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Radikon, vini senza scorciatoie

Come la produzione del Parmigiano Reggiano inizia dai prati, anche nel mondo vitivinicolo esiste una parola, terroir, che fa riferimento a tutte quelle condizioni, geografiche, chimiche e naturali, che permettono di realizzare un vino unico e inimitabile, frutto delle singolarità del territorio d’origine.

Dal terreno al clima, dalle viti ai viticoltori, ogni luogo racchiude storie e caratteristiche ineguagliabili. Oslavia è uno di questi, un angolo di cultura e di alta artigianalità, a pochi chilometri da Gorizia, e ancora meno dal confine sloveno. Lì, tra i vigneti del Collio, si trovano i Magnifici Sette della Ribolla, che non sono nuovi supereroi della Marvel, bensì sette cantine, tra le più importanti in Italia e nel mondo, specializzate in vini macerati sulle bucce.

In questa enclave di vini naturali e sinergie diffuse, Saša Radikon è cresciuto tra gli esperimenti del padre, Stanko, per poi maturare le proprie esperienze e arrivare, oggi, a guidare l’azienda. I vini di Radikon sono una questione di terra, di sensibilità e di tempo, in grado di trasmettere l’identità del territorio e di rispettare le attese della natura.

Come ha raccontato Saša, non importa chi tra i sette abbia adottato per primo questa tecnica del passato, ma è significativo che si sia creata una comunità che ha saputo dargli seguito e che è diventata un simbolo dell’intero territorio.

Iniziamo con un po’ di nostalgia, qual è il tuo più bel ricordo legato al vino?
Uno dei ricordi più belli legati al vino è una giornata in cantina con mio padre, Stanko. Stavamo assaggiando i vini direttamente dalle botti e chiacchieravamo di quello che avevamo in cantina. In quel periodo c’erano i 2006 e i 2007; e diciamo che si potevano distinguere due “fazioni”: io preferivo il 2007, mentre lui il 2006.

E, a distanza di anni, chi aveva “ragione”?
Alla fine possiamo dire che sono risultate entrambe due grandi annate.

Tuo padre ha lasciato una grande eredità, ma anche un’enorme sfida. Tu stai portando avanti il lavoro inaugurato da Stanko, rendendolo tuo, nel rispetto della terra e del futuro. Come riassumeresti il tuo pensiero e la sua filosofia?
Il mio pensiero è sempre rivolto al rispetto della natura, al rispetto di tutto l’ambiente che ci circonda, dall’uva al terreno.

Quello che voglio fare, e che provo a fare, è trasmettere i sapori e i profumi della nostra terra e dei suoi frutti a chi consuma il nostro vino.

La filosofia di Stanko, non troppo diversa, consisteva nel trasmettere la sua conoscenza e il suo modo di fare al vino stesso: produceva il vino che gli piaceva e poi lo faceva bere agli altri.

Ed è riuscito a farlo andando controcorrente; partendo dall’acciaio e arrivando alla macerazione in grandi tini a tronco conico. Ci racconteresti il senso di queste sue scelte?
Negli anni Ottanta i primi vini di Stanko erano fatti in acciaio, ma la loro neutralità non lo ha mai convinto. Ha quindi prima cercato il legno in stile francese, con le barriques, che lo hanno accompagnato fino ai primi anni Novanta. E poi ha scelto di andare più in profondità: voleva estrarre di più con le macerazioni e recuperare sia la tradizione del contatto con le bucce, che quella delle botti grandi. Alla base di tutto c’è sempre stata la ricerca e la volontà di portare in bottiglia i sapori dell’uva e della terra.

Azienda Radikon

Si dice che la tradizione sia un’innovazione ben riuscita. Come vedi il futuro del vino? Sarà qualcosa legato alle nuove tecnologie o ulteriori riscoperte della tradizione?
Credo che il futuro del vino sia in realtà un mix delle due: la tradizione ha bisogno di innovazione per migliorarsi e per adattarsi al momento. Però l’innovazione non deve influenzare i risultati finali in modo eclatante. Alla base di tutto ci dev’essere sempre un’uva sana e genuina, è importante ricordare che le scorciatoie non esistono.

Soprattutto se hai a che fare con la natura! Da che cosa nascono le tue selezioni?
Le selezioni nascono dai vigneti stessi, e vengono prodotte con le uve migliori dell’annata, sempre se questa lo concede.

Fai uvaggi [raccolta simultanea di varietà diverse, NdA], blend [miscelazione di vini di varietà diverse, NdA] o entrambi?
Entrambi. O…… e Slatnik sono degli uvaggi: le uve vengono raccolte lo stesso giorno, o al massimo con un giorno di distanza, e messe a macerare negli stessi tini.
RS invece è un blend in quanto i vini vengono uniti dopo la fermentazione alcolica, perché le uve sono mature con alcuni giorni di distanza e sarebbe quindi impossibile fare un uvaggio.

I primi esperimenti di macerazione sulle bucce sono stati fatti con la Ribolla; un vitigno della tradizione del Collio, che ruolo assume il territorio nei tuoi processi di vinificazione?
Il concetto di territorio dev’essere inteso nel senso più ampio, comprendendo il terreno, il vitigno, e anche il clima. E tutti questi aspetti hanno un ruolo estremamente importante nella nostra vinificazione, in quanto la mineralità ci permette di avere un’uva matura senza perdere l’acidità, il che costituisce la base per i lunghi invecchiamenti.

Come si sente dire, “il buon vino nasce in vigna” ma anche in cantina! C’è un vitigno che preferisci?
È difficile individuare il figlio preferito, ci sono momenti diversi per vini diversi. Se proprio dovessi fare una scelta, il vitigno che mi dà più soddisfazioni in campagna è la Ribolla, mentre ciò che mi entusiasma di più in questo momento in cantina è lo Jakot.

Stanko definiva il suo approccio “naturale”, “senza compromessi”, anche tu segui un modello che tende a preservare l’ecosistema, evitando ogni prodotto chimico. In questo periodo di crisi climatica credi che questo metodo possa essere scalabile e d’aiuto?
La produzione del vino è strettamente legata alla natura e ovviamente meno interazioni siamo capaci di compiere, meglio è.

Il mio approccio, come quello di mio padre, è cercare di utilizzare soltanto il minimo indispensabile, al fine di preservare l’originalità dell’uva.

È ovvio che una produzione di questo tipo non può essere a impatto zero. Sta nella nostra coscienza cercare di ripristinare un equilibrio che per tanti anni abbiamo sbilanciato: prendersi cura dei prati, dei boschi e dei corsi d’acqua, fa parte del nostro impegno per aiutare la flora e la fauna a riprendersi parte di quello che è loro.

Oggi siamo abituati a sentir parlare di Orange Wine e di vini biodinamici. Come ti relazioni con le definizioni e che cosa ne pensi di queste etichettature?
La definizione di Orange Wine negli anni è stata molto utile, perché ha permesso alle persone che si stavano approcciando a questo mondo di capire che non sono vini bianchi. È una tecnica riscoperta e oggi è una nuova categoria di vino, riconosciuta dai consumatori a livello mondiale. La biodinamica, invece, è un insieme di pratiche agricole basate su sani principi, a volte di difficile applicazione. Sotto l’espressione vino biodinamico, però, ricadono spesso troppi vini; è quindi un termine forse abusato.

Il Collio friulano e il Brda sloveno sono due facce della stessa collina, composte dalla stessa ponca. In un certo senso il vino valica i confini nazionali; saresti favorevole alla creazione di una denominazione interstatale?
Fino a circa un secolo fa, per 400 anni, il Collio e il Brda sono stati uniti sotto l’Impero austro-ungarico. Il confine politico emerso dopo la Prima guerra mondiale ha effettivamente diviso delle colline omogenee, e le differenza di pensiero e quelle che hanno a che vedere con legislazione (sia nell’ultimo secolo, coi due “blocchi” contrapposti, sia ora, come Stati membri dell’Unione Europea) continuano a tenere separati questi territori. Per una denominazione interstatale purtroppo sono gli Stati che dovrebbero mettersi d’accordo, e non credo sia possibile nel breve periodo.

E ritieni che Oslavia sia una comunità? Nel senso, c’è scambio e condivisione tra i produttori della zona?
Oslavia è un’isola felice, fra di noi andiamo abbastanza d’accordo e da più di 10 anni ci stiamo impegnando, attraverso l’Associazione Produttori Ribolla di Oslavia, per promuovere il nostro territorio all’unisono. Ovviamente con alcuni produttori c’è maggiore scambio di opinioni, ma sicuramente ci sentiamo parte di una comunità.

La vendemmia è storicamente associata a un momento di festa e di condivisione, oggi si vive ancora così?

