e, oltre a nutrire il corpo, dona dignità e accoglienza.

“Oggi 800 milioni di persone al mondo soffrono la fame”, questo è il dato presentato dall’ONU in occasione della La Giornata internazionale della consapevolezza della perdita e dello spreco di cibo. Quale sarà il suo impegno come Ambasciatore di Buona Volontà?

Il mio impegno sarà esattamente quello che è stato fino adesso. Perché se le Nazioni Unite hanno voluto onorarmi di questo titolo vuol dire che stavamo facendo le cose giuste.

Continuerò a supportare la lotta allo spreco alimentare, all’isolamento sociale, al cambiamento climatico, all’inclusività delle categorie più deboli come gli anziani e i diversamente abili.

Adesso stiamo lavorando nell’ottica di includere i migranti che scappano dai propri paesi di provenienza, a loro vogliamo dare la prospettiva di un lavoro che possa farli sentire parte integrante di una società.

La “memoria alimentare” cos’è e perché ritiene che sia importante preservarla in un’ottica di rispetto del cibo?

È fondamentale.

Se un popolo si dimentica il suo passato non ha futuro.

Ma il futuro lo crei sul tuo passato, per costruire le nuove tradizioni bisogna guardare indietro in chiave critica e non nostalgica, solo così si può prendere il meglio del proprio passato.

© Marco Poderi

Il cambiamento deve partire dalla vita di tutti i giorni. Lei durante la quarantena ha portato avanti un format dalla cucina di casa sua che raccontava proprio questo. Le chiedo prima di tutto com’è nata l’idea di Kitchen Quarantine e poi quali possono essere le best practice all’interno delle famiglie per ridurre al minimo lo spreco alimentare?

Il mio non era un format con finalità educative, nasceva dalla voglia di portare gioia e condivisione in un momento così buio; volevamo portare luce. Certo, ha abbracciato tanti aspetti, e lo abbiamo fatto senza filtri. Eravamo, io, la mia famiglia e un iPhone. Parlavamo e affrontavamo diversi temi. Giovanni Assante – imprenditore e maestro pastaio dell’azienda Gerardo di Nola, amico storico dello chef, ndr – che adesso non c’è più, ogni giorno ci mandava una riflessione filosofica. C’erano le richieste di aiuto, come quella dei volontari della Croce Blu con i quali abbiamo raccolto i fondi per una nuova ambulanza. Abbiamo affrontato tantissimi argomenti, anche quello dello spreco alimentare. Il sabato sera spiegavamo come fare la spesa e facevamo la cena degli avanzi, usciva sempre la crosta di Parmigiano Reggiano, il pane secco da recuperare e tanti altri ingredienti che riportavamo in tavola nel modo più creativo possibile.

Nutrirsi deve diventare una scelta etica, non solo una questione di gusto. Un tempo c’era molta attenzione e rispetto delle risorse alimentari, penso a quello che accadeva nelle case dei nostri nonni. Cosa è successo nel tempo? Perché si sono perse queste buone abitudini secondo lei?

I tempi si sono evoluti, non dico che siano peggiorati o migliorati però le cose sono cambiate, è il senso critico che ci deve aiutare a capire cosa possiamo recuperare e cosa, invece, va lasciato andare.

Io sono sempre per l’evoluzione: nel mio futuro c’è sempre futuro, però certe cose vanno ritrovate.

Mi sono preso un impegno con il mondo intero, che è quello della lotta allo spreco alimentare proprio perché condivido quello che era il credo dei nostri nonni, non sprecare nulla. C’era un senso di responsabilità enorme, anche nei confronti degli animali: pensiamo al maiale, che cresceva insieme alla famiglia, spesso aveva un nome e dava la vita per sfamare tutta la famiglia, tutto l’anno. Questa secondo me è una di quelle cose da ricordare e da recuperare ogni volta che uno entra in cucina.

La cucina è un gesto d’amore.

La missione dei refettori di Food for Soul non è solo quella di sfamare i suoi ospiti, ma di farli sentire inclusi e di far vivere loro un’esperienza di accoglienza e di calore umano. Qual è il futuro di questo progetto?

Il futuro prossimo è fra una decina di giorni, ed è l’apertura del refettorio di Lima. Io non potrò viaggiare ma ci saranno gli chef Gaston Acurio e Virgilio Martinez che si prenderanno cura della sede. Tra qualche mese apriremo il refettorio di New York e annunceremo una grande piattaforma che Google ha fatto per noi con la quale condivideremo, a livello mondiale, centinaia di ricette fatte in questi anni nei nostri refettori.

© Marco Poderi

Quale messaggio deve arrivare secondo lei alle nuove generazioni? Che coscienza vorrebbe che si sviluppasse nel quotidiano dei più giovani oggi?

I giovani d’oggi sono pieni di senso di responsabilità, molto più di quando ero ragazzo io.

Hanno una grande visione e rispetto per il futuro, hanno fatto capire alle generazioni passate quanta dignità c’è in mestieri che un tempo venivano considerati “troppo umili”, come quello del cuoco.

Mio padre quando decisi di fare il cuoco, e non l’avvocato, non mi parlò per due anni.

Penso anche a lavori come quello del contadino, c’è gente che sta tornando alla terra, che vuole produrre qualcosa di tangibile nel rispetto dell’ambiente. Sono punti di partenza molto importanti e le nuove generazioni lo stanno facendo in una maniera davvero ammirevole.

Per me quella di svegliarsi ogni mattina, ogni giorno dell’anno e dedicare la propria giornata a produrre un formaggio come il Parmigiano Reggiano, per far sì che non finisca la tradizione secolare e storica di questo prodotto, è una scelta poetica.

Non chiamateli scarti

Fabio Romani è un cuoco e patron, che ha fatto del suo territorio un palcoscenico d’elezione, dove con maestria e abilità mette a frutto la lunga tradizione familiare a Vicomero di Torrile, campagna parmense, da trent’anni. La sua è una scelta radicale: ha voluto mettere al centro la terra nella quale vive e lavora, e che con i suoi prodotti gli permette di fare una cucina ricca di storia e di rivisitazioni di ricette antiche.

Con un’attenzione speciale alla corretta destinazione d’uso di tutte le materie prime: che come la cucina di casa insegna, non sono mai scarti ma opportunità per nuovi piatti.

© Francesca Tilio / Scaglie / LUZ

La tradizione è una garanzia di famiglia?

Il nostro è un ristorante familiare, aperto da mio padre nel ’91. L’anno prossimo saranno 30 anni di attività. E dopo tanti collaboratori, sono subentrato io intorno al ’95, quando dopo il diploma in ragioneria ho capito che la mia vita doveva essere qui. Ho iniziato dalla sala, poi ho fatto diversi corsi, mi sono prima appassionato di pasticceria e poi ho preso in mano anche la cucina. Da quando sono arrivato abbiamo ampliato il ristorante e aperto una sala per la banchettistica. L’anno scorso abbiamo fatto una piccola ristrutturazione e ad oggi siamo soddisfatti: il locale ha un bel respiro, mi piace la luce che entra. E d’estate abbiamo anche un giardino dove ospitare nostri clienti.

E oltre alla tradizione familiare, c’è tanta tradizione anche nelle ricette?
Il nostro è un locale tipico al 100%.

Le nostre ricette sono di famiglia, delle nonne, del papà.

Naturalmente un po’ riviste, secondo i criteri attuali. Il senso della ricetta è sempre quello: la tradizione legata ai piatti che proponevamo in famiglia, ma le ricette sono state adattate ai tempi nostri. Se una volta era molto presente la parte grassa, oggi viene privilegiata invece la qualità del prodotto. Se nel guancialino di manzo le nonne mettevano un chilo di grasso, noi usiamo un olio extravergine per far sì che il prodotto sia digeribile. Le persone non vanno più nei campi a lavorare, e dopo un pranzo non devi sbadigliare tutto il pomeriggio!

Qual è la tua ricetta per il riuso?