La vendemmia è in effetti il momento più felice dell’anno, è la nascita di un vino e quindi sì, è ancora un momento di festa, che mi piace condividere con la famiglia e con tutti quelli che vi partecipano.

Che cosa significa per te «fare comunità»?
Fare comunità per me significa impegnarmi nel mantenere i rapporti con le persone intorno a me, condividere le mie esperienze, cercare di carpire un insegnamento dalle esperienze altrui, essere presente in caso di bisogno o, semplicemente, esserci per fare due chiacchiere.

Foto © Vittoria Lorenzetti presso l’Azienda Radikon

Un’economia di comunità solidale è possibile

Nel 1994, in Emilia Romagna, nel comune di Fidenza (Parma) nascono i primi Gas, Gruppi di acquisto solidali organizzati spontaneamente per offrire una modalità di acquisto secondo una visione collettiva, ripensando i concetti di produzione e consumo.

Sempre nel 1994, un ragazzino di 11 anni esordisce su un palcoscenico internazionale, a Stoccolma, per una conferenza sul lavoro in cui racconta la sua storia. Iqbal Masih è costretto dal padre a lavorare fin dai 4 anni in una fornace. Poi viene venduto a un produttore dei celebri tappeti del suo Paese.

Deve lavorare incatenato al telaio e senza un nutrimento adeguato. A 9 anni riesce a partecipare a una manifestazione per le condizioni dei lavoratori, ma al ritorno in fabbrica è picchiato e costretto ad andare via. Comincia a studiare e a impegnarsi contro lo sfruttamento minorile. A dicembre del 1994 ottiene il premio Youth in Action, creato apposta per lui. La pressione mediatica sul Pakistan diviene tale che il governo deve chiudere molte fabbriche, liberando migliaia di bambini.

Iqbal ritiene che questo sia solo il primo passo per i diritti degli sfruttati. Vorrebbe proseguire la sua lotta per i diritti dell’infanzia, per la scolarizzazione e lo studio, ma non può. Il 16 aprile del 1995, a 12 anni, qualcuno lo uccide sparandogli alla schiena, mentre attraversa in bicicletta la sua città, Muridke.

Iqbal Masih diventa un simbolo ed entra nell’immaginario collettivo. In Italia gli dedicano strade, piazze, associazioni, scuole. Tra queste ultime c’è una scuola e nido d’infanzia di Reggio Emilia, che come tutte le scuole emiliane ha un metodo inclusivo e offre laboratori ed esperienze anche ai genitori. Nel 2009, alcuni di loro sono ispirati proprio da un percorso sul consumo critico e decidono di formare il gruppo di acquisto solidale “Iqbal Masih”, attivo ancora oggi.

Roberto Cardarelli, che si definisce “un matematico prestato all’informatica”, era tra quei genitori e continua a essere tra gli animatori del Gas. Non si può raccontare la nascita del Gas “Iqbal Masih” se non si comprende che settant’anni fa le scuole per l’infanzia in Emilia Romagna nascevano soprattutto per iniziativa dei genitori. Erano loro che ponevano le prime pietre ed erano loro a organizzare spazi, tempi e attività di supporto alla didattica.

Il racconto di Roberto comincia da lì: “Nel 2009 mia figlia aveva 5 anni e frequentava la scuola per l’infanzia ‘Iqbal Masih’. Come in altre realtà, anche da noi i genitori che facevano parte della gestione, proponevano dei percorsi partecipativi. Quando abbiamo deciso di affrontare il tema della sostenibilità, abbiamo organizzato anche un incontro con i partecipanti a un Gas di Modena”.

Dei tanti appuntamenti, è proprio quello che fa accendere qualcosa nell’animo di Roberto e della sua famiglia, come per altre famiglie della stessa scuola: “Abbiamo cominciato a riflettere con quattro gruppi famigliari. Si è acceso qualcosa dentro e abbiamo deciso di non cercare dei Gas ai quali iscriverci, ma di crearne uno da zero. In questo modo siamo entrati in relazione con altri gruppi della città e abbiamo conosciuto i primi produttori che lavoravano con quei gruppi, ma dopo siamo andati a cercare anche altri produttori a seconda delle esigenze.

Entro il primo anno eravamo diventati dieci nuclei familiari. Abbiamo voluto dare al Gas lo stesso nome della scuola, ‘Iqbal Masih’, per creare una relazione con questa; perché l’esperienza di Iqbal è un richiamo ai valori che ci animano. Inoltre volevamo continuare a proporre l’esperienza dei Gas e del consumo critico nella nostra scuola e anche in altri istituti, proponendo formazione e informazione. Volevamo sottolineare l’importanza della “s” dei Gas. Abbiamo voluto parlare di finanza etica, di agricoltura biologica, di sostenibilità e di tutto quello che è connesso all’economia solidale ”.

La sostenibilità, umana e ambientale, è al centro del Gas “Iqbal Masih”: “In questo contesto, abbiamo ragionato sull’esigenza di avere accesso a un cibo sano, ma prodotto in una determinata maniera, con l’attenzione al processo di produzione, l’attenzione all’ambiente, ma anche al rispetto del lavoro di tutti e al giusto prezzo. Tutto ciò si sintetizza nelle cosiddette “Tre P”, il prodotto, la produzione, il progetto”.

E nel progetto si inserisce anche l’importanza di tessere relazioni, tendenza quasi naturale in questo territorio: “Qui c’è la volontà di costituire delle relazioni, di mettersi in rete e collaborare a un livello paritario. Il mondo della cooperazione ha avuto terreno fertile. L’incontro è al centro dei Gas. Amiamo molto conoscere di persona i produttori, organizzare delle visite per vedere come funziona la filiera, anche con finalità didattiche per i bambini e i ragazzi. Uno dei primi produttori che abbiamo contattato è il nostro attuale fornitore di Parmigiano Reggiano, che produce il suo formaggio biologico dalla famosa e antica razza autoctona delle vacche rosse.

Quando siamo andati a visitarlo in azienda, abbiamo imparato tante cose, che ci sono piaciute molto. Ci ha mostrato come tiene le vacche libere, il fatto che cura le siepi per difendere le piante coltivate in modo non intensivo e biologico, e tutte le sue voci di costo per arrivare a concordare insieme il giusto prezzo, in modo che anche lui potesse avere il suo margine per continuare a fare bene il suo lavoro”.

Il Gas “Iqbal Masih” non intende la relazione come un semplice rapporto tra esercente e acquirente. Il Gas sostiene i progetti in linea con i propri valori, arrivando anche a sostenerne la co-produzione: “Un membro del nostro Gas aveva una piccola azienda di famiglia e si è messo a coltivare grani antichi, dai quali voleva produrre farina. Durante uno dei nostri incontri periodici ce ne ha parlato e ci ha detto che gli sarebbe piaciuto acquistare un piccolo mulino in pietra e che ne aveva individuato uno in Austria. Come Gas abbiamo deciso di sostenerlo e di pre-finanziarlo.

Ciascuno di noi ha versato una quota libera e in cambio ha ricevuto negli anni successivi la farina prodotta col mulino acquistato. Per la prima molitura del grano ci siamo tutti trovati nell’azienda del nostro gasista per assistere all’evento. È stata una bella festa. Seguire tutto questo progetto è stata anche un’occasione di formazione sul mondo delle farine”.

Oggi il Gas “Iqbal Masih” conta circa quaranta iscrizioni, anche se le famiglie attive costantemente sono la metà. Roberto Cardarelli spiega che il tempo e il numero degli iscritti sono i due fattori critici per la sopravvivenza di un Gas: “Bisogna trovare e conoscere i produttori di cui abbiamo bisogno e che rispettino i nostri parametri. Un’avventura meravigliosa è stata quella di trovare fornitori di pesce, per esempio.

Si tratta di una rete di piccoli pescatori di Termoli che ogni due settimane ci permette di ricevere il pesce pescato la notte prima. Per trovarla abbiamo impiegato molto tempo, vivendo in piena pianura padana, ma oltre a questo abbiamo organizzato un incontro online per farla conoscere a tutti e poi stabilito un prezzo. Occorre tempo anche per svolgere il proprio compito nel Gas. Soprattutto il ruolo di contabile, ma poi ci sono i responsabili per le varie aree. E noi abbiamo anche un problema di spazio. I prodotti che ci vengono consegnati arrivano nel mio box e gli altri gasisti devono venire a recuperarli per tempo. Bisogna mantenere tutto in equilibrio e il primo modo per fallire è quello di crescere troppo”.