Abbiamo cominciato più di 20 anni fa a preparare una ricetta che proponiamo ancora oggi. Sono le croste di Parmigiano Reggiano marinate. La preparazione è lunga ma il risultato molto interessante a livello gustativo. La ricetta prevede di bollire con le verdure le croste del formaggio, per un giorno intero. Poi vengono scolate e fatte raffreddare e infine conservate in olio extravergine d’oliva. È un fuori carta che proponiamo ogni tanto, quando riusciamo a ritagliarci il tempo necessario per prepararle, visto che in tutto è un lavoro abbastanza lungo, che richiede tre giorni di lavorazione. Il buono è che questo processo rende morbide e tenere le croste: la piacevolezza finale è dovuta alla morbidezza. In alternativa, come da tradizione, le croste vengono usate nei minestroni o nel brodo.

Il riuso in cucina è anche un rischio, bisogna fare molta attenzione: sicuramente si possono riutilizzare tante cose, ma senza che il prodotto finale ne risenta.

Ci sono tanti scarti nella cucina di tradizione?

Io devo dire che scarti non ne ho: ho una destinazione d’uso. Facendo tanta griglia, per esempio, ho le parti delle tagliate, la copertina, e le metto nel brodo per averlo più saporito.

Per me è questo il senso del recupero, ottimizzare i processi di lavorazione.

In realtà noi per fortuna non abbiamo tanto scarto, perché la cucina della tradizione è legata proprio a questo principio: in casa non si buttava via niente! Tutto ha un suo utilizzo e una destinazione d’uso, non li chiamerei nemmeno “scarti”.

È cambiato qualcosa, per voi, dopo il lockdown?

Il lavoro è cambiato tantissimo. Sono cambiati la tipologia di somministrazione e i consumi. Prima avevamo un ricchissimo buffet di antipasti, con 60 proposte al banco. Negli anni ci siamo accorti che le persone si sono rivolte di più alla tipicità, e il buffet è andato scemando. Alla fine anche spinti da queste nuove leggi l’abbiamo tolto, ma anche quando si potrà, non ho intenzione di riprenderlo. I clienti oggi mangiano anche una cosa in meno, ma pretendono la qualità assoluta.

Come si racconta e si protegge il territorio?

Noi lavoriamo con i cittadini di Parma, siamo in campagna, appena fuori, e abbiamo creato il momento aperitivo con musica in sottofondo, una proposta easy per tutti con solo prodotti del territorio. Il nostro menu è legato alla nostra terra: torta fritta, Parmigiano Reggiano, Prosciutto di Parma, paste fresche all’uovo, lunghe cotture della tipicità. E dopo il lockdown abbiamo fatto una scelta radicale: usiamo solo ed esclusivamente prodotti italiani, anche in cantina. Ho abbandonato del tutto i grandi distillati stranieri e le bottiglie che vengono dall’estero per fare una scelta tricolore. Per me è premiante: c’è il cliente che non capisce e quello che è piacevolmente colpito, si va a sensazione. Ma ritrovare gli uvaggi del territorio e premiare questa terra per me è fondamentale. So che siamo un’isola felice, e di sicuro questa scelta di premiare le produzioni locali ci caratterizza.

© Francesca Tilio / Scaglie / LUZ

E il Parmigiano Reggiano quanto è presente?

Il Parmigiano Reggiano è presente da sempre in tutti i nostri primi piatti e lo usiamo in diversi secondi. E c’è una entrée che lo esalta al meglio, secondo me: un panino che raccoglie tutte le filiere. È un pane artigianale scottato nel burro che fa la crosticina molto piacevole, condito poi con una maionese artigianale fatta in casa, con l’olio delle acciughe piccanti Rizzoli. Ci mettiamo un burger con una carne macinata di alta qualità prodotta qui, del porro stufato e una cialda di parmigiano a dare correntezza. A completare, qualche foglia di insalata e una fettina di Crudo di Parma 30 mesi. Per me, è uno spettacolo.

A scuola di non spreco

Ironico e scanzonato, determinatissimo e professionale: Andrea Sinigaglia, direttore della scuola di Alta formazione gastronomica Alma, la più celebre di tutte, è un personaggio sfaccettato che riesce a tenere a bada migliaia di aspiranti chef, pasticceri, camerieri e sommelier alternando la forza del sorriso e il pugno di ferro della disciplina. Governa un universo delicatissimo, dove si incontrano studenti da tutto il mondo e realtà internazionali, in un luogo fortemente radicato nella provincia italiana, immerso nella campagna parmense, pervaso di storia e di tradizione enogastronomica. Durante Expo 2015 ha colto l’invito di rendere ancora più sostenibile la sua realtà, e oggi è una delle scuole di cucina più all’avanguardia anche sui temi del riuso e del non spreco. Che si dimostrano con la pratica, ma si insegnano come materie umanistiche, mettendo in atto una vera e propria rivoluzione culturale.

Da dove parte l’idea di una scuola votata alla sostenibilità e al non spreco in campo alimentare?


L’idea di lavorare sempre di più sulla sostenibilità e sul non spreco viene innanzitutto dagli chef che noi abbiamo a scuola come docenti: alcuni di loro hanno innato questo valore, sono chef di nuova generazione, giovani trentenni che ci spronano tantissimo in questa direzione. È la nostra anima interna, che ci sollecita l’attenzione a questo tema così caldo.

Quando ha preso piede questa sensibilità sul tema?

Noi abbiamo iniziato a lavorarci come scuola a partire dalla provocazione del titolo di expo 2015, e abbiamo introdotto il progetto “Next generation chef”. Abbiamo fatto una grande ricerca sugli studenti, per capire prima che cosa conoscessero dei temi del riuso e della sostenibilità, e che cosa mettessero in pratica: perché c’è differenza tra sapere, credere di sapere e fare. Da quel lavoro, nel 2016, abbiamo organizzato un grande convegno da cui è nato un libro. E nel 2017 sono arrivati i primi incontri di approfondimento, sono nate le lezioni che facciamo nelle nostre classi sul tema del riutilizzo, del non spreco, della sostenibilità

È un percorso di conoscenza che tocca tutti i ragazzi, di tutte le nostre classi e per tutti i corsi di specializzazione. A questi si accompagna una grande attenzione al tema anche a livello pratico, a scuola. Portiamo i ragazzi a fare foraging sull’Appennino, a fare coaching e a scoprire la biosfera nel territorio che circonda Alma.

Come si inserisce il Parmigiano Reggiano in questa attività?

Tutti gli studenti di Alma vengono portati a visitare i caseifici: il Parmigiano Reggiano da mille anni determina il paesaggio in cui siamo. E la sua produzione è una sintesi magistrale del tema del riuso e della sostenibilità. Per fare quel prodotto, che è il nostro oro, la nostra identità, è l’eredità e il luogo di attenzione, è stato costruito un sistema di sostenibilità fragilissimo. Portare i ragazzi nei caseifici è come un’applicazione di tante teorie: perché ci aiuta ad insegnare loro l’importanza degli animali, della materia prima, il valore del lavoro dell’uomo, la pazienza dell’attesa e il radicamento nel territorio. Questa, tra le varie uscite didattiche, diventa un emblema di come un sistema sostenibile possa generare una eccellenza assoluta, conosciuta in tutto il mondo. Per me, che sono radicato qui, è come se parlassi di mia mamma!

Come si gestisce professionalmente il non spreco?

Il futuro è nella tecnologia che stiamo cercando di introdurre. Un cuoco è una persona molto pragmatica: se una cosa la tocca ci crede, se no no. Per questo è importante avere una tecnologia che misuri e renda subito evidenza di che cosa porta a livello pratico ed economico un comportamento virtuoso rispetto a uno non virtuoso. Stiamo quindi lavorando all’introduzione di una bilancia scanner, già usata dalle grandi catene alberghiere, e che permette di vedere i residui organici di quello che butti e di elaborare una statistica. Un metodo empirico che mette subito in evidenza gli scarti che produci e ti permette di intervenire per rimodulare i tuoi acquisti e le tue procedure. Io settimanalmente ricevo un report che mi svela quanta immondizia abbiamo generato, divisa per tipologie, e ho un focus sull’organico, con i dati rispetto al peso e al valore di ciò che è stato buttato. Un lavoro importante sul non spreco si può fare, dunque, però servono strumenti e bisogna investire in metodi di misurazione e analisi.

© Francesca Tilio / Scaglie / LUZ

Come reagiscono gli studenti?

Gli studenti si scandalizzano se non parli di questo argomento. Le nuove generazioni sono nate con un forte imprinting dal punto di vista della sostenibilità, sono imbevute di queste cose. Ma non gli basta che lo dici, devono anche vedere che lo metti in pratica.

Per noi, nell’ottica del riuso, per esempio, c’è un’altra cosa banale ma significativa: abbiamo dei corsi di tecniche di base per la parte di gastronomia, che richiedono tagli e preparazioni su grandi numeri, per dare a tutti la possibilità di provare. Abbiamo quindi implementato un circuito produttivo interno virtuoso, in modo che nemmeno una carota di quelle usate per imparare venga sprecata.
Tutti gli alimenti usati per le lezioni, imbustati, vengono posti in una cella specifica e diventano la base del pranzo della popolazione di Alma. In generale comunque per i giovani di oggi è inconcepibile buttare il cibo. Se un tempo prevaleva l’alta gastronomia, che nella sua perfezione prevedeva scarti anche ingenti, oggi non è più tollerata e anche i grandi chef parlano di queste cose. E lì non puoi cadere: è la prova del nove di una educazione che vuoi dare.

Perché non è solo una questione di pratica, ma serve anche un cambiamento di modello di pensiero?

Sicuramente. Tutti questi temi portano anche scuole come le nostre a cambiare, passando da realtà di formazione a realtà educative. Dobbiamo riflettere sul ruolo del cuoco e capire che anche questa professione ha una responsabilità ambientale e sociale. E per far capire questo va fatto un lavoro di formazione sociale. Lo facciamo per loro, e lo spieghiamo sempre: il cliente che si troveranno davanti è eterogeneo, però se oggi ti chiede se sei attento all’ambiente tu devi essere pronto a rispondere. Spesso avranno a che fare con clienti distratti, ma a volte troveranno un cliente iperpreciso o pignolo, e nel momento in cui si lavora per una grande realtà ristorativa non si può essere manchevoli su questi temi così attuali. Noi potremmo continuare ad insegnare l’alta cucina com’era un tempo, ma quel messaggio non è più smart e se lo usi paghi pegno, ed è giusto che sia così.

Se i giovani nascono con il green nel dna, i loro genitori come si pongono?

C’è un gap generazionale incredibile: i ventenni di oggi questa cosa la danno per scontata: sono nati con raccolta differenziata, con le lezioni a scuola, con Greta che quel messaggio l’ha sbattuto in faccia al mondo.

Anche le generazioni precedenti stanno facendo tante riflessioni su questo tema, ma perché colti in castagna dai propri figli. Non c’è più margine per girare intorno al tema senza fare nulla. E stanno cambiando anche comportamenti radicati. Pensiamo ad app tipo Too Good To Go: uno della nostra generazione si sarebbe vergognato di acquistare i prodotti avanzati nei locali o nei supermercati, oggi non è più così. E queste app non le usano solo i ragazzo di vent’anni. Sarà sempre più veloce e virale l’attenzione verso questi temi, che magari rimangono in filigrana, ma danno autenticità alla banconota solo se dietro c’è un valore autentico.

Come sono cambiati gli studenti?

Lo studente sicuramente è cambiato ed è cambiato proprio il clima, di queste cose se ne parla, anche nelle scuole alberghiere. Sono comparsi tanti contest che chiedono di riutilizzare gli scarti, e questi concorsi creano la coscienza sociale dei giovani sul tema. Poi assistiamo a tante sollecitazioni a livello internazionale. Noi a scuola già nel 2010 abbiamo eliminato tutta la plastica e creato una posata speciale, si dà importanza packaging anche nelle scuole alberghiere. Sono aumentati in maniera netta i libri che abbiamo in biblioteca sul tema, che sono cresciuti tantissimo in quest’ultimo periodo.

La pratica è sufficiente su un tema così vasto, profondo e globale?

La cosa fondamentale è che qui non è un problema di competenza nuove: qui è un problema di cultura. Bisogna cambiare la testa delle persone. Il cambiamento che dobbiamo mettere in atto ci impone di diventare riflessivi su ogni passaggio della professione, perché dentro ogni cosa c’è la possibilità di farla bene o meglio.

Bisogna smuovere il livello valoriale delle persone, e questo lo puoi fare solo se nella realtà dove vivono e studiano i ragazzi tutto agevola un atteggiamento di questo genere. Un conto è sapere che esistono i piccoli produttori, un conto è incontrarli. Tu sai che se compri una cosa la compri da quella persona lì, e ti scatta un senso di educazione, acquisisci valori, hai rispetto. Serve un cambiamento di atteggiamento, non solo di contenuti. Del resto, è scritto sulle pareti di Alma ed è il nostro primo comandamento, che ci ha lasciato il signor Marchesi: l’esempio è la più alta forma di insegnamento, anche in questo settore.

© Francesca Tilio / Scaglie / LUZ

Quali sono le difficoltà che incontrate?

Se sono il primo che non è attento a rispettare il cibo sarò subito sotto esame: ai giovani di oggi non puoi più raccontare storie. Sono anche un po’ nervosi con la nostra generazione di genitori: il pensiero comunque è sempre quello: tu adesso mi insegni a fare il bravo, ma sei tu che hai combinato questo disastro. Da parte nostra, bisogna avere la coscienza del momento, e non il senso di colpa: bisogna essere onesti. Questa è una rivoluzione che va fatta persona per persona. Non deve diventare ideologica, ma sono i grandi sistemi che devono cambiare le cose: è un tema di educazione della persona da fare uno studente alla volta.

Agire localmente e pensare globalmente

Le idee e la passione per il sociale sono spinte propulsive fortissime, che permettono alle persone di fare insieme ciò che da sole non riuscirebbero nemmeno a pensare: è questo il principio su cui si basa la vita associativa di Rolando Cervi, presidente del WWF di Parma dal 2011 e attivista da oltre vent’anni di questa grande realtà, operativa in tutto il mondo sui temi ambientali. Temi che si intrecciano fortemente con la vita delle persone e del territorio, riuscendo a incidere sulla nostra quotidianità più di quanto pensiamo.

Quanto conta lacqua nelleconomia di un territorio?

Le città che hanno un affaccio sull’acqua, sia essa mare, lago o fiume, hanno sempre una relazione molto intima con questo specchio d’acqua, sotto vari aspetti, culturale, sociale, ambientale. Per noi il torrente Parma è un bel corridoio ecologico che attraversa la città e ne condivide il nome: è un pezzo importante della città.

È un pezzo di ambiente naturale in mezzo al centro urbano, che nel tempo ha riguadagnato alberi, arbusti, ed è pieno di animali: è un bel pezzo di natura in mezzo alla città, e non capita spesso in altri centri. La città è abituata ad averlo e noi facciamo buona guardia.

Una bella vittoria l’abbiamo avuta l’anno scorso, quando il Comune voleva fare una pista ciclabile nell’alveo del torrente. Questo corso d’acqua cittadino ha una caratteristica unica o quasi: ha un livello di naturalità altissimo. Attraverso questa via d’acqua, per esempio, i caprioli arrivano praticamente in città. Creare qualcosa di ‘costruito’ avrebbe rotto questo ecosistema: stimolata da noi e con una rete di associazioni è nata una vera e propria sollevazione popolare. Il comune ha cambiato idea e hanno accantonato il progetto, lasciando intatta questa importante risorsa. La città ha capito che non era solo un problema ambientale, ma culturale. A Parma siamo fortunati, abbiamo dei polmoni verdi, come il parco Ducale e il parco Cittadella: ma quello è verde in qualche modo “governato”, mentre quello del fiume – pur essendo anch’esso pulito e governato – ha un livello di naturalità molto bello e sorprendente: non è abituale avere i caprioli a 100 metri dal centro. Non sono molte le città italiane che hanno questa fortuna. Questo corridoio d’acqua non è stato disegnato o progettato da nessuno: ci siamo semplicemente “distratti” per qualche decennio e la natura ha ripreso i suoi spazi. Con il lockdown poi, abbiamo visto molti più animali del solito: era ancora più frequente vedere fagiani e martin pescatori che hanno ripopolato quell’ambiente e l’hanno reso ancora più interessante dal punto di vista naturalistico.