La rete dei Gas è una bella risposta sociale ai modelli di produzione del mercato globale. Piccolo è bello, insomma. Ma questo sistema è economicamente sostenibile per tutti, o vi accede solo chi se lo può permettere? “La risposta qui è molto variegata ed è una delle criticità di questo sistema. Noi abbiamo una visione anche politica, per questo facciamo in modo che chi è in difficoltà possa comunque continuare ad avere accesso a uno stile di vita sano”.

Azienda Agricola Paolo Rota di Reggio Emilia

L’Agenzia europea per l’Ambiente (AEA), d’accordo con i rapporti dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), ha pubblicato uno studio dal titolo “Crescita senza crescita economica”, in cui evidenzia come l’economia circolare sia impossibile quando questa si basa sulla crescita economica tradizionale, cioè sullo sfruttamento e sullo spreco di risorse. La necessità di modelli differenti fa crescere l’attenzione verso forme di economia alternative e sostenibili come i Gas.

Anche i Gas, però, hanno un limite alla loro crescita, come ha spiegato Cardarelli. Quale futuro è possibile ipotizzare per un’economia solidale e socioecologica? “Esistono realtà che si pongono questa domanda e provano ad affrontarla mettendosi in rete. Un esempio è quello del Creser, il coordinamento per l’economia solidale in Emilia Romagna, ma anche Banca Etica e Mag6, che affrontano le tematiche della finanza in un’ottica di mutualità”.

E per quanto riguarda l’evoluzione dei Gas e delle loro istanze? “Sempre in una visione politica e programmatica, il mio sogno sarebbe quello di far funzionare i Gas sul modello delle Food Coop americane. Ancora una volta è stata l’Emilia Romagna con l’esperienza di “Camilla” a cominciare. Si tratta di piccoli empori di comunità autogestiti da chi li frequenta, che in questo modo si occupa della fornitura, della distribuzione e della vendita dei prodotti secondo criteri di economia sostenibile e solidale. Si diventa soci e si supporta economicamente la Food Coop. Ma a tutto questo si devono aggiungere meccanismi mutualistici che permettano l’accesso anche alle persone in difficoltà”.

In questa direzione lavora anche la legislazione regionale, ma il mercato globale è ancora affetto da gigantismo. Si riuscirà a rimediare in tempo utile?

Foto © Stefano Marzoli presso l’Azienda Agricola Paolo Rota di Reggio Emilia

Le radici della creatività

L’Emilia Romagna è una terra universalmente nota per il senso di piacevolezza, di carnalità e gioia di vivere che trasmette. Tra feste in piazza e mega discoteche all’aperto, tra università millenarie e palazzi cinquecenteschi è una delle zone d’Italia che coniuga meglio l’idea di convivialità ma anche di appartenenza, di luminosa leggerezza e di ricercata profondità culturale. 

Difficilmente la moda viene associata a quest’area ma a pensarci bene Giorgio Armani è nato a Piacenza, a Reggio Emilia c’è la sede di Max Mara, il territorio di Carpi è un importantissimo hub per la produzione di maglieria (basta ricordare Blumarine) mentre il gruppo Alberta Ferretti e Gilmar sono entrambi di Cattolica. 

Forse è difficile indovinare in questi marchi storici una comune matrice che li ricolleghi in qualche modo alla loro terra d’origine ma in realtà esiste una nuova generazione di designer che non solo ha fatto pace con i propri luoghi di nascita, ma usa le proprie radici come combustibile per la propria creatività. 

La moda di oggi ha infatti imparato a usare i localismi come variabile distintiva dell’identità dei brand e sono sempre di più, non solo in Italia, gli stilisti che raccontano in modo contemporaneo e non nostalgico i luoghi in cui hanno passato la propria infanzia e in cui, in molti casi, ancora vivono. Questa tendenza è significativa del bisogno di sincerità che, anche nella moda, si sta sempre più sentendo ed è sempre più evidente come raccontare piccole storie di un’area circoscritta permetta di sviluppare metafore che sono comprensibili globalmente.

Federico Cina, Marco Rambaldi e Luca Magliano sono più o meno della stessa generazione di trentenni e hanno deciso di osservare in maniera diversa ma ugualmente interessante il territorio e le tradizioni emiliano romagnole, scegliendoli anche come sede di lavoro. 

Federico Cina è un giovane designer di Sarsina, un piccolo comune in provincia di Cesena, che dopo aver frequentato il Polimoda di Firenze ha vinto il prestigioso concorso Who’s On Next, promosso da Vogue Italia e Alta Roma ed è poi stato tra i semifinalisti dell’LVMH Prize, il più importante premio per designer emergenti al mondo. 

Come molti della sua generazione, pur avendo uno sguardo internazionale, è particolarmente attento alle sue radici e dalla cultura della sua terra trae ispirazione per le sue collezioni.
Per disegnare la sua collezione maschile, Federico lavora con l’Antica Stamperia Artigiana Marchi a Santarcangelo di Romagna, sviluppando con loro una parte di stampe fatte ancora seguendo la tecnica tradizionale degli stampi in legno con i colori a ruggine, un metodo completamente manuale che si usava per tovaglie e tende. Ma non è solo questo piccolo ma importante particolare a collocare il progetto di Federico vicino al suo territorio: nella sua strada ha incontrato fotografi, videomaker e artisti locali con cui ha deciso di collaborare per darsi reciprocamente aiuto e visibilità, costruendo qualcosa di molto simile a una factory e portando alla luce molti talenti della scena underground romagnola. 

Marco Rambaldi, classe 1990, di Bologna, si è laureato allo IUAV di Venezia in Fashion Design e dopo un’esperienza da Dolce & Gabbana ha deciso di creare un progetto personale che porta il suo nome. In questo caso la radice della sua estetica viene da uno dei luoghi più culturalmente e politicamente avanzati d’Italia, Bologna appunto, e i suoi riferimenti sono agli anni ’70 delle contestazioni studentesche e dei movimenti di liberazione LGBTQ+. In particolare Marco, cresciuto respirando l’apertura e la capacità di inclusione del suo territorio, ne ha distillato l’essenza nel suo progetto rendendo le sue sfilate dei veri e propri manifesti all’accettazione di ogni genere, forma fisica e provenienza e ricevendo, per la sua ultima sfilata, l’appoggio di Valentino che ne ha trasmesso lo show in streaming sui propri canali social. 

Ogni collezione di Rambaldi ha un richiamo preciso a un luogo o a un avvenimento di Bologna, dalle lotte femministe, a quelle per i diritti civili del Cassero, a quelle studentesche del ’68.
Il suo è uno sguardo decisamente politico che si nutre di una cultura fortemente progressista che ha lasciato tracce indelebili nella storia del nostro paese. 

Anche Luca Magliano è bolognese e anche lui, come Federico Cina, disegna una collezione maschile. Il suo immaginario pesca dal vestire formale maschile, quello adatto alle cerimonie religiose o laiche, quello che richiede un preciso e lungo rituale e che ha in sé qualcosa di molto antico e per questo qualcosa di molto moderno. Magliano ha un modo estremamente preciso e riconoscibile di mettere in scena le sue collezioni attraverso video spettacolari o emozionanti rappresentazioni che rimandano alla cultura del teatro underground emiliano-romagnolo e a nomi ormai divenuti storici come i Raffaello Sanzio o i Motus. Il suo è forse il progetto più slegato dalle logiche commerciali della moda del momento ed è infatti stato riconosciuto prima di tutti da mercati estremamente all’avanguardia come quello giapponese. 

Tutti e tre i progetti hanno in comune una caratteristica che è anche propria di questa terra: l’autenticità, la capacità di un’espressione libera, di un riconoscimento profondo della propria identità e in generale di creare ottimismo invece che pessimismo. Nessuno dei tre sta minimamente pensando di spostarsi dai propri luoghi di origine perché tutti e tre sanno che esattamente lì dove sono risiede l’origine della loro forza creativa.

Illustrazione © Davide Bonazzi

Tutti insieme

Il gioiellino del fiume Panaro si chiama La Lanterna di Diogene, è una cooperativa sociale già segnalata da Slow Food come una delle migliori osterie dell’Emilia Romagna. Qui l’inclusività sociale e la tutela del territorio si incontrano e mettono insieme una vera e propria rivoluzione nel mondo della ristorazione.

A Solara di Bomporto, in provincia di Modena, si trova La Lanterna di Diogene una cooperativa sociale nata da un gruppo di amici che, seduti intorno a un tavolo con vino, pane e salame, cercavano di dar risposta al desiderio che tutta l’umanità esprime quando deve affrontare il mondo del lavoro: fare un’attività che piace, che dia soddisfazione, fatta con le persone con cui si sta bene.

A quel tavolo c’era anche Giovanni Cuocci, pioniere di questo progetto. 