© Francesca Tilio / LUZ /Scaglie

Qual è stata la spinta che lha portata a diventare un volontario sui temi ambientali?

Ho un’estrazione umanistica, non avevo una competenza verticale specifica sui temi ambientali, ma nel tempo ho studiato molto e ho fatto un corso di perfezionamento universitario sul cambiamento climatico. Da qualche anno questo è diventato – oltre che il mio impegno sociale come volontario dell’associazione –  anche il mio lavoro, con attività di consulenza e formazione.

Nel tempo, come attivista prima e come presidente poi, ho maturato le competenze che servono e mi sono occupato di tantissimi temi, dalla biodiversità, al verde urbano, alla natura, ho affrontato la questione del lupo – il WWF si è battuto contro la proposta di alcuni comuni in Italia che supportavano l’abbattimento controllato dei lupi tornati, in maniera naturale, in alcune zone dell’Appennino, ndr –  e sono referente di una delle due aree protette che abbiamo in zona. Mi sono avvicinato a questa realtà credo per merito di mio padre: anche in tempi in cui questi argomenti erano poco di moda lui mi ha trasmesso l’attenzione all’ambiente e al contrasto all’inquinamento, con una visione civica del problema. La mia passione nasce da lì.

Quanto ha inciso nella sua vita privata e professionale questa esperienza?

Una delle cose di cui sono più grato di quest’esperienza è quanto ho imparato. Ho imparato a digerire le sconfitte, che nella vita poi significa saper perdere. Da quando si è creata la necessità di diventare presidente dell’associazione ho imparato un sacco, perché in questa attività non c’è una routine: impari e ti metti in gioco ogni giorno su cose che non sapevi fino a un attimo prima. Credo che valga per qualunque ambito di volontariato: oltre al fatto di aiutare la collettività c’è un forte senso di responsabilità. Senti di dare il tuo contributo: occuparsi di ambiente è una forma di solidarietà e di giustizia intergenerazionale. Ti occupi della giustizia, e di quello che saremo noi tra vent’anni. Ci dobbiamo rendere conto che stiamo segando il ramo sul quale siamo seduti nella totale indifferenza di chi verrà dopo di noi.

Il WWF come tutela questo territorio? 

Questa è un po’ una peculiarità italiana. Il WWF Italia è un pezzo del WWF internazionale ed è strutturato in decine di attività territoriali, associazioni locali di varia natura e di varie dimensioni che fanno capo al WWF Italia. Questa è sia una difficoltà che un’opportunità. 

Puoi trovarti localmente a gestire situazioni dovendoti inventare idee e procedure, perché quello specifico problema non è nelle priorità nazionali dell’associazione. Questo ti obbliga ad agire con creatività e concretizza quel vecchio motto: “Agire localmente e pensare globalmente”.

Sei sempre all’interno di un contesto che ti obbliga ad avere una visione globale, che per me è il modo più avanzato di occuparsi di ambiente.

Credo comunque che oggi questo sia l’unico approccio possibile rispetto a qualunque tema. Lavorare con un’associazione come il WWF ti obbliga a curare le relazioni tra centro e periferia, e ad allinearti ad alcune norme che ti vengono date. Ti obbliga a mantenere lo sguardo sulle dimensioni larghe delle questioni. Questa è l’altra grande cosa che ho imparato da questa esperienza: lo sguardo troppo vicino ti fa magari venire a capo di una cosa di breve periodo, ma perdi la visione allargata, che è quella su cui costruire sul lungo periodo.

Come possiamo, da cittadini, fare la nostra parte per alleggerire il carico della Terra?

La cosa principale da fare è culturale: è comprendere a fondo il fatto che tutte le risorse che utilizziamo sono finite, nel senso di disponibili in quantità limitate.

I guai che abbiamo come umanità dipendono per la maggior parte da problemi legati all’ambiente. Il cambiamento climatico è la minaccia più grande che ha davanti l’umanità: non c’è problema economico, sociale, geopolitico che non sia legato al cambiamento climatico. Tutti gli analisti ci dicono che nel prossimo secolo tutte le guerre che si sono combattute per il petrolio si faranno per l’acqua, e questo vale in tutto il mondo. Dobbiamo capire profondamente che viviamo in un mondo che ha dei limiti, e quindi smettere di sprecare ed eliminare tutto ciò che è superfluo. Faccio il solito esempio stupido: chiudi l’acqua mentre ti lavi i denti. Negli ultimi 50 anni ci siamo abituati a immaginare l’acqua come risorsa infinita e sostanzialmente gratuita. Non è così. È vero che lo spreco maggiore lo fa l’agricoltura, ma il peso del nostro spreco d’acqua domestico è il 20% del totale. Ha un peso relativo, ma ce l’ha. L’atteggiamento che teniamo rispetto a questo problema è comunque significativo: l’acqua ha un costo nella bolletta ma soprattutto ha un costo per l’ambiente. L’acqua potabile è una percentuale infinitesimale di quella della Terra: ricordarsene è fondamentale.  

© Francesca Tilio / LUZ /Scaglie

Quindi dobbiamo in qualche modo fermarci?

Capire la finitezza delle risorse della terra significa smettere di sprecarle. Non significa che dobbiamo tornare indietro: è vero il contrario. La sostenibilità è la più grande forma di innovazione che si possa portare oggi. Tutte le grandi innovazioni che verranno nei prossimi decenni o saranno sostenibili o non saranno innovazioni.

Chi dice che gli ecologisti sono contro il progresso o è ignorante o è in malafede: il divorare la terra come abbiamo fatto negli ultimi 200 anni è quello che Pasolini avrebbe definito uno sviluppo senza progresso. L’unico vero progresso è quello della sostenibilità, non solo ambientale ma anche sociale ed economica.

Tutti i guai che abbiamo in ambito geopolitico sono legati anche a questioni di tipo ambientale: i cambiamenti climatici costringeranno alle migrazioni dai 300 milioni al miliardo di persone. L’Europa oggi rischia di andare a gambe all’aria per qualche migliaio di migranti: come pensiamo di gestire questa cosa così tanto più grande? È chiaro che tutto questo ha dei costi, ma pensare la sostenibilità è una grande forma di progresso.

Chef si diventa

Chef di una delle osterie storiche della bassa parmense, e parte dell’Unione Ristoranti del Buon Ricordo, Cristina Cerbi è una forza della natura che con il suo accento parmigiano racconta il suo territorio con una grande competenza. Piglio deciso e idee chiare l’hanno portata dall’economia alla ristorazione: commercialista nella sua prima vita, dopo aver conosciuto il marito e i suoceri, gestori di un ristorante, ha cambiato settore, imparando dalle basi un lavoro che adesso ha scelto come vero stile di vita.

Uno dei piatti simbolo del ristorante e che non è mai cambiato è giustamente famoso anche all’estero. Viene servito in zuppiera, estate e inverno, ed è un brodo fumante di cappone in cui galleggiano le mezze maniche con un ripieno gustosissimo. Un condensato di territorio diluito nell’acqua, insaporita da carne, storia e Parmigiano Reggiano.

Da dove nasce la tua passione per questo lavoro?

I genitori di mio marito, e prima di loro i nonni, hanno sempre avuto una di quelle trattorie storiche sulla via Emilia, dove si fermavano i camionisti. Io ho iniziato lì, e poi – solo lui ed io – abbiamo rilevato una vecchia osteria, dove praticamente siamo stati adottati dai vecchi proprietari.

Facciamo una cucina legata al territorio e alla stagionalità, riscoprendo vecchissime ricette.

Tra le quali, una che – partendo da acqua e Parmigiano Reggiano – ha fatto il giro del mondo…
Sì, le mezze maniche di sfoglia sottile con Parmigiano Reggiano, in brodo di cappone. Una sfoglia arrotolata, tagliata e fatta bollire nel brodo di cappone. È una ricetta che viene dalla bassa, non la faceva più nessuno. L’abbiamo riproposta circa una ventina d’anni fa e ha subito avuto un bel successo. Essendo una ricetta della tradizione, è sempre esistita nella nostra zona: nella bassa di Zibello la facevano anche tante altre famiglie. Alla fine non esiste mai una ricetta ‘vera’, perché ogni famiglia apporta le proprie modifiche, come ho fatto anch’io. Perché se un piatto andava bene 40 anni fa, oggi non va più così bene: sono cambiati i modi di mangiare, sono cambiate le nostre abitudini lavorative. Oggi non devi essere appesantito nell’appagamento del gusto: devi essere alleggerito. Per questo la sfoglia la tiro molto più sottile di quanto direbbe la tradizione, diventa un velo trasparente. E all’interno del ripieno uso Parmigiano Reggiano di due differenti stagionature, un 24 e un 36 mesi. Metto pochissimo pangrattato, giusto per legare: una volta ne si metteva di più, bagnato con sugo arrosto o brodo. Oggi sto cercando di calibrare meglio le materie prime, per avere un risultato più leggero. Naturalmente non può mancare un brodo di terza, anch’esso più leggero rispetto a quelli di anni fa: alla fine queste mezze maniche sono come un cappelletto aperto, e cuocendo il sapore del ripieno si unisce a quello del brodo.

Sono 15 anni che siamo qui, e la cosa che ci fa più piacere è sentire tantissimi clienti giovani dirci che siamo riusciti a replicare una ricetta delle loro nonne che non trovano più in giro. La cosa più bella è che lo rendiamo più attuale, più moderno, ma non per questo meno tradizionale.

Com’è avvenuta la tua formazione gastronomica?

Io facevo la commercialista. Mio marito era la terza generazione di ristoratori. Ho resistito cinque anni dopo averlo conosciuto, e poi ho deciso di abbandonare il mio lavoro e buttarmi nell’impresa della sua famiglia.
Ho iniziato nel 1996: l’unico reparto in cucina che non era coperto era il reparto del dolce. All’epoca non era così importante come oggi, e ho iniziato a farli io. Oggi posso dire che la nostra osteria è famosa anche per i dolci. Io ho imparato da mio suocero. Poi, piano piano, sempre per imitazione, ho iniziato a conoscere le tecniche di cucina e ho appreso il resto.
Oggi in cucina ci sono io con due ragazze, una delle quali è con me da 25 anni. Una cucina al femminile, un universo nel quale mi trovo bene, con loro mi piace collaborare, ci capiamo al volo.

Perché la cucina professionale è quasi sempre un affare da uomini?

Perché è un lavoro fisicamente pesante per una donna. Io ho avuto due figli e ho vissuto la mia maternità in cucina, ma perché ho avuto la fortuna di stare bene. Servono concentrazione mentale, bisogna essere veloci e risolvere i problemi che si creano rapidamente. Si sta in piedi 10 ore come minimo.

Ci tieni molto a non dire che ‘rivisiti’ i piatti tradizionali. Perché?

Ogni chef ha la sua linea aziendale, siamo tutti diversi e ciascuno deve fare bene quello che pensa sia giusto. Per me è importante che il mio ospite, quando mangia un piatto, lo riconosca visivamente, immagini già quale può essere il gusto, ma lo scopra più leggero da mangiare: per me così hai fatto tombola, perché non mi piace alzarmi da tavola appesantita. Per me se rivisiti rischi di perdere l’essenza del piatto, e quando lo scomponi troppo perdi il gusto originale. Se invece lo alleggerisci il più possibile, tutti riescono a mangiarlo, a capirlo e ad apprezzarlo.

Ti manca il tuo lavoro di prima?

No, non mi manca per niente. Venticinque anni fa era diverso fare la commercialista, adesso è molto più complicato. Il mio lavoro attuale è bello, la giornata mi passa velocemente: non ti rendi conto, ed è già arrivata sera. La cosa più bella è che ti permette di conoscere tantissime persone, non soltanto legate al tuo settore: persone di tutto il mondo.

E poi alla fine mi serve anche adesso, saper fare i conti: di amore e di aria non si vive. L’equilibrio di una azienda è anche economico, e far quadrare tutto ti serve per investire, per avere la possibilità di un ragazzo in più per migliorare il servizio, per esempio. Perché la gente quando viene da noi vuole serenità, e non ascoltare i nostri problemi.

Questo lavoro avrà anche qualche difetto…

Ti priva di qualsiasi spazio e tempo libero. Ti assorbe qualsiasi energia. E questo non è legato soltanto al momento del servizio: è un lavoro che ti porti anche in vacanza. Sei sempre alla ricerca di qualcosa: alla fine non è un lavoro, è la vita. Tante volte trascuri la vita personale: devi trovare amici che ti capiscono, se vuoi averne.

E lavorare con il proprio marito com’è?

Lui sta in sala e io in cucina: così funziona! E comunque l’ultima parola è la mia: ma solo perché ho in mano i coltelli! Litighiamo parecchio, però il confronto è la base dei rapporti: se non ci fosse discussione sarebbe una noia. In generale, nel mondo della ristorazione, abbiamo modi di vedere le cose dalla sala alla cucina sempre molto diversi. Dico sempre che bisognerebbe stare sei mesi di qui e sei mesi di là, per capire entrambi i punti di vista. Alla fine si scopre che abbiamo ragione entrambi.

Trovi che i clienti siano cambiati in questi venticinque anni di professione?
Oggi gli ospiti sono molto più acculturati e quando escono vogliono fare anche esperienza, non solo mangiare. Vogliono essere coccolati nella tempo che passano al ristorante. La mia clientela non viene solo a mangiare, ma a trascorrere due ore piacevoli. Come target e come età abbiamo la fortuna di avere clienti giovani e anziani, riusciamo a prendere tutte le fasce. Ma sono in generale tutti più attenti di prima, chiedono la provenienza dei prodotti, vogliono sapere che cosa mangiano e vogliono essere seguiti nel percorso.

È merito o colpa della televisione?

Da una parte, soprattutto all’inizio, la cucina in tv ha fatto molto bene: io in cucina ho molto più richieste per venire a lavorare, cosa che prima non succedeva. Ma l’esasperazione che c’è adesso è veramente eccessiva. Per fare show si eccede, e le persone non capiscono più che non è così semplice servire un piatto o gestire un ristorante.

Quanta Emilia c’è nel tuo menu?

Nel mio caso il territorio è un tutt’uno con la mia cucina, perché prediligo usare quasi solo prodotti di qui. Vorrei che chi viene a mangiare da me abbia questo ricordo, che nei miei piatti risenta il territorio. Ogni tanto inserisco dei piatti estranei alla zona, ma principalmente sto qui.

Quello che voglio trasmettere quando un cliente decide di scegliere me è proprio l’espressione gastronomica di questa zona, resa contemporanea.

Al 90% lavoro con clienti del posto: diventa più difficile sorprenderli con ricette della tradizione e prodotti del territorio, ma per me quella è la soddisfazione principale.
Quando si stupiscono per la nostra degustazione di Parmigiano Reggiano, dal tosone al 101 mesi di stagionatura, oppure quando rimangono stupefatti dal flan di Parmigiano che nel periodo autunnale servo con i porcini Borgotaro freschi spadellati, che è cotto al momento e quindi soffice e dal gusto intenso nella sua semplicità, io sono contenta.

E i dolci? Hai abbandonato il tuo primo amore?