Un personaggio entusiasta e senza peli sulla lingua, una voglia di fare immensa e lo spirito emiliano: fare il possibile per stare bene tutti.

Abbiamo raggiunto Giovanni al telefono per farci raccontare la storia di questo gioiellino sorto sulle rive del fiume Panaro, dove ragazzi e ragazze con disabilità mentale e fisica hanno costruito un progetto comune con impegno e attenzione verso l’ambiente e il territorio.

Come nasce il progetto La Lanterna di Diogene?

Da subito abbiamo realizzato che ci piaceva coltivare la terra, allevare gli animali e che volevamo trasformare tutto questo in un’osteria per accogliere clienti e avventori; valorizzando il territorio e le persone che lo abitano.

La Lanterna di Diogene nasce in un’area della Pianura Padana abbastanza sfruttata, l’idea era quella di coltivare e allevare in un modo sostenibile ridando vita ai quei microorganismi del terreno e a quel ritmo della natura che si stava perdendo, il tutto si poteva fare applicando un’agricoltura familiare e di sussistenza. Così abbiamo fatto. 

Nel 2006, poi, abbiamo inaugurato l’osteria, che è diventata la punta dell’iceberg, il luogo in cui tutti potevano incontrarci. Coloro che lavorano all’interno dell’osteria sono persone con varie patologie, sono soci della cooperativa e tengono viva l’attività. 

Mi racconti l’origine di questo nome?

Diogene era un filosofo ateniese nato trecento anni prima di Cristo, è conosciuto come padre della corrente filosofica del cinismo, inteso nella sua vecchia accezione – non quella moderna che si dà al termine – quella di vivere come un cane: scodinzolare a chi ti fa una carezza e ringhiare verso chi ti minaccia. Vivere quindi spogli dall’ipocrisia e riappropriarsi dell’essenza e dell’istinto.

L’uomo che ricerca Diogene è quello vero e incarnato, ci rispecchiamo in lui poiché si tratta di un uomo che vive all’interno della società ma non ne accetta tutti i dogmi, vive controcorrente. 

Da questo concetto nasce l’idea di dare spazio anche alle persone che normalmente sono considerate “non produttive”. Noi siamo in Emilia Romagna dove il concetto di salute, purtroppo, combacia con quello del lavoro. Quando la zia va a trovare la nonna all’ospedale e tu le chiedi “Zia come sta la nonna?” Lei ti risponde “L’è un più brut’ lavor’”, cioè è un brutto lavoro: non è quindi abile alla fatica. Pensa, quindi, quanto è radicato il pensiero per cui lo stato di salute coincide con l’attività lavorativa. Noi abbiamo dato spazio a persone che non sono considerate in grado di far parte del mondo lavorativo. Questo ci fa sentire controcorrente, proprio come Diogene. Il fatto di aver preso a cuore il territorio e le persone che lo abitano, senza fare scissione, significa valorizzare il mondo che ci sta intorno.

L’idea era anche quella di dare un futuro professionale a chi, di solito, non ce l’ha

Nasciamo per dare un futuro professionale ed economico a persone che di solito non sono inserite nei circuiti produttivi, poiché considerate “non in grado di…”. Alla Lanterna ognuno partecipa attraverso le capacità che ha, mette un pezzetto di sé e insieme agli altri si fa una cosa buona insieme… buona da mangiare!

Si tratta di una cooperativa sociale, ovvero di un’attività di proprietà condivisa fra tante persone. Tra i soci della Lanterna ci sono i ragazzi e le ragazze assunte e quelli che invece ancora non lo sono. Tutti però siamo proprietari della fattoria e dell’attività.

Vi siete ispirati a qualcuno nel mettere in piedi questo progetto?

Io ho una grossa difficoltà, non ho false modestie, sono gli altri che si sono ispirati a noi e ne sono molto contento. Spero che il mondo sia ricoperto da realtà che fanno attività del genere. 

L’incontro della diversità e della valorizzazione della persona per noi significa mettere insieme tutti, soprattutto connettere persone che hanno problemi molto diversi l’una dall’altra.

Che valore assume il concetto di comunità in una realtà come quella de La Lanterna di Diogene?

È una messa in discussione costante e quotidiana fra tutti. L’attività è strutturata e pensata come uno scambio, proprio come avviene all’interno di una famiglia dove si può non essere d’accordo, si può litigare, ci si può mandare a quel paese, ma nessuno mette in discussione l’affetto. Si mette in discussione il problema, si vanno a toccare le viscere e a volte ci si confronta anche in maniera accesa, ma tutti condividono lo stesso ideale.

Tu da che mondo vieni, che percorso hai fatto?

Io ho fatto tante cose ma ho sempre tenuto a mente e avuto a cuore l’incontro con la diversità.

Per me è sempre stato molto importante non fossilizzarmi su una sola veduta, un solo modo di stare al mondo. Il mio primo passaggio evolutivo è stato quello di crearmi un’identità, dandomi la possibilità di riconoscere pregi e difetti e così di incontrare l’altro. A me non interessano i limiti delle persone, ho bisogno di guardare cosa c’è di positivo e cosa tu puoi mettere nel nostro stare insieme, che sia condivisibile da tutti e due. 

In che modo il territorio e la comunità emiliana influenzano il vostro lavoro?

Purtroppo o per fortuna c’è un’egemonia della cultura emiliana nella nostra cucina, noi usiamo solo prodotti emiliani tranne il cioccolato, il caffè e la vaniglia; tutto il resto, se non lo produciamo noi, lo compriamo da produttori di queste parti, compreso l’immancabile Parmigiano Reggiano. La nostra comunità è composta da tante persone, io dico che a pranzo siamo sempre in venti ma le persone della cooperativa sono di più.

“La disabilità è uno dei molteplici aspetti che ci compongono”, la frase è di Marina Cuollo, autrice e attivista sui temi dell’abilismo. Il concetto che lei esprime è che la disabilità viene sempre raccontata con un alone eroico e idilliaco, tralasciando l’aspetto umano delle persone con disabilità e costruendo dei personaggi che magari nella realtà non esistono. La tua brigata come si racconta al mondo e come parlate, se ne parlate, di disabilità?

Per noi la disabilità è un argomento costante e quotidiano, tutti sanno e se ne parla senza difficoltà. Ci teniamo però a non sottolineare il limite e quello che ti manca, ma preferiamo parlare di quello che hai e che puoi condividere. 

Una volta preso atto del limite facciamo i conti con tutto quello che si può e quello che non si può.

Foto © Francesca Tilio

Gioco di squadra

È da 41 anni che fa squadra. Capitani, gregari, scalatori, passisti, velocisti e meccanici, massaggiatori, direttori sportivi. Ciclismo. E quello di maggio sarà il suo quarantesimo Giro d’Italia. Bruno Reverberi, 79 anni, è lo Zio. Pane al pane, ruota a ruota. Da Reggio Emilia (Bibbiano, per amor di precisione anagrafica) con passione. E mille storie da raccontare, compresa la sua. A cominciare dalla prima corsa, vissuta da corridore: “Nel 1957. La Reggio Emilia-Casina, a cronometro, da non tesserato. Primo Vittorio Adorni, ventisettesimo io. Fra Adorni e me, più vicino ad Adorni che a me, Romano Prodi. La verità è che, già partito, mi accorsi che mi si era staccato il cinturino e caduto l’orologio, allora girai la bici, tornai alla partenza, raccolsi l’orologio, me lo riallacciai al polso e ripartii. Altrimenti non avrei battuto Adorni, ma forse Prodi sì”.

La prima squadra dello Zio è stata quella della famiglia: “C’era una miseria da tagliare con il coltello. Ero il sesto di otto figli, cinque sorelle e tre fratelli. Papà operaio, poi bracciante. Io quinta elementare: superato l’esame di ammissione alla prima media, d’estate andai a fare il garzone di meccanico, ‘me lo lasci qui ché impara bene’ disse il meccanico a mio padre, rimasi lì a lavorare ma piangevo perché avrei voluto continuare ad andare a scuola. Quando cominciai a fare il direttore sportivo, avevo corridori più giovani di me”.

Le squadre di Reverberi hanno sempre corso “alla garibaldina”: “Se vuoi sorprendere quelle più forti, devi muoverti in anticipo, con coraggio, forse con follia, tutti i giorni, tutti all’attacco”. E la squadra si allestisce sempre alla stessa maniera: «I corridori bisogna trovarli quando nessuno li cerca, bisogna prenderli quando nessuno li vuole. Da dilettanti. Solo che i dilettanti sono come i primi fidanzati: sembra che tutto vada sempre a meraviglia. Invece i professionisti sono come gli sposi: quando sono in casa, è tutta un’altra storia»

Se la squadra di Reverberi appartiene alla categoria Professional, la serie B del grande ciclismo internazionale, ma è autorizzata a disputare le gare del WorldTour, la serie A, la squadra di Davide Diacci appartiene alla serie C, ma ha una filosofia e uno spirito universali. Castelnovo Monti, provincia di Reggio Emilia. Basket.

Lui, un Europeo vinto in azzurro con i cadetti e uno scudetto conquistato con la Virtus Bologna, qui è il coach. E sul campo mette tutta la sua storia: “Rinunciai al professionismo, abbracciai la strada. Dodici anni ‘on the road’. Il basket mi aveva insegnato che bisogna saper dare anche se la palla non sarai tu a riceverla. Dare senza voler nulla in cambio. In Sudamerica, davanti alla miseria provavo un senso di colpa terribile, un peso allo stomaco. Mi sentivo un privilegiato, uno che non faceva abbastanza per gli altri. E quando aiutavo qualcuno, mi sembrava di farlo per me stesso, per appagare il mio ego. Ho visto uomini morire davanti ai miei occhi, o vivere come animali, senza niente, nemmeno uno straccio di opportunità. Con il tempo ho capito che non è necessario viaggiare, le risposte sono dentro di noi, in una piccola stanza con un libro in mano e la capacità di sognare si può essere dovunque. L’uomo dentro di sé porta l’infinito. Il basket è una spietata e bellissima metafora dell’esistenza: uno gioca come vive. La sfida con se stessi per superare i propri limiti è l’aspetto più affascinante, il risultato è solo una conseguenza, il bello è che lo affronti con i compagni. La squadra”.

Lo sport di squadra, per la sua stessa natura, e per eccellenza, è il rugby. Lo sanno anche a Imola, terra di confine fra Emilia (geograficamente) e Romagna (culturalmente). In una rotonda in via San Benedetto, adiacente agli impianti sportivi, c’è la scultura di un rugbista, in acciaio cor-ten, mentre passa l’ovale, un gesto infinito (un rugbista non muore mai – recita un antico adagio nel mondo del rugby – al massimo passa la palla). Alessandro Magnani è il presidente della società, la prima squadra in serie B: “Il Covid ha colpito tutto lo sport, ma il rugby ci ha insegnato a tenere duro. Lo facciamo a partire dai più piccoli, minirugby e giovanili. Lo facciamo organizzando il doposcuola (pasti, compiti e rugby), i campi estivi (da metà giugno a metà settembre), e le scuole (promozione e collaborazione). Lo facciamo indirizzando la nostra attività sull’educazione: supervisore è Ilenia Bombardi, pedagogista, e la nostra scelta è stata subito sostenuta dal Comitato regionale. Lo facciamo puntando sul ‘team building’, la costruzione dello spirito di squadra, a cominciare dalla prima squadra diretta dal gallese Sam Morton: per esempio, una domenica di riposo dal campionato, ma non dalla vita, con zappe e picconi a ripristinare un’antica strada sterrata che collega la Romagna con la Toscana. E lo faremo con tutte le nostre forze, dentro e fuori dal campo, aperti, anzi, spalancati a donne, disabili, carcerati. Un’immensa squadra”.

Ma se c’è uno sport di squadra, di squadre, di cui l’Emilia sia da sempre terra e patria, è la pallavolo.

A Modena è anche religione. “Modena Volley – è l’atto di fede statutario – non è solo una società sportiva. Noi siamo una squadra di pallavolo. Uno sport diverso da quelli su cui sono quotidianamente accesi i riflettori abbaglianti della celebrazione individuale. Uno sport dove la squadra è molto più importante del singolo. Uno sport dove nessuno può schiacciare se non c’è uno che alza. Nessuno può alzare se non c’è uno che riceve. Uno sport dove nessuno può fermare la palla. Insieme, noi siamo una squadra. Un team in cui giocano alcuni dei migliori giocatori al mondo. Insieme. Nello stesso quadrato 9×9 dove tutti dobbiamo imparare a muoverci in sincrono. Il quadrato dove insieme vinciamo o perdiamo”.

Quadrati e anelli, rettangoli e pedane. Società e scuderie, quindici e quintetti. Campi e strade, spogliatoi e box. Time out e pit stop, pronti-via e bandiere a scacchi. Adrenalina e acido lattico. Tensione e libidine. Qui si è sempre fatto squadra.

© Francesco Poroli

Educare per combattere

Emanuela Evangelista è biologa e attivista ambientale. I suoi studi l’hanno portata, da Roma in Brasile, Amazzonia. Lì si è innamorata. Del posto. Delle persone. Di una in particolare, Francisco, un nativo del luogo, che oggi è suo marito. E da lì non è mai più andata via. Da oltre vent’anni, da un piccolo villaggio di palafitte, una comunità di 30 famiglie in tutto, lavora e lotta per la conservazione dell’ambiente. Anche grazie al suo aiuto, oggi, la zona è diventata un’area protetta, un luogo dove con lavoro e educazione si combatte il degrado della foresta pluviale.

Emanuela, come sei arrivata a Xixuaú?

Studiavo biologia e stavo preparando una tesi di laurea sui leoni. Oltre a studiare però ero impegnata con il volontariato. Facevo parte di Fondo per la Terra Onlus, una ONG che è stata una fucina di idee negli anni ’90. Abbiamo trovato dei fondi per finanziare la costruzione di una scuola qui in Amazzonia, e così siamo partiti.

Non sapevo molto di questi luoghi. Non ero preparata, non mi aspettavo che questo posto fosse così bello, e ne sono rimasta affascinata. L’ambiente è vivo, fatto più di acqua che di vegetazione. Un labirinto di fiumi e canali che si inoltrano nella foresta. 

Per poterci entrare bisogna usare la canoa. Viaggiando in questa maniera, con calma, silenziosamente, ci si riesce a immergere completamente in questo luogo, e solo così lo si può apprezzare davvero. Solo così si possono vedere e ascoltare gli animali. Le scimmie urlatrici, i caimani… gli uccelli, il canto dell’ara, del tucano…

Amore a prima vista.

Sì, e subito la decisione di farne l’oggetto della mia tesi. Uno degli animali che vivono in questo posto è la lontra gigante. Se ne sapeva poco al tempo. Esisteva un solo studio, fatto da una biologa di Parigi. È una specie a rischio estinzione, sfruttata per farne pellicce. In Europa non la conosciamo. È una lontra, simile alle nostre, ma come suggerisce il nome è molto grande, arriva a due metri di lunghezza. Incontrarla è bellissimo. Vive in piccoli gruppi di dieci o dodici esemplari. Così sono tornata qui, per svolgere la ricerca, e l’ho portata a termine. Nello studiare questo animale però, mi si è rivelato, e ho capito, il suo ambiente, i suoi abitanti. Quanto è prezioso questo ecosistema, come funziona e cosa non funziona.

Spiegami.

Gli abitanti di qui sono cacciatori e raccoglitori. Cacciatori veri, con una conoscenza millenaria dell’ambiente. Sono loro che mi hanno aiutato nello studio della lontra. Conoscono questi posti e le loro risorse naturali come nessun altro. Quindi saprebbero anche proteggerlo, meglio di chiunque. 

Se avessero le condizioni per farlo lo farebbero, ma non le hanno. Quali sono queste condizioni? Mi chiederai. Il primo problema è la povertà. La mancanza di reddito. Sono cacciatori, e da sempre prelevano dalla foresta. Fino a ieri, fino al nostro arrivo, questo avveniva in maniera equilibrata e sostenibile. Oggi invece sono nati il bracconaggio, che ha messo in pericolo la mia lontra e molte altre specie, l’estrazione di oro e altre attività che contribuiscono al degrado progressivo della foresta amazzonica. Fai attenzione a questo termine. Degrado. Un impoverimento progressivo. Questo è un problema differente dalla deforestazione. La distruzione della foresta è un problema che va risolto e per cui bisogna combattere, senza dubbio. Qui però è diverso. Qui siamo dentro una enorme zona interna, lontana dalle aree deforestate. Nessuno qui aveva mai sentito parlare di deforestazione prima che io portassi delle immagini che ho girato da un aereo durante una missione di Greenpeace a cui ho partecipato. Qui il problema è che la popolazione locale, se non potrà sostenersi in altra maniera, continuerà a depredare la foresta, perché non ha alternative. A prelevarne le risorse per poter sopravvivere. In questo modo la foresta amazzonica non muore di colpo come nel caso della deforestazione, ma si indebolisce gradualmente. L’alternativa, la soluzione a questo problema è aiutare la popolazione di queste aree a crearsi un lavoro, alternativo, e aiutarli a sviluppare una coscienza ambientale.