No! I dolci li faccio ancora io, e sono una bella parte del menu: abbiamo in carta 15 dolci. Sono semplici però sempre legati al territorio. E se un cliente è particolarmente goloso, c’è un piatto che li comprende tutti: tanti assaggi per chiudere in dolcezza. La torta di mandorle che si fa nella nostra zona, il monte bianco con gelato di castagne che facciamo noi, la torta di ricotta e zucca con cioccolato extra fondente, la classica zuppa inglese. Ma ce n’è uno davvero insolito, anche se ricorda un famoso proverbio: una tartare di pere decana, gelato al Parmigiano Reggiano e mosto cotto. L’ho proposto tre anni fa al Franciacorta festival in abbinamento ad un rosé e non l’ho mai più tolto dalle proposte!

tutte le foto © Francesca Tilio / Scaglie / LUZ

Oro liquido

La nostra terra, quella del Consorzio del Formaggio Parmigiano Reggiano, è incastonata tra pianura, montagne e fiumi, ed è proprio all’acqua che dedichiamo il quarto capitolo di Scaglie.

Lo abbiamo intitolato “Oro Liquido” proprio perché si tratta della risorsa più preziosa del pianeta terra: oro appunto.
Torgny Holmgren, il direttore esecutivo dello Stockholm International Water Institute (un importante centro di ricerca e consulenza istituito nel 1991 che si occupa di promuovere la ricerca, e di sensibilizzare l’opinione pubblica e politica sulle risorse acquifere nel mondo e sul loro utilizzo) sostiene che:

“Senz’acqua pulita non si può sradicare la povertà né la fame, non si possono combattere le malattie. E l’acqua serve anche per l’energia, per la produzione industriale, per sostenere la biodiversità”.

Il nostro racconto è partito proprio dalla più importante risorsa acquifera del territorio: il Po. Siamo andati alla scoperta del grande fiume guidati dal capitano Giuliano Landini della Motonave Stradivari. Un video racconto visto dagli occhi di, come ama definirsi lui, “un divulgatore scientifico autoctono”. Con il capitano abbiamo parlato di acqua, delle comunità che abitano sulle sponde del Po e di tutti quelli che si occupano di controllare e preservare il più esteso bacino idrografico d’Italia. Siamo arrivati fino all’Isola degli Internati per scoprire la storia di questa oasi naturalistica sconosciuta a molti ma che ha, invece, ospitato e aiutato diversi reduci della Seconda Guerra Mondiale e persino il genio di Antonio Ligabue.

Il nostro viaggio liquido prosegue con la testimonianza di Anna Ganapini, apicoltrice dell’Ap-pennino reggiano che conduce, con certificazione biologica, cinquecento alveari. Vi chiederete:

“Cosa c’entrano le api con l’acqua”? L’acqua è vita, così come le api: ma ce lo spiega meglio Anna nella terza puntata del nostro podcast.

Parlare di acqua e non menzionare la grande tradizione della cucina reggiana sarebbe stato un sacrilegio, per questo abbiamo scelto una delle più grandi rappresentanti della nostra ristorazione, Cristina Cerbi. La scelta non è casuale, abbiamo incontrato una donna che si è reinventa: dal mondo dell’economia a quello della ristorazione. Un personaggio che ha saputo cogliere l’essenza di una sfida e ha saputo reinterpretare la tradizione. Un fiume in piena di entusiasmo e coraggio. Il suo piatto forte sono le mezze maniche di sfoglia sottile con Parmigiano Reggiano, in brodo di cappone, servite d’inverno e d’estate: un’antica ricetta che ha fatto il giro del mondo e l’ha resa celebre anche oltre oceano.

Infine chiudiamo con un’intervista a Rolando Cervi, presidente del WWF di Parma. Abbiamo incontrato un attivista che da più di vent’anni lavora per la difesa dell’ambiente e si occupa di sensibilizzare la sua comunità in maniera pratica e tangibile. Siamo partiti parlando della Parma, il torrente che attraversa l’omonima città, e di come questo rappresenti una risorsa fenomenale – tanto da attirare i caprioli fino a 100 metri dal centro – e abbiamo scoperto quanto il motto “agire localmente e pensare globalmente” sia verificabile in ogni esperienza di Cervi e nella sua missione nel WWF. Ci ha spiegato che tutto parta dall’educazione e che comprendere la finitezza delle risorse della terra significa smettere di sprecarle.

Concludo con una frase dell’intervista di Rolando Cervi che riassume magistralmente tutto quello che vorremmo dire in questo capitolo di Scaglie:

“L’acqua potabile è una percentuale infinitesimale di quella della Terra: ricordarsene è fondamentale.”

Semaforo verde, con Parmigiano Reggiano al seguito

Gian Carlo Minardi è l’uomo che da zero ha costruito una scuderia tutta italiana, ha raggiunto l’ambizioso traguardo di gareggiare in Formula 1 e ha portato a punti questo sogno.

Ci racconta la sua Emilia e ci spiega il successo della Motor Valley italiana, un punto di riferimento imprescindibile che ha avuto in questo territorio la sua massima espressione e ha contribuito a rendere la terra d’origine del Parmigiano Reggiano una tra le più ambite e amate dagli appassionati di motori di tutto il mondo.

Con una punta di orgoglio e qualche malinconia per un tempo che permetteva anche a chi non aveva il pedigree di entrare da protagonista in uno degli sport più competitivi al mondo.

Perché questa terra è diventata una Motor Valley?
Beh, non c’è dubbio: perché qui è nata e cresciuta la Ferrari. Proprio lo scorso anno abbiamo festeggiato i 70 anni dalla nascita di questo brand.
L’Emilia è terra di contadini e in agricoltura sono nati i primi movimenti, siamo produttori di materie prime, ma abbiamo anche avuto un grande lavoro improvviso e molto forte nelle fabbriche di auto di grande livello, come Maserati, Ferrari, Lamborghini.
Questa è la Motor Valley anche perché ci sono molti terzisti che lavorano in questo territorio e si mettono al servizio di queste aziende.

Da questa terra arrivano i pezzi che servono a 7 team su 10 della Formula 1: si va dall’elettronica al carbonio, ai pezzi speciali che realizziamo solo qui.

Qui sono nate tante realtà, scuderie, persone che tra motociclismo e automotive fanno di questa terra un punto di riferimento.

© Gabriella Corrado / LUZ

Perché proprio qui si è sviluppata questa grande passione per i motori?

Qui il DNA è proprio spostato verso il motorsport. E se fino agli anni ’50 e ’60 si correva in moto senza circuiti, è qui che sono nati i circuiti più famosi, Imola, Misano, Varano.


L’Emilia era la regione che aveva più attività sportiva, e nel tempo è cresciuta tantissimo. Abbiamo la fortuna di avere praticamente il monopolio sulle auto di lusso: Lamborghini, Ferrari, Maserati e Dallara sono brand fortissimi che onorano l’Italia. Poi abbiamo le auto ad alte prestazioni di Pagani. Nelle vetture di alto prestigio siamo i primi al mondo.
E abbiamo anche due scuderie che corrono in Formula 1, la Ferrari e l’AlphaTauri.
A Faenza abbiamo Gresini, unico team che partecipa a Moto GP, Moto 2 e Moto 3. Nell’area di 150 km abbiamo veramente tante realtà, competitive in tutto il mondo.
Qui abbiamo quattro circuiti e chi abita all’estero può venire qui per provare le proprie auto e moto su percorsi di grande fama.
Siamo i primi costruttori di alto livello anche nell’ambito delle moto: abbiamo l’Energica Motor Company, che produce motoveicoli elettrici, e la Ducati. Fiorenti aziende per un comparto davvero forte.

Quali sono le caratteristiche di questo luogo che lo rendono così appassionante per chi ama questo sport?
Innanzitutto sono nati tantissimi musei, privati e non, che raccontano la storia del motorsport.

Se non ci fosse stato quel bellissimo passato, che ha creato questo sottobosco, non ci sarebbe un presente né tantomeno un futuro.