© Barry Cawston

Quale lavoro, secondo te, potrebbero fare qui?

Con Amazônia Onlus, la ONG che ho fondato nel 2004 insieme ad altri attivisti, abbiamo puntato sul turismo.

Non lo gestiamo noi e ne siamo completamente fuori. Li abbiamo solo aiutati a farlo partire. È nata una cooperativa sociale e adesso centinaia di turisti ogni anno vengono a passare qui qualche settimana. Sicuramente è un viaggio interessante per chi viene qui. Un viaggio che si può personalizzare scegliendo cosa vedere e cosa fare. Una vacanza bellissima, indimenticabile, in cui si impara molto. L’ecoturismo ha un grande valore per la comunità locale, non solo per il turista. La nascita del turismo ha avuto un effetto profondo sulla società, perché ha dato vita a un’economia. Spiegato in due parole: se gestisco un’attività legata al turismo, non avrò tempo di coltivare o di costruirmi la canoa, e pagherò qualcuno per farlo al posto mio. Così da un lato nasce un nuovo lavoro, ma non solo, subito al suo fianco nascono nuove opportunità anche per chi non lavora direttamente con il turismo. Nasce un indotto. Lavoro, nato qui, senza depredare le risorse ma sfruttandole in maniera costruttiva e benefica. Sfruttando la bellezza del posto. Da lì, a impegnarsi per mantenerla questa bellezza, il passo è breve. Non gestiamo noi il turismo, lo fanno loro e i ricavi restano a loro. Noi però li sosteniamo, e li aiutiamo a risolvere dei problemi. Quello degli intermediari per esempio. La figura del regatiere, i commercianti che arrivano in barca dalla città carichi di beni di prima necessità, che vendono, o spesso barattano, con prodotti locali, imponendo prezzi bassissimi, privando i nativi del profitto del loro lavoro, e rifilandogli di fatto della merce a quattro volte il prezzo di mercato.

Oltre al lavoro poi, serve un’educazione ambientale.

Tu immagina di non aver mai conosciuto la plastica, e di aver sempre vissuto di frutta, verdura e carne proveniente da raccolta e caccia. Tutto materiale organico. Niente imballaggi. I rifiuti, la buccia di banana, per i nativi è normale buttarli nell’ambiente. La natura segue il suo corso e li rimette in circolo. Ed è un bene che sia così. Quando però invece del frutto, il nativo si trova nelle mani una caramella, una bottiglia o una lattina, farà lo stesso. Mangerà la caramella e butterà la carta nella natura. Solo che ora, inconsapevolmente, sta facendo un danno.

Che impatto ha avuto il progresso su questa gente? 

Da un lato il consumismo, arrivato così di colpo, tutto insieme, ha creato dipendenza, come se fosse una droga. Lo stesso effetto dell’alcol. Non ne avevano mai avuto prima, non faceva parte della loro cultura, vergine, e ne sono rimasti travolti. Dall’altro ha avuto degli effetti molto positivi. Internet per esempio. Qui prima dell’arrivo del telefono cellulare, dello smartphone in particolare, che ha portato la connessione alla rete, comunicare era difficilissimo. Se un membro della famiglia partiva, per studiare in città, a Manaus, oppure per lavorare, era normale non averne notizie per mesi o anni anche. Oggi no. 

Inoltre internet ha dato la possibilità di conoscere, informarsi in maniera pressoché gratuita. Conoscere e farsi conoscere. Dal 2000 a oggi, grazie a internet i nativi hanno portato avanti migliaia di petizioni ed hanno potuto far valere alcuni loro diritti fondamentali. 

Ottenere risultati.

Questa zona, che per darti un’idea, è grande quanto la Corsica, e ospita mille e quattrocento persone in trenta comunità come quella in cui vivo io, oggi è un’area protetta.  Questo ha dato la possibilità ai nativi di proteggere la loro unica vera risorsa possibile per il futuro, e hanno potuto iniziare a sfruttarla in maniera sostenibile. Grazie a internet è nato un circolo virtuoso, la vera possibilità di salvezza, di arrestare il graduale degrado che inizialmente abbiamo innescato con la nostra domanda di beni provenienti da qui. Come la pelliccia della lontra gigante, per esempio. Internet poi, whatsapp soprattutto, è stato fondamentale per contrastare il diffondersi del Coronavirus. La vera informazione sulla pandemia si è diffusa con whatsapp, più che in ogni altra maniera. E probabilmente questo li ha salvati. Conta che da qui si riesce ad arrivare al primo ospedale in 17 ore di barca. Se hai accesso a una barca.

© Eve Vitrugno

Raccontami di Amazônia Onlus.

Amazônia Onlus è una ONG, nata nel 2004 come incontro di competenze differenti. Scienza e arte in particolare. Tra i soci fondatori oltre a me ci sono fotografi (Luca Locatelli, bravissimo e pluripremiato), Gianluca Di Pasquale, ingegnere ambientale. Persone che possono aiutare concretamente e persone in grado di comunicare e far conoscere queste zone ancora intatte, che hanno bisogno di aiuto per rimanere tali. I nostri obiettivi sono: proteggere la foresta tropicale, garantire agli abitanti locali la salute, la dignità culturale, l’educazione, la formazione e uno sviluppo sostenibile, in modo da combattere l’emigrazione verso i centri urbani. Da quando siamo nati abbiamo contribuito a costruire scuole, pozzi artesiani, orti comunitari e un ambulatorio. Abbiamo installato, grazie ai nostri donatori, pannelli solari e filtri per purificare l’acqua. E poi corsi di formazione in agricoltura e infermieristica.

Come vedi il futuro di questa zona?

Le nuove generazioni, quando possono, lasciano il villaggio e vanno a studiare. Non sono molti. Solitamente le famiglie possono permettersi di pagare le scuole solo al primogenito.  Chi va via perde il grande bagaglio di conoscenze e tradizioni. Ma vanno in città ad acquisire nuove competenze, che poi, in alcuni casi riportano qui. Noi lavoriamo per aiutarli a crescere in una maniera che conservi e non distrugga tutto il loro patrimonio culturale e naturale. Aiutandoli fisicamente, qui, con le nostre competenze, e raccontando la loro storia.

L’ultima cosa che mi racconta Emanuela, è la storia del Boto vermelho, un delfino rosa, considerato, in quei luoghi, un animale sacro. La leggenda dice che il Boto si possa trasformare in un uomo, sempre giovane e bellissimo, che arriva nei villaggi della foresta durante la notte. Unico indizio per riconoscerlo è il cappello, che porta sempre per nascondere lo sfiatatoio. Nella notte il Boto seduce le ragazze, e nove mesi dopo nascono i suoi figli.  Si dice anche che sia il guardiano di un mondo ultraterreno, sottomarino. Una sorta di Atlantide, in cui talvolta porta un uomo, ma da cui nessuno ha mai fatto ritorno. Cacciare il Boto, non solo è proibito, ma porta sfortuna. Un mito, una storia che si tramanda da secoli, forse nato per proteggere i bambini nati fuori dal matrimonio. Certo.  Leggenda o verità che sia, però, il tramandarsi di questa storia, di fatto, ha protetto il delfino rosa e lo ha salvato dall’estinzione.

Il potere delle storie. 

Ecco perché è importante che Emanuela e i soci di Amazônia Onlus continuino a raccontare dello Xixuaú, della lontra gigante e del Parco dello Jauaperi. Perché così possono aiutarli a sopravvivere. A crescere, in maniera alternativa, preservando la loro identità, mettendo la conoscenza della foresta tropicale a servizio di attività sostenibili, che rafforzano la foresta da dentro, valorizzandola, rendendola una risorsa ancora più preziosa. E in grado di resistere.

Fotografie courtesy of Emanuela Evangelista (Barry Cawston, Emiliano Mancuso, Erik Falk, Eve Vitrugno)
Foto di copertina di © Luca Locatelli

Alla scoperta dell’Emilia-Romagna in bicicletta

Giovannino Guareschi, nella prefazione al primo volume dei racconti di Don Camillo e Peppone, definì affettuosamente l’Emilia “quella fettaccia di terra fra Po e Appennino”; se la conosceva bene, non era solo per via delle sue radici affondate nella Bassa parmigiana, ma perché l’aveva battuta palmo a palmo in bicicletta.
Già una decina d’anni prima, infatti, e precisamente nella torrida estate del 1941, si era preso il lusso di seguire per intero la Via Emilia a cavallo della sua Umberto Dei Superleggera.


Il suo raid ciclistico, porzione principale di un più articolato “giretto” da 1200 chilometri partito da Milano, lo aveva visto entrare nella regione natale varcando il grande fiume alle porte di Piacenza, per toccare una dopo l’altra le città allineate lungo la vecchia strada consolare, giù giù sino a Rimini; lo scrittore poi si era portato a Ravenna e di lì a Ferrara, quindi aveva passato nuovamente il Po, per completare il suo periplo rientrando a Milano attraverso il Veneto e la Lombardia. 


La cronaca di quel viaggio – a tratti tragicomica, in altri passi intrisa di poesia – era apparsa sul Corriere della Sera suddivisa in sei generose puntate, e nel riprenderla in mano oggi ci si ritrova assediati da una tentazione irresistibile di seguire le sue tracce.
Certo, ottant’anni fa il traffico era assai ridotto rispetto ai nostri giorni, e percorrere per intero la SS9 in bicicletta potrebbe risultare frustrante e pericoloso. In compenso, negli ultimi anni sono fiorite in ogni provincia le piste ciclabili, alcune delle quali di media o lunga percorrenza. Nel visualizzarle su una moderna mappa elettronica, è stato naturale assemblarle come tessere d’un mosaico, così da regalarci un’esperienza che rispettasse – se non nell’itinerario, perlomeno nello spirito – quella di Guareschi.


Così abbiamo inforcato la bici anche noi, e da Milano, sfruttando la ciclabile che segue il Naviglio siamo giunti a Pavia; di lì è bastato seguire i segnavia biancazzurri che scandiscono il percorso ciclabile della Via Francigena per arrivare al Po giusto di fronte a Piacenza. Uno spuntino a base di frutta fresca acquistata al mercato di Piazza Cavalli, e la nostra avventura a pedali in terra d’Emilia ha avuto inizio .


La nostra regione è l’unica d’Italia che tragga il suo nome da una strada, e se è vero che in ogni nome si cela un destino, forse è fatale che ci sentiamo a casa nel traversare ogni sua contrada; la sicurezza del fiume che scorre eterno verso l’Adriatico e dell’Appennino che chiude lo sguardo verso Sud ci basta per orientare la nostra rotta.
Da Piacenza abbiamo seguito la pista che corre sopraelevata lungo l’argine maestro, lasciandoci indietro un’ansa dopo l’altra, a nostro agio fra gli orizzonti rarefatti delle golene e i campanili che svettano sul lato opposto a segnalare in distanza i paesi rivieraschi. Trascurata l’imboccatura del ponte che conduce a Cremona, abbiamo proseguito in riva destra sfiorando Castelvetro e Villanova, quindi ci siamo inoltrati verso l’interno seguendo la riva del torrente Ongina, liquido confine con la provincia di Parma.

La villa di Giuseppe Verdi presso Sant’Agata ha segnato il nostro ingresso nelle terre del grande compositore che furono anche, nel secolo successivo, quelle di Guareschi; dopo una conveniente sosta a Busseto, ci è bastata una pedalata di un quarto d’ora per giungere a Roncole Verdi, dove sorgono a un tiro di voce una dall’altra la casa natale del musicista e il locale che lo scrittore adibì a ristorante, oggi trasformato in casa-museo e presidiato con devozione dal figlio Alberto e dalle nipoti.


Scaglie di Parmigiano Reggiano e salumi del territorio serviti con la torta fritta, tortelli d’erbette e garganella al prosciutto, magari accompagnati da un buon calice di Gutturnio o di Malvasia, ricompensano il ciclista d’ogni fatica, e l’indomani si è pronti a ripartire verso Parma seguendo la pista che costeggia il Taro.


Imboccata la ciclabile che affianca il tratto urbano della via Emilia, l’abbiamo lasciata per concederci un ingresso scenografico in città attraverso il Parco Ducale, il Ponte Verdi e i cortili selciati della Pilotta, quindi abbiamo ricoverato le bici nel garage della locanda prescelta per la notte e ci siamo concessi un pomeriggio da turisti.
Ancora un giorno e, seguendo le indicazioni “Food Valley Bike” verniciate in bianco sull’asfalto delle ciclabili, siamo tornati sul Po per visitare Brescello, col suo museo dedicato a Don Camillo e Peppone, quindi le vicine Gualtieri e Guastalla, gioielli della provincia di Reggio Emilia.

Dopo Luzzara, il paese di Cesare Zavattini, che di Guareschi fu maestro, siamo entrati nell’Oltrepò mantovano, quindi la ciclabile della Secchia ci ha condotti a solcare da nord a sud la Bassa modenese, terra di merende a lambrusco e gnocco fritto; a Mirandola abbiamo trovato l’ultima nata fra le piste d’Italia, la Ciclovia del Sole, che sfrutta il sedime d’una ferrovia dismessa e porta dritti al Pontelungo, che ispirò un grande romanzo a Riccardo Bacchelli e segna la porta d’ingresso a Bologna.
Tortellini e tagliatelle al ragù, cotoletta petroniana e bolliti si sono imposti da sé; l’unica incertezza, alle tavole del capoluogo, può riguardare i vini: meglio guardarsi alle spalle e puntare su un rosso frizzante, rivolgersi alla vicina Romagna con un Sangiovese, o sfruttare l’offerta locale? A ciascuno la propria scelta, l’importante è stare fra amici, e se non c’è musica si può sempre cantare.

La sponda del canale Navile, poi quella del Reno, e siamo arrivati al mare presso Casalborsetti, il più settentrionale fra i lidi ravennati; una notte nella maestosa città bizantina, poi il viaggio riprende attraverso la pineta; ecco la torre del sale di Cervia, ecco le vele ocra e ruggine dei bragozzi all’ancora nel porto canale di Cesenatico, e l’ingresso a Rimini non può che avvenire pedalando sulle pietre vecchie duemila anni del Ponte di Tiberio.
Piada ai sardoncini, cappelletti e strozzapreti con stridoli e guanciale, pescato fresco; sarà vero che la Romagna ha inizio dove nell’accoglierti in casa non ti offrono più acqua ma vino, resta il fatto che alzarsi da tavola rischia di diventare problematico.


Poi ancora la Riviera, di sotto in su, di nuovo Ravenna, e finalmente le piste sterrate che aggirano le Valli di Comacchio con le loro colonie di fenicotteri. La composta bellezza di Ferrara, cantata con malinconica maestria da Giorgio Bassani, ha un che di struggente; da lì non resta che puntare il Delta, dove il grande fiume che ci ha dati il benvenuto in Emilia si apre a ventaglio verso il mare.


Un rumoroso passaggio su un ponte di barche e ce la siamo lasciati alle spalle per intero, la nostra “fettaccia di terra”, regione-femmina madre di scrittori e musicisti, generosa con i suoi ospiti e ancora capace di sorridere, ché a mugugnare e piangere ci pensano già in troppi.

Illustrazione cover © Luca D’Urbino

L’amore per la natura come antidoto alla paura

“Quando ero sull’isola di Budelli, raccoglievo sempre i mozziconi in un secchio, per non lasciarli sulla spiaggia”.

E la spiaggia è quella di Budelli, piccola meraviglia nel cuore dell’arcipelago sardo della Maddalena.

“Ai turisti chiedevo sempre: e voi cosa fate ogni giorno per l’ambiente? Solo qualcuno mi rispondeva: io raccolgo la plastica. Ecco questa è una buona idea, una piccola cosa. Quindi alzavo il tiro e chiedevo: raccogli anche la plastica che lasciano in giro gli altri?”.

Oltre alla raccolta delle sigarette e della plastica, l’isola di Budelli aveva bisogno di una protezione speciale, perché era l’unica spiaggia del mar Mediterraneo ad avere un colore rosa naturale. 

“E quasi nessuno che dicesse di raccogliere anche i rifiuti altrui”.

Era rosa la spiaggia. Ora non lo è più. Perché vent’anni di accesso libero alla baia di Cala del Roto hanno cancellato un lavoro della natura durato diecimila anni. Qualcuno portava via la sabbia inconsapevolmente, infilata nei costumi, nei vestiti, nelle ciabatte.

“Io tento di spingere i più volenterosi, i più attenti, i più altruisti ad aver cura, a rispettare la bellezza. Dei luoghi. Della natura. Degli animali. Delle persone”.

Alcuni turisti portavano con loro dei barattoli e quando arrivavano nella baia prendevano tutta la sabbia che potevano.

“Me le immagino queste persone, nel chiuso delle loro case, con il loro tristissimo vasetto di vetro. E la sabbia rosa intrappolata. Quella sabbia senza il mare di Budelli, il sole di Budelli al mattino, i colori del tramonto… Senza il vento di tramontana”.