Abbinare la produzione di case automobilistiche e moto e la passione per la visita dei luoghi, ci ha permesso di utilizzare la Motor Valley anche come luogo legato al turismo e al cibo.
Siamo tra i maggiori produttori di gusto: paste, Parmigiano Reggiano, Prosciutto di Parma sono nati qui. Credo che questo abbinamento di eccellenza nel comparto motoristico sommato al turismo e al food abbiano fatto di questa terra un vero unicum. Qui l’appassionato è in grado di vedere e di vivere la storia dell’automobile e del motorsport: nel tempo abbiamo avuto un’escalation di presenze legata alla Motor Valley, tant’è che anche la regione sta spingendo per abbinare queste tre realtà e fare sistema.

© Gabriella Corrado / LUZ

Qual è il ricordo più emozionante legato al suo lavoro?
Sono stati tanti i momenti importanti, belli e brutti. Ovviamente quando con la Minardi siamo andati a punti è stato magico.
Ma ‘il’ momento per me rimane uno:

il 5 aprile 1985, alle 9.30, quando si è spento il semaforo rosso e si è acceso il semaforo verde, e la mia macchina è partita dal circuito in Brasile. Lì è stata un’emozione unica.

Ero arrivato e approdato in Formula 1, con una macchina che portava il mio nome. Non avrei mai creduto allora che quel momento sarebbe durato per 340 gran premi e per 21 anni. Anche i mesi prima, di preparazione, furono importanti, ma in Formula 1 finché non sei partito per il primo Gran Premio non sai se ci sei davvero.

Da dove nasce questa sua passione?
Sono cresciuto fin da piccolo in mezzo ai motori, la mia famiglia aveva un concessionario ed è stata tra le prime a buttarsi nel mondo delle gare, e io di conseguenza sono sempre stato appassionato di corse. Sono nato nel 1947 e allora mio padre costruì un’auto che oggi sarebbe una Formula 3. Poi nel 1974 ho conosciuto Enzo Ferrari: e lì forse c’è stata la vera svolta per me. Un susseguirsi di puntate per arrivare prima in Formula 2 e poi in Formula 1.

Oggi che non gareggia più con le sue auto, frequenta ancora le corse?
Ma certo, e con tanta passione:

guardo tutte le gare e davanti alla tv cerco di vivere la corsa come se fossi ancora al muretto dei box.

Ho la fortuna che Bernie Ecclestone mi abbia lasciato un pass, quindi a parte quest’anno, mi godo anche due o tre gran premi dal vivo.

Perché questo sport è così amato?
L’automobilismo, dopo i mondiali di calcio e le Olimpiadi, è uno degli sport più seguiti al mondo.
La formula 1 fa 20/21 gran premi in giro per il mondo ogni anno: il nome di chi partecipa è conosciuto a livello internazionale. E non è solo la velocità, è proprio tutto quello che rappresenta e che ruota intorno alle auto. C’è una grossa fetta anche di pubblico femminile che sempre di più ama questo sport. I margini di sicurezza ormai sono altissimi, quindi si può guardare un GP con grande tranquillità.

Chi è per lei il personaggio che più di ogni altro ha cambiato le sorti di questa terra nel campo dei motori?
Beh è fuori discussione: Enzo Ferrari. È stato un personaggio con un carisma eccezionale.

Mi ha sempre accolto, mi ha dato degli spunti importanti, e anche inconsciamente mi sono reso conto che è stato grazie ai suoi consigli che ho fatto il salto.

Ancora oggi Ferrari è il brand più conosciuto al mondo, nel bene e nel male. Per quelli che se la possono permettere, comprare una Ferrari è un obiettivo.

Ama guidare o ama di più il suo lavoro con le auto?
Guidare per me è sempre stato un divertimento, ma passando gli anni guido sempre meno.
Le devo confessare che nei 21 anni di Formula 1 e nei 5 di Formula 2 vedere crescere da zero un’auto, vederla passare da un tavolo da disegno, crescere e poi arrivare a terra è un’emozione unica. Quando finalmente la vedi partire è come la nascita di un figlio.
In quei mesi vivi insieme ai tuoi collaboratori, vedi piano piano come evolve il progetto, metti insieme tanti particolari e quando tutto funziona la soddisfazione è incredibile.

© Gabriella Corrado / LUZ

Il cibo e la Formula 1 si conciliano?
Nella mia avventura con la Minardi avevamo sempre con noi dei cuochi romagnoli che facevano cucina tradizionale e portavamo in giro per il mondo i nostri prodotti, da servire a giornalisti, clienti, sponsor.

Negli anni ’80 per noi la cura dell’alimentazione dei piloti è stata quasi maniacale. Avevamo con noi il dottor Ceccarelli, uno dei più apprezzati professionisti in questo settore. Abbiamo sempre fatto delle diete con i prodotti tipici emiliani.


I carboidrati sono i più smaltiti: un bel piatto di pasta con Parmigiano Reggiano e olio era il cibo più utilizzato prima di prove o gare, e poi ovviamente un po’ di Prosciutto di Parma. Erano il supporto indispensabile per avere le energie necessarie a sopportare un gran premio di 306/308 km, un percorso estremamente faticose e pesante per un pilota.
Sono sicuro che il fatto di aver portato in giro per il mondo i nostri prodotti e averli fatti assaggiare ha contribuito al ritorno d’immagine per l’Emilia.

Quali sono i piatti e i prodotti che ama di più?
Sono ghiotto di tagliatelle romagnole e quando le mangio mi ricordo di quelle fatte a mano dalla nonna.
E poi amo i tortellini: a seconda di dove li mangi, hanno caratteristiche diverse, con ripieni diversi che cambiano a seconda della città. E poi, ovviamente in certi periodi dell’anno, non mi perdo cotechino, zampone con dei buoni formaggi, che per noi sono una priorità.

Sociale e condiviso: il teatro si può anche mangiare

Il teatro delle Ariette è una compagnia di attori-contadini che attraverso una poetica legata al territorio ha ideato il teatro da mangiare, in forma di autobiografia. Un edificio rurale come sede, i campi, le piazze e le case private come palcoscenico, la loro idea di rappresentazione come valore sociale è una realtà che mette in luce tutta la capacità aggregativa e di condivisione che questo luogo porta naturalmente con sé.

Stefano Pasquini, che insieme a Paola Berselli ha fondato questa utopia realizzata, ci ha raccontato come si vive in equilibrio tra arte e agricoltura.

Intanto partiamo dal territorio: perché avete scelto proprio questo come vostro luogo di elezione?
In realtà non abbiamo scelto un territorio, questo è il territorio che Paola e io abitiamo da 31 anni. Nel 1996 abbiamo fondato il teatro delle Ariette: avevamo abbandonato il teatro quando siamo venuti qui, poi l’abbiamo ritrovato. Da allora fino a oggi abbiamo sempre accompagnato la nostra attività di produzione con un lavoro sul territorio. Dal 1997 conduciamo un progetto che si chiama “A teatro nelle case” del comune di Valsamoggia: abbiamo fatto programmazione in case di privati, stalle, fienili, forni del pane portando non solo i nostri spettacoli ma anche i lavori di altri artisti, chiamati a portare la loro poetica nel nostro territorio.

Da sei anni abbiamo iniziato un progetto che si chiama “Territorio da cucire”: nel 2014 è nato il comune di Valsamoggia, prima erano cinque comuni distinti. Quando sono stati fusi, abbiamo pensato con il teatro di tessere una trama di reazioni sociali tra gli individui, per cercare di contribuire a ricucire un territorio vasto e diversificato.

Quindi il nostro essere qui non è una scelta, ma una programmazione e una progettazione che da 25 anni facciamo sul nostro territorio.


Quest’anno non abbiamo potuto usare le piazze come negli ultimi anni, il coronavirus ha scompigliato le carte, ma abbiamo trovato la soluzione di convocare gli spettatori nei campi che sono attorno al nostro teatro.

© Gabriella Corrado / LUZ

Teatro come vero aggregatore sociale, quindi

Credo che uno degli elementi centrali del teatro è di essere un’attività sociale, di comunità. Senza comunità il teatro non si può proprio fare.