Anche il vento è cambiato: “Negli ultimi cinque, sei anni, non c’è più il vento del nord, che porta qui i piccoli detriti. C’è un persistente vento umido da sud, acido, che corrode il calcare, lo porta via”.

La Spiaggia Rosa di Budelli resta un posto speciale, sempre unico nel Mediterraneo. Per trentadue anni la bellezza dell’isola di Budelli è stata custodita da un solo uomo, che l’ha abitata e protetta. Quell’uomo si chiama Mauro Morandi e la sua vita è un paradigma del rapporto ideale tra noi e la natura.

“Quando ha saputo, qualcuno è tornato a restituire un po’ della sabbia che aveva portato via. E così anche quel qualcuno ha compreso il senso della bellezza che cerco di trasmettere a tutti”.

Conosco Mauro per telefono, e gli chiedo di raccontare la sua esperienza straordinaria. Partendo proprio da quella bellezza, che per lui ha un senso profondo e concreto: “La sabbia dell’isola di Budelli è composta dal carbonato di calcio ricavato dalla polvere di vegetazione marina simile al corallo, di gusci di piccoli molluschi, di conchiglie e del granito di cui è fatta tutta l’isola”. Anche ora che il colore è meno visibile, resta un posto che può davvero illuminare i sogni più belli di chiunque l’abbia visitata.

Il tempo di Mauro sull’isola, però, è finito: “Ora vivo alla Maddalena. A marzo mi hanno chiesto di andare via perché dovevano fare dei lavori per riportare la casa dove vivevo alla forma originaria. È una costruzione militare degli anni Quaranta, tutta in granito. Le pareti sono spesse 70 centimetri. Sembra destinata all’accoglienza per le associazioni che gestiranno l’area naturale. Ma anche in quel caso avranno bisogno di un custode, altrimenti succede come sulle isole dell’arcipelago rimaste senza guardiani. Arrivano e portano via tutto quello che si può portare”.

In questi mesi Mauro ha lottato perché non voleva lasciare quella che dal 1989 è stata la sua casa, ma dopo la lotta è arrivata la scelta: “Anzitutto ci sono ritornato per portare via le mie ultime cose, e non ho provato granché. A 82 anni ho preso il coraggio a due mani e deciso di restare a vivere qui alla Maddalena. Anche perché il 2020 per me è stato durissimo. La pandemia non ha permesso alle persone e anche agli amici di portarmi la spesa con frequenza. Mi sono nutrito di cibo in scatola. Il maltempo ha impedito ai pannelli solari di funzionare a sufficienza, perciò non avevo abbastanza acqua calda ed elettricità”. 

Per poco più di vent’anni, fino al 1994, la battigia di Cala di Roto, nell’area a sud-est dell’isola, è stata aperta ai turisti, poi è stato istituito il parco naturale con la relativa chiusura ai bagnanti. Allora Mauro era lì da cinque anni e lavorava per la compagnia svizzera che gestiva l’isola. Quando la legge sul divieto di costruzione nelle aree protette è diventata esecutiva, l’azienda è fallita.

Mauro racconta il modo rocambolesco con il quale è cominciata la sua seconda vita: “Vivevo a Modena, dove sono nato, e insegnavo educazione fisica. A cinquant’anni volevo trovare un altro modo di vivere, basato solo sulla natura e quello che mi poteva dare, e non sul capitalismo occidentale. Con cinque amici coltivavo il sogno di andare in Polinesia, perciò nel 1989 affittammo un catamarano ormeggiato a Gallipoli. Da lì pensammo di fermarci in Sardegna, per lavorare nel settore turistico il tanto che ci sarebbe bastato per ripianare i debiti e proseguire il viaggio”.

Perché la Polinesia? Nel 1989 avreste trovato comunque un sistema capitalistico ad aspettarvi. “Era un sogno da bambini. Io leggevo moltissimo, e in tutti i libri sui pirati e sui viaggi, si menziona la vita in queste isole deserte come un obiettivo da raggiungere a qualsiasi costo”.

La grande romanziera che è la vita, però, mise Mauro di fronte a un bivio: “Quando arrivai a Budelli per visitarla, incrociai il vecchio custode che mi disse che dopo due giorni sarebbe andato via, perché la quotidianità era molto faticosa, e che la moglie non ne poteva più della solitudine e del freddo d’inverno, del caos e del caldo estivi. Così mi informai sul suo lavoro e sul compenso mensile, che era di un milione e mezzo di lire. Parlammo con il responsabile della compagnia nell’arcipelago, e due giorni dopo cominciò la mia nuova vita”.

E qualcuno in Polinesia c’è arrivato, quella volta? “No. All’inizio tutti e cinque provammo a lavorare come custodi, dividendo la paga, ma era davvero impossibile. Tre dei miei amici tornarono indietro, dove li aspettava il loro lavoro da sommozzatori. Restai con la mia compagna e un amico. L’anno seguente, però, il mio amico ebbe un ictus e poco tempo dopo morì. La mia compagna tornò sulla terraferma e mi venne a trovare sempre più di rado, in estate, perché poi si è ammalata e tre anni fa è morta anche lei”.

Il giorno in cui sono andati via tutti è cominciata davvero l’esperienza di colui che avrebbero definito “l’eremita di Budelli”. Com’era la sua routine? “D’estate molto caotica. Bisognava fare attenzione che i bagnanti non entrassero nell’area proibita. Ma un conto è farlo con la forza e un altro con la dolcezza”.

E l’inverno? “Facevo affidamento sui pannelli solari per l’energia elettrica, al solare termico per l’acqua calda, raccoglievo qualche ramo secco per il fuoco. Perché non si devono strappare i rami, né recidere i fiori dell’isola, altrimenti si perde la connessione con l’armonia che la governa. All’inizio usavo un piccolo frigo a gas, e anche un fornello. E raccoglievo la scarsissima terra che si trova qua e là tra la roccia. Sono riuscito solo a coltivare qualche pianta aromatica e…dieci ciliegini”. Come ha imparato a curare la natura? “Da mio padre. Che era anche lui un custode, ma di scuola elementare, e che possedeva un po’ di terra che mi ha insegnato a coltivare”. 

Ha abbandonato ogni comodità, ha abbracciato la solitudine d’inverno e un’attitudine serafica al dialogo d’estate.

Che cosa gli ha lasciato questa dedizione all’essenzialità? “Mi ha fatto capire quante cose non ci servono, e di quante nevrosi viviamo, quante cose inutili inseguiamo. Io indosso ancora i maglioni che avevo prima di venire qui, quando con la mia compagna gestivamo un negozio di cose che adesso chiamiamo vintage, ma all’epoca erano conosciute come Stracci America. E anche in questo caso si vede come i maglioni di una volta erano fatti per durare, non come oggi, che si butta via tutto ogni tre mesi perché le cose si rovinano quasi da sole”.

Negli ultimi anni, Mauro è stato attivissimo sul web. Ha i principali canali social e molte delle foto che si trovano su Google Maps sono sue. Gli chiedo come abbia imparato a destreggiarsi: “Non sapevo fare nulla. Qualche anno fa ho parlato con una famiglia qui in vacanza. Mi hanno detto di chiedere all’esperta, cioè la figlia di 7 anni. Lei aveva un tablet. All’inizio si muoveva veloce. Le ho chiesto di rallentare e di parlarmi come se fossi un bambino inesperto, non come lei. E lei è stata bravissima”.

Se l’inizio della sua avventura è stato raccontato nel libro “La poltrona di ginepro”, edito da Rizzoli nel 2019, l’elaborazione finale della sua esperienza sarà contenuta in un libro in uscita entro la primavera del 2022. Mi racconta con entusiasmo di una produzione cinematografica americana sulla sua storia. Come ha vissuto l’attenzione mediatica sulla sua vita? “Credo che i più curiosi vogliano conoscere i dettagli perché hanno paura di fare da soli quello che ho vissuto io, ma non devono avere paura”. 

Qual è la sfida che attende il signor Mauro Morandi, pensionato che vive alla Maddalena?

“Il compromesso con la società per ottenere un minimo di comodità che mi permettano di vivere serenamente i miei anni. E poi l’impegno costante per trasmettere il mio messaggio”.

Qual è il suo messaggio più importante? “Che facendo scelte come la mia, la paura scompare. Di cosa avere paura? Animali feroci sull’isola non ce ne sono, e comunque gli animali rispondono ad alcuni istinti. Gli unici di cui aver paura sono gli uomini, che però possono essere educati all’amore. E all’amore si arriva per mezzo dell’osservazione della bellezza, che è ovunque e in ciascuno di noi”.

Foto © Alessio Cabras / Scaglie / LUZ