Si può leggere da soli, si può guardare un film in solitaria, ma il teatro vive della relazione tra individui. Si determina con l’eccitazione dello stare comunitario, con l’assieme che provoca il dionisiaco. Non possiamo immaginare un teatro senza spettatori.

Il teatro ha bisogno di tutto ciò che il coronavirus impedisce, insomma
Nel momento clou, il virus ha cancellato il teatro per alcuni mesi, ma non l’ha eliminato dai nostri pensieri, dai nostri desideri e dalle nostre esigenze.E proprio come ha impedito tante relazioni, ha impedito anche di svolgere l’attività teatrale. Per fortuna, dal 15 giugno nella nostra regione abbiamo potuto riprendere un’attività che ritengo indispensabile, come il cibo, come nutrirsi: senza questa non saremmo uomini e non saremmo umanità.

Quindi senza imprudenza ma anche con un certo coraggio e una certa fiducia, senza contravvenire a nessuna regola, abbiamo iniziato di nuovo a fare comunità.


Dal 1 luglio siamo ripartiti da casa nostra, soprattutto all’aperto, con una serie di repliche straordinarie che concluderemo il 5 agosto. E poi abbiamo ripreso le tournée e ci siamo accorti di come il teatro non possa essere cancellato per sempre: l’uomo ha bisogno del teatro e delle relazioni e ce n’è ancora più bisogno adesso, anche per combattere e sconfiggere la paura e i protocolli di sicurezza. Credo che le persone stiano dimostrando umanità in questo.

Pensa che il virus ci abbia resi migliori?
Siamo noi stessi a renderci migliori o peggiori, a seconda di come ci rapportiamo alle esperienze che la vita ci offre.

Io personalmente credo che pure il lockdown, al di là di tutte le sofferenze che ha portato con sé, ci ha dato un’opportunità di guardare la nostra vita e di fare un’esperienza molto ricca e nutriente, diversa dalla nostra routine.


Stando tutti in salute, io proporrei di istituire un mese di lockdown ogni anno per tutti. Ci servirebbe per ritrovare una relazione con noi stessi, per combattere le frenesie e le nostre ansie. Chiaramente posso capire chi l’ha vissuto molto male, con magari una solitudine imposta, ma comunque come tutte le esperienze ha rappresentato un’occasione per riflettere su di noi, sulla nostra umanità e la nostra fragilità, sulla nostra mortalità. E ci ha aiutato anche a cominciare a capire che noi, da uomini, dobbiamo convivere con l’idea della malattia e che questo non deve fermare la nostra vita, ma insegnarci a stare al mondo in modo più solidale e leggero. Non pensando che il benessere smisurato ci sia dovuto perché esistiamo e soprattutto a discapito di altri esseri umani, delle piante, degli animali e del pianeta. Se siamo stati attenti abbiamo imparato a ritrovare una posizione più marginale nel mondo.

© Gabriella Corrado / LUZ

Chi sono i vostri spettatori e che cosa vi aspettate da loro?
I nostri spettatori non sono un nucleo omogeneo, ma sono diversi tra loro. Una parte sono spettatori abituali di teatro, vedono tante cose e frequentano anche altri luoghi culturali. Un’altra parte – che ci interessa molto – è meno avvezza ad andare nei luoghi di proposizione culturale quindi noi abbiamo scelto le case, i campi e le piazze perché sono luoghi aperti, dove quel timore reverenziale che si ha nei confronti del teatro non c’è.

Molti non entrano nei teatri perché sono intimiditi: scegliere le piazze, che sono luoghi della socialità, dove le persone sono abituate ad andare, vuol dire essere inclusivi.


Gli spettatori nelle case sono più ben disposti ad entrare in contatto con gli altri: lì ci si dispone a vivere l’evento teatrale non solo come oggetto estetico da consumare, ma si vive l’essenza stessa del teatro. È una piccola comunità che si ritrova, partecipando allo spettacolo e incontrando gli altri. Le piazze sono un’occasione meravigliosa per incontrare persone, italiane e straniere, là dove queste stanno, cogliendo spettatori differenti per età e generazione. Quando porti lo spettacolo lì, il teatro è per tutti e non c’è da avere timore: è così che abbiamo allargato la nostra base di spettatori e abbiamo imparato a considerare il teatro come bene comune accessibile a tutti.

Che cosa significa essere attori-agricoltori?
A volte è difficile conciliare le due attività. Però per noi era anche difficile rinunciare a cose che amiamo fare. Il teatro è il nostro mestiere e ci porta il reddito con cui viviamo. L’agricoltura è una nostra grande passione e per molti anni è stata la nostra attività principale. Quindi continuiamo a coltivare e ad allevare animali, certo lo facciamo meno, ma ci siamo resi conto che l’attività agricola è nutrimento del nostro teatro, spunto di osservazione e di riflessione del rapporto con il mondo, con i nostri animali e con gli animali selvatici che ci sono qui. È un continuo stimolo alla riflessione sulla nostra vita. Tecnicamente non si concilia alla perfezione, ma in realtà si concilia molto bene.

Nella vostra attività teatrale c’è anche una parte ‘commestibile’: da che cosa è composta e come la preparate?
Una parte molto importante! Dal 2000 abbiamo creato “Teatro da mangiare?” uno spettacolo che gira ancora oggi. Abbiamo scoperto che forse il luogo elettivo del nostro teatro è la cucina: ambiente dove si riuniscono pensieri, storie e cibo.

Noi mettiamo 30 spettatori attorno a un grande tavolo, cuciniamo e intanto raccontiamo la nostra vita e le nostre esperienze.

Gli amori, le gioie, i dolori, i lutti, i sogni, i fallimenti e viviamo questo tempo di condivisione del cibo di queste tagliatelle preparate col nostro grano macinato, nel racconto concreto di un’autobiografia collettiva. È un patto, quello sancito intorno a questa tavola, dove si condivide ciò che il pianeta ci offre e noi trasformiamo. Poi dobbiamo anche lavare i piatti, e anche questa è una dimensione molto importante nel nostro teatro.

Non sono gli spettatori a portarsi il cibo, come nel teatro dell’antica Grecia, ma siamo noi gli officianti del rito che includono nella loro azione quella di trasformare il cibo e di offrirlo agli spettatori. Si ribalta il discorso, perché è il padrone di casa che offre ospitalità, offre un luogo e un sostentamento spirituale e fisico. Il cibo è entrato nel nostro teatro perché è parte della nostra esperienza diretta di vita:

l’autobiografia che raccontiamo, di aver cominciato a coltivare la terra e a trasformare le materie prime, ci ha spinti ad inserire questo elemento non soltanto a parole, ma invece fisicamente, come gesto, suono, odore.

Per far diventare spirito quello che è materia. Il teatro come la cucina è trasformazione: un’azione diventa riflessione e pensiero, così come succede se crei la pasta partendo dal grano.

© Gabriella Corrado / LUZ

Qual è il futuro del teatro e di un tipo di teatro così sperimentale e inconsueto come il vostro?
Io penso che sia un futuro possibile: il teatro ha una sua specificità, la sua anima avviene nel momento in cui è fruito. Avviene soltanto in presenza di attori e spettatori: per esistere in un futuro tecnologico, deve esprimere al massimo questa potenzialità.

Non credo negli spettacoli per troppi spettatori, credo in azioni sempre più vere, e sempre meno mediate, dove la vicinanza tra attori e spettatori diventerà centrale e dove le azioni vere prenderanno il senso insostituibile che hanno.


Il cinema non ci porterà mai a toccare l’oggetto di cui stiamo parlando: io invece posso fare accomodare gli spettatori dentro la scenografia e permettergli di toccare la scena e mangiare parte del racconto. Credo che il futuro del teatro sia in questa chiave: molto concreto, unico e irripetibile come si può fare solo attraverso il teatro. Non può essere sostituito da uno schermo, da un visore. Il teatro è un rito dove ognuno ha il suo ruolo, dove tutti sono partecipi e attivi attorno a quello che sta succedendo